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Monday, 20 October 2014 00:00

Ragionando

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(La trama)
Un giovane si crede Amleto. I parenti cercano di fargli "tornare la ragione" inscenando una menzogna che somiglia proprio all'opera britannica ma, questa menzogna, ha un effetto disturbante ed imprevisto: il giovane uccide lo strozzino di cui la famiglia è vittima, costringendola alla fuga. Assolto il dovere della trama, cominciamo a ragionare.


(su Amleto)
Amleto non è folle ma recita la sua follia, non ha perso il senno, non s’aggira sperduto nel luogo in cui si trova e non è privo di consapevolezza su ciò che ha da fare. Amleto è, al contrario, l’unico che – osservato il reale – riconosce il reale per quello che è.
Lurida è la madre, macchiate di sangue sono le mani dello zio, una schiera di serventi coloro che lo attorniano. Portatore di moralità in un contesto d'immoralità, Amleto vendica il padre nel modo più cruento, dirompente e rivoluzionario: facendo teatro ovvero imponendo, con la menzogna, la verità a tutti coloro che accettano per verità una menzogna. Strappa il velo, smaschera, informa, denuncia: fa in modo che ascoltino coloro che non vogliono sentire, che guardino coloro che si rifiutano di vedere, che sappiano coloro che preferiscono non sapere.
“Ed io sarei dunque vendicato cogliendolo così, mentre si purga l’anima, pronto e maturo al trapasso?”. Questa battuta appartiene al terzo atto: lo stesso della famosa tirata sull’”Essere o non essere”, lo stesso della lezione data agli attori. Amleto si trova “a tiro” Claudio, in ginocchio a pregare. Potrebbe trapassarlo, farla finita, spedirlo in cielo. Se lo facesse, se cioè compisse il gesto più facile e immediato, Amleto non sarebbe più Amleto: sarebbe un Enrico, un Eduardo, un Riccardo qualsiasi e il suo dramma non sarebbe più un dramma ma una tragedia o un’opera storica, una di quelle in cui un re è ucciso da un usurpatore che sarà a sua volta ucciso dal figlio del re che sarà, di nuovo, ucciso da un usurpatore: finirebbe, cioè, nel grande meccanismo della Storia e del Potere shakespeariano.
Invece è Amleto proprio perché non compie l’assassinio ma si affida all’arte, perché fa del castello un teatro, della corte un palcoscenico.

(su Amleto Barilotto)
Ragionare su Amleto serve per cercare di comprendere se Hamlet Travestie è davvero un rifacimento dell’Amleto, come si sente sussurrare da molti, in platea, dopo aver visto lo spettacolo. L’Amleto Barilotto di Hamlet Travestie – che abita una topaia, che è costretto a vendere coperte al mercato, che ha un padre suicida, una madre e uno zio come ossessioni casalinghe, una fidanzata svampita e delusa – è davvero un altro Amleto? È davvero un altro Amleto questo Amleto Barilotto che legge troppi libri, che ha conosciuto i pensieri, il cui cervello adesso macina realtà differenti dalla realtà in cui si trova? La risposta potrebbe essere “no”. Hamlet Travestie non è un Amleto in chiave burlo-napoletano; non lo è per almeno due motivi:
1) Amleto Barilotto non recita ma osserva persone che recitano, non fa teatro ma riceve e subisce il teatro: perso nei propri ragionamenti, abulico, isolato all’interno della sua stessa casa, in pigiama per tutto il giorno e con addosso una coperta, incapace di muoversi, tediato, infiacchito, diventa l’oggetto di un’operazione teatrale che non gli appartiene, in cui non ha ruolo, ma di cui è il destinatario. Mentre l’Amleto dell’Amleto è il regista dello spettacolo che va in scena al castello di Elsinore, l’Amleto Barilotto di Hamlet Travestie è lo spettatore di una farsa che altri allestiscono per lui e il cui regista è il Professore.
2) Amleto ha ben chiaro chi è chi e cosa davvero è accaduto; non commette errori di valutazione, elabora una strategia della finzione, la conferma, la realizza ottenendone i risultati in cui ha sperato. Amleto Barilotto invece confonde i piani, struttura riflessioni erronee, si lascia suggestionare dalla lettura dell’opera di Shakespeare invocando un fantasma che non esiste e pensando a un omicidio che non c’è stato. Se Amleto sembra un pazzo, Amleto Barilotto è invece pazzo per davvero ma di quella pazzia che chiamiamo sconforto, abbandono di sé, depressione. Lui non interpreta la propria follia ma la vive e il suo non è “l’ornamento del dolore” ma un dolore vero e proprio: che gli abita il petto, che gli offusca la mente.
Presi questi due motivi viene quasi da scrivere che Amleto Barilotto, piuttosto che al principe danese, somiglia a un suo coetano: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Come Don Chisciotte s’invaghisce della scrittura fino a sprofondare giorno e notte lo sguardo tra le pagine; come Don Chisciotte scambia la fantasia per il vero ed il vero lo affronta per suggestioni, abbagli, citazioni; come Don Chisciotte crede di essere ciò che non è e crede che sia ciò che non è stato mai.
A suggerirlo è una scelta registica di Hamlet Travestie: Amleto Barilotto si aggira, per quasi tutto il tempo, con una copia dell’Amleto di Shakespeare tra le mani. Perché? Conosce il testo a memoria, lo ha letto e riletto centinaia di volte, potrebbe recitarlo dall’inizio alla fine tanto che ne usa frammenti per commentare ciò che gli capita, per dialogare con chi ha di fronte. Potrebbe fare a meno di questo libro, insomma, se fosse Amleto per davvero. Invece ha bisogno della sua copia Einaudi e ne ha bisogno proprio perché non è Amleto, perché non è il personaggio che desidera invece diventare e di cui vorrebbe prendere il ruolo e le sembianze, l’arte e la funzione.
È la copia dell’Amleto che ci dice che Amleto Barilotto non è Amleto e che Hamlet Travestie non è una riproduzione del dramma di sir William.
Ed allora cos’è davvero l’opera di Emanuele Valenti e Gianni Vastarella?

(su Hamlet Travestie)
L’impressione è che sia un lavoro sulla farsa come genere, sulla parodia come strumento artistico. L’impressione è che Hamlet Travestie sia una piccola lezione su un teatro che giace dimenticato da molti, in fondo al baule dove sono gli spettacoli passati, dove sono gli esperimenti che troppi giudicano ormai inservibili: è, piuttosto, su Petito il lavoro di Valenti e Vastarella ed è sulla demistificazione folle, comica e sbalorditiva del teatro ‘serio’ operata (anche) da Petito.
L’impressione è che il lavoro di Valenti e Vastarella – prima che sull’Amleto di Shakespeare e sulla versione burlesque che ne fece poi John Poole – sia su quella parte della produzione petitiana che ha per titoli Virginia e Madama Virginia, No Sansone a posticcio, Na bella Elena, Flik e Flok e, naturalmente, il Don Fausto. Commedie di tragedie; demistificazioni popolari di opere serissime e di mode culturali; argute trasformazioni dovute alla bravura artigianale e pratica del teatro per cui col lutto si fa festa, col pianto si fa sorriso.
L’impressione è che Hamlet Travestie di Valenti e Vastarella metta assieme Poole e Shakespeare, e gli studi su Poole e Shakespeare, per proporre un discorso che parte da Petito e che finisce per riguardare la parodia in quanto parodia: un modo buono ancora di fare teatro, purché lo si sappia fare con mestiere.
Petitiano fino all’essenza è quindi Hamlet Travestie. È petitiano perché la drammaturgia si fonda quasi interamente sul Don Fausto; è petitiano perché ne riprende l’uso del vernacolo anche se in versione Novecento; è petitiano perché utilizza le più consuete (e funzionanti) strategie della comicità da palcoscenico: l’aggroviglio dei corpi, il giro vorticoso in tondo, l’inseguimento e la caduta, l’incomprensione dialogica, il doppio piano linguistico e d’azione, l’alternanza di alto e basso e l’interruzione continua di una frase, la ripetizione di una scena.

(sulla parodia)
"È da lì che ho preso spunto...".
Sappiamo che la parodia svela la sua nascita, mostra la sua genesi. Così l’Hamlet Travestie di Valenti e Vastarella racconta la progressiva composizione drammaturgica dello spettacolo, citandone le fonti, risalendo ai titoli e agli autori: fino, per intenderci, all’Historie Danicae Libri di Saxo Grammaticus, i cui libri III e IV sono dedicati alle vicende del leggendario Amleth, principe e poi re dello Jutland.
"Ecco qua, l'attore giovane...".
Sappiamo che la parodia mostra i trucchi del gioco teatrale ed allora Hamlet Travestie offre le luci che toccano simbolicamente gli oggetti della scena, l’apparizione improvvisa degli interpreti, l’entra-ed-esci da una quinta, la posa immobile del gruppo, la recita nella recita e lo spettatore interno allo spettacolo, la camminata senza muoversi, la bussata di porta fatta allo sgabello e il trascinamento di un dolore recitato, l'ostentazione gestuale e manierata, il cambio d’abito realizzato a vista, le mutazioni scenografiche compiute dagli attori.
"... che figura 'e mmerd'!".
Sappiamo che la parodia è genere da calco e da ricalco, da voce alta, da maschera carnale. Ecco allora, in Hamlet Travestie, il grottesco delle immagini, la caratterizzazione trash delle figure, la caricatura mimica del volto, la sonorità da vicolo e la composizione di micro-scenette dall’impatto velocissimo, immediato.
Hamlet Travestie è, dunque, una parodia e della parodia ha l’apparenza leggera, smaniosa, divertente: il pubblico ride, applaude, apprezza gustando la trasfigurazione del reale in un campionario di momenti mimici, di buffonerie animate. Ma – come ogni parodia che si rispetti – Hamlet Travestie rivela invece, a un occhio attento, soprattutto un notevole spessore testuale che, nel caso, deriva dalla capacità di mettere in relazione temi, stili e contenuti: l’autodiscorso sul teatro ("E intanto stiamo andando avanti col teatrino"), il dramma della solitudine (si pensi alla contrapposizione musicale tra Where Do You Go To My Lovely di Peter Sarstedt e Per un'ora d'amore di Luciano Caldore), la follia biografico-letteraria ("Era meglio se mi chiamavi Antonio...") e la burla ridicola ma atroce (l'apparizione dello spettro con l'uso del vetro della doccia), la degradazione sociale ("Ottocento euro di pensione con tutto l'accompagnamento") e la trama composta di trame, la pochade d’avanspettacolo, la tragedia di vendetta.
Così possiamo scrivere che nell’Hamlet Travestie visto al Bellini c’è Faust e Don Fausto, l’ur-Faust e l’ur-Hamlet, Amleto e il copione dell'Amleto; c'è la corte di Elsinore, un mercato di Napoli, il diavolo e lo spettro; c'è una lezione data agli attori e la smentita di questa stessa lezione; c'è il cavaliere errante, la scrittura e la sua influenza, il teatro e il suo spettacolo. E c’è Petito, con le sue atmosfere comunque tese, crudeli e corrosive; c’è Petito, capace – tra una sganasciata e l’altra e per dirla proprio con Amleto –  “di reggere lo specchio alla natura”.

(sulla natura del reale)
C’è – in Hamlet Travestie – anche questa natura abbruttita, volgare, affaristica, fatta di relazioni colme d’astio silenzioso, di mancanza di rispetto reciproco, di tangenti pagate alla malavita; fatta di calcolo d’interessi usurai, di denaro che genera servitù, fatta di furbizia e d’abuso in assenza della legge; c’è questa natura paludata, stagnante, scura quant’è scuro lo spazio nudo e vuoto sopra il palco; c’è questa natura a cui si appartiene – contesto urbano in cui si nasce, si cresce, di cui si prende consapevolezza progressiva – ma in cui ci si sente stranieri, da cui si vuole provare anche a fuggire. C’è la natura sociale ammalata in Hamlet Travestie, e c’è il desiderio di sottrarsene, di allontanarsi, di trovare una possibilità di ribellione e di lontananza, di distacco, di sottrazione: "Ornella, ma perché non ce ne andiamo?".
C’è il dramma – questo sì vero, ben oltre il palcoscenico – dell'essere “così tanto famiglia” (nucleo, quartiere, città, Paese) pur essendo “così poco simili”.
C’è il dramma – questo sì amaro, nonostante il gioco parodico – di essere o di sentirsi soli, differenti di una differenza che estranea, che ammorba, che schiaccia o che spinge al gesto estremo, che porta al tentativo disperato e doloroso.
C’è, in Hamlet Travestie, la descrizione del rapporto impossibile tra l’individuo e il mondo nel quale l’individuo è costretto a muoversi, c’è il tema della conoscenza di sé e degli altri, della sincerità con cui ci guardiamo e guardiamo ciò che ci riguarda; c’è la messa in scena dell'abbattimento umorale, della rivendicazione orgogliosa, del contrasto emotivo, della rivolta personale. C’è il peso dell'origine, l’insopportabilità dello stato presente, la voglia e il desiderio di futuro. C’è il fallimento, a cui siamo indirizzati, e la volontà difficile di non arrendersi a questo stesso fallimento: magari cercando un cambio, una rinascita e l'affermazione di un destino differente, un volo, un sogno, un'illusione, una magia.
Ed è questo, in fondo, ciò che unisce Faust e Don Fausto, Don Chisciotte e Amleto, i Barilotto e Punta Corsara.
È l’ultimo pensiero fatto, durante lo spettacolo.
Poi il rumore degli applausi.

 

 

 

 


Turn Over. Più spazio per crescere

Hamlet Travestie
da John Poole e Antonio Petito a William Shakespeare
di Emanuele Valenti, Gianni Vastarella
regia Emanuele Valenti
con Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Carmine Paternoster, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella
dramaturg Marina Dammacco
disegno luci Giuseppe Di Lorenzo
spazio scenico Emanuele Valenti
immagini di scena Lucia Baldini
produzione 369gradi
in collaborazione con Teatro Franco Parenti
con il sostegno di Olinda, Armunia/Inequilibrio Festival, Fuori Luogo
lingua italiano, dialetto napoletano
durata 1h 20'
Napoli, Teatro Bellini, 16 ottobre 2014
in scena 16 ottobre (data unica)


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