“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 06 October 2014 00:00

Sette giorni con Eugenio Barba

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"L'Odin è cominciato come un gruppo teatrale che...".
                                                   (Eugenio Barba)


"Il canto dell'Odin Teatret sarà tra poco alle ultime note.
L'energia non impone ancora limiti, ma la biologia lo farà
presto. Ineluttabilmente, a una data che si approssima
ogni giorno di più".
                                              (Thomas Bredsorff)

 

 

In vista dell’incontro con Eugenio Barba ho letto di Eugenio Barba. Ho letto i testi di Franco Perrelli (Gli spettacoli di Odino) e di Tony D’Urso (Viaggi con l’Odin Teatret), ho letto i contributi di Franco Quadri e di Mirella Schino, ho letto i taccuini di Julia Varley e Roberta Carreri. In vista dell’incontro con Eugenio Barba ho letto Eugenio Barba: La canoa di carta; Il cavallo cieco; La terra di cenere e diamanti; Bruciare la casa e Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta.

Ho letto tanto. Ho letto inutilmente.
Ciò che mi sono accorto interessarmi – infatti – non è l’Eugenio Barba di ieri: non è il santone teatrale, non è il fondatore dell’Odin, non è il pensatore politico, alla pronuncia del cui nome sembra di percepire odore d’incenso in un rispettoso silenzio quasi mistico, religioso, deferente. “Il Maestro Eugenio Barba” – locuzione che ho sentito ripetere spesso, in questi miei sette giorni a Gallipoli – è per me Eugenio Barba il regista, l’uomo che presenta se stesso e la sua idea del teatro in uno spettacolo, assumendosi il rischio del fallimento o degli applausi con un’opera nuova, La vita cronica, che vive al presente. Per cui altri hanno scritto e scriveranno del suo sorriso lucente, dei sandali ai piedi, dei colori scuri ma laminati dei suoi abiti; scriveranno dei suoi silenzi prolungati, dell’assenza apparente d’attenzione, dell’uomo immerso nei propri pensieri; altri hanno scritto e scriveranno della storia di Eugenio Barba; della sua vita e degli anni danesi; della sua avventura migrante, della sua esperienza pluriennale, del suo passato glorioso. Io provo a scrivere dell’Eugenio Barba di oggi, contemporaneo quant’è contemporaneo il giovane regista, senza fama e senza storia, di cui cerco il lavoro in una qualsiasi delle piccole sale teatrali che frequento quasi ogni sera.
Dunque: Eugenio Barba che regista è? Qual è la sua poetica oggi e qual è la pratica di scena cui si affida? Come realizza uno spettacolo? Quale il suo rapporto con gli interpreti e il loro lavoro? Che concezione dà al suo ruolo? Per chi compone, a chi si rivolge, a chi desidera parlare davvero attraverso il suo teatro?

Dovessi definirlo come regista utilizzando un solo termine userei il seguente: “Montatore”. Eugenio Barba è un montatore di prestazioni attoriali, un meccanico cesellatore di performance personali, un realizzatore di puzzle scenici composti da singole tessere che vengono pre-definite quasi autonomamente dagli interpreti e poi a lui affidate perché – tra tagli, aggiustamenti, calibrature – diventino una visione unitaria.
Lontano è l’Eugenio Barba sociale, che invade una piazza del Messico, del Perù o di Cuba, imponendo ai passanti la presenza circense e sbalorditiva dell’Odin; lontano è l’Eugenio Barba profeta del Terzo Teatro, che ha il compito apostolico di diffondere un verbo povero ed emarginato, apparentemente spontaneo; l’Eugenio Barba di oggi mi sembra piuttosto un matematico da laboratorio, intento a studiare come mettere in relazione la pluralità di offerte provenienti dagli attori della compagnia con un tema di partenza che lo spettacolo deve avere. “Una volta intervenivo in maniera decisa” – mi dice, durante una conversazione – “controllando con assiduità le improvvisazioni dei miei attori, modificandole in corso di formazione” mentre oggi “lascio che le improvvisazioni mi siano offerte: Eugenio, ho da farti vedere questo, mi dicono, ed io assisto cercando di comprendere se – da quello che vedo – possa trarne materia per uno spettacolo o parte di esso”.
Non che il suo essere decisivo nel percorso produttivo sia diminuito, sia chiaro: è Barba a firmare le regie perché ciò che vediamo sul palcoscenico è una sua responsabilità; quello che conta però sottolineare è che uno spettacolo contemporaneo dell’Odin nasce innanzitutto dalla grande libertà individuale data ai suoi attori storici che, nel chiuso e nel segreto delle sale prove di Holstebro, sviluppano partiture parallele che dovranno poi coincidere in assito.
“Immagina” – mi dice ancora – “una grande stanza con dieci finestre: nove sono gli attori, la decima è il regista. Ecco: la luce che inonda la stanza – ovvero lo spettacolo – è il frutto delle dieci finestre o forse di sette, forse di cinque o di tre. Mai di una sola”.
“Un giorno arrivate a teatro e vi annunciano che sono morto. In una lettera vi prego di organizzare il mio funerale con ciò che sapete che amo. Avete la possibilità di dialogare con me, di dirmi quello che non mi avete mai detto”. È questo – per fare un esempio – lo stimolo iniziale de La vita cronica, messinscena che poi esprimerà tutt’altre tematiche. Ma è in virtù di questa traccia iniziale che ogni attore sviluppa le sue azioni generando – giorno dopo giorno – una partitura da offrire al regista, cui tocca salvare o cancellare parti della stessa: “Offro un testo minimo all’attore, come quello della mia morte, perché egli se ne appropri e cominci a lavorare per associazioni visive. Da queste devono nascere le ‘parole fisiche’, ovvero una serie di dinamismi, una vera e propria dizione di movimenti”, mi spiega, poi puntualizza: “In questa fase il ruolo del regista è proteggere l’improvvisazione. L’attore infatti” – continua – “non sa cosa sta facendo, impegnato com’è a comporre in piena libertà, senza alcun freno: tocca al regista preservare la sua creazione”.
“Spesso l’attore mi dice: ma io non ho fatto questo! Ed invece…”. Eugenio Barba, dunque, si assume il compito di osservatore interno, di primo spettatore privilegiato, decisivo: a lui scrutare, valutare, promuovere o bocciare, tenere o scartare, eliminare o conservare: “Uso questa metafora: proteggere il bambino. Come un bambino, infatti, l’azione creativa che davvero vale qualcosa nasce, in maniera quasi naturale, e va salvaguardata. Talvolta questo piccolo frammento può essere un errore che si rivelerà una risorsa”.
Occorre attenzione massima, dunque; ed occorre fermezza, capacità di far comprendere a un interprete – che ha lavorato settimane per organizzare la propria “danza organica” – che gran parte della composizione non serve, che non è adatta al resto del processo, che non avrà vita ulteriore. “La fase dell’elaborazione iniziale, in cui avvengono le prime associazioni, è quella che più mi diverte, mi piace, mi stimola” – confessa Eugenio Barba, parlandomi mentre guarda nel vuoto – “perché non c’è recitazione in senso classico, perché non c’è azione davvero ma stimolo all’azione, perché il testo di partenza che avevo dato all’attore comincia a diventare qualcos’altro”.
Quando gli viene chiesto se questo modo di procedere, che comporta anche tagli e censure nette, possa produrre frizioni nella compagnia Barba tace a lungo, sospira, poi con apparente candore racconta che “sì, qualche volta i miei attori si sono ribellati alle cancellazioni di parti ormai pronte”. Ed in quel caso? “Ho ascoltato gli attori, ho mutato i miei propositi, ho fatto un passo indietro”.
“D’altronde” – aggiunge – “le idee dei registi quasi sempre sono brillanti, ma non funzionano”.

“A cosa associ questo?”.
“Fammi vedere”.
“Ancora”.
“Ancora una volta”.
“Ripeti”.
“Non era così. Ripeti”.
“Ripeti ancora”.
“Rallenta”.
“Adesso ripeti, più lentamente ancora”.
“Nascondi la danza. Stai danzando e non va bene. Ti muovi troppo”.
“Specifica meglio”.
“Ancora”.
“Ancora”.
“Ancora”.
Assisto a un’improvvisazione dimostrativa di Julia Varley. Avviene nel luogo segreto e sotterraneo in cui – una trentina di giovani attori provenienti da ogni parte d’Italia – svolgono ogni mattina il loro training con l’Odin. Meno di un minuto dura la composizione della Varley. Un insieme di segni ibridi, puramente accennati, frettolosi talora, che Barba fa replicare una decina di volte. La sua voce è ferma, fredda, tagliente. Dà ordini finalizzati a stimolare la libertà dell’attrice. Sembra un paradosso, ma non lo è.
“Vedi” – quasi sussurra – “ci vorranno giorni perché faccia tutto in maniera automatica, senza pensare né al testo di partenza che le ho dato né ai movimenti che ritiene di dover compiere. Ci vorranno giorni perché, trovato un automatismo naturale, inizi a lavorare sui particolari che dovrà avere la sua presenza. E non è detto che, questi particolari, poi vadano bene”.
Occorre pensare a questo lavoro – che si sviluppa passando dalle associazioni all’improvvisazione, al movimento organico, al perfezionamento progressivo dello stesso fino all’immissione in un contesto teatrale più ampio – come ad un impegno che durerà settimane, mesi. Qualche volta anche anni.

Mi viene in mente Majerchol’d. Non il Mejerchol’d delle trovate scandalose, che fa dello spettacolo una gara di acrobati e della performance attoriale uno sforzo ginnico, una prestazione atletica. Mi viene in mente piuttosto il Mejerchol’d che lavora per antitesi e accostamenti, che taglia-e-cuce pezzi di abiti diversi per realizzare un abito nuovo, mai visto, che affascini. Mi viene in mente il Mejerchol’d che rifiuta l’ipocrisia della scena ben fatta e che sceglie, invece, di rischiare imponendo agli spettatori un'impalcatura di sorprese continue, di continue variazioni in accumulo. Penso all’inizio de La vita cronica, ai suoi primissimi momenti: il pubblico attende di sedere frontalmente ed invece siede di lato; attende l’alzata di un sipario ed invece il sipario è teso in orizzontale e viene trascinato via; attende l’apparizione di un attore ed invece ad apparire è un manichino. “Ed invece”. Barba non assembla sconnessi frantumi, non pone in sequenza trovate capricciose, non offre un insieme di grezzi elementi compattati alla meglio: Barba – ottenute le improvvisazioni dagli interpreti – passa all’opera modellandone la forma, perché la forma – ad un tempo – rispecchi l’idea generale dello spettacolo, traducendola tuttavia in un’orchestrata realizzazione di sequenze parallele. Lavora non sul “Come se” ma su questo “Ed invece”, cercando di generare uno stupore costante, tra sovvertimenti e traduzioni metaforiche: “Se devo comunicare l’orrore non posso mettere in scena l’orrore: ho il compito, piuttosto, di far arrivare allo spettatore la sensazione dell’orrore ma attraverso la bellezza, attraverso una danza, magari attraverso un momento comico”.
Quando gli parlo di Simbolismo scosta – con una mano – il termine, come si farebbe con una mosca: “Considero il simbolo un elemento freddo, non empatico. Lavoro sulla contrapposizione, sulla contraddizione: parole, ritmi ed azioni, devono diventare ossimori visivi, finalizzati non a dichiarare esplicitamente un contenuto ma ad alluderlo, magari straniandolo”.
Ecco l’altra parola di cui necessitavo: straniamento. Barba, scelto di non aderire alla tradizione teatrale della verosimiglianza, mira ad una formalizzazione espressionistica, dichiarata, quasi coreografica, in cui ogni singolo elemento è un elemento fasullo, in grado tuttavia di produrre – per mezzo proprio della sua natura innaturale – attenzione, riflessione, partecipazione e sintonia emotiva. Così convivono ritualismo sciamanico e movimenti campionati, interpretazione frammentaria e danza corporea, pretesti contenutistici e plurilinguismo in un rutilante susseguirsi di torsioni stilistiche che hanno come effetto quello di tenere desto lo spettatore, costringendolo a chiedersi di continuo a cosa, davvero, stia assistendo. Artificiosità e tecnicismo, equivalenza e rimando, recitazione e testimonianza. Dichiarazione esplicita del fatto teatrale e ricerca di un com-patimento con il pubblico. Dalla rinuncia ad ogni presunto verismo deriva ogni aspetto: il tempo di scena (rallentato o accelerato a piacimento; mai ordinario); la postura dei corpi e le loro relazioni sul palco (tra richiami all’essenzialità dell’orientalismo teatrale, alle composizioni pittoriche e ad una biomeccanica realizzata senza la freddezza apparente dell’ingranaggio); l’uso degli oggetti (per cui ogni elemento introdotto su scena viene re-impiegato di continuo, assumendo le funzioni più differenti).
“Tutto il testo – intendendo per testo anche i singoli movimenti sul palco – è fissato ed è fissato il modo in cui questo testo si replica, di volta in volta. Questo perché, mentre l’improvvisazione è ciò che caratterizza ogni essere umano (incapace di ripetere un gesto nello stesso identico modo davvero), la capacità di ripetere diventa la grande maestria di un attore”.
“Gli attori agiscono in maniera cinetica; il loro dinamismo – inserito in un contesto tematico e registico – contempla l’impiego contemporaneo delle tre lingue in loro possesso (verbale/il contenuto testuale; sonora/l’intonazione vocale; fisica/l’impiego del corpo). Quando riescono ad essere davvero incisivi diventano così capaci non soltanto di trasmettere una storia ma di indurre ad uno stato d’animo. Per questo dico che i miei attori devono agire come provocatori emotivi, come risuonatori emozionali”.
“Il desiderio? Voglio che gli spettatori vivano un momento importante, e diverso, della loro vita”.

(dal libretto di sala de La vita cronica)
“Mi è stato detto spesso che i miei spettacoli non sono molto comprensibili. Penso allora a una riflessione di Niels Bohr: il contrario della verità non è la menzogna, ma la chiarezza”.
Ancora: “Uno dei totalitarismi più raffinati del nostro tempo, mi scopro a riflettere, è l’obbligo di chiarezza, il disprezzo per lo stato del non-capisco, la generale svalutazione dell’esperienza dell’incomprensione”.
Ancora: “Il culto della chiarezza, che servì a illuminare le menti, oggi contribuisce a ottenebrarle”.

La vita cronica è uno spettacolo pieno di segni: registici, scenografici, attoriali, testuali. La prima volta in cui ho assistito allo spettacolo ho badato esclusivamente a ciò che accadeva sulla zattera-palcoscenico, per scrivere poi la recensione che ho scritto. La sera seguente ho visto di nuovo l’opera, seduto accanto ad Eugenio Barba. Ancora il palcoscenico, naturalmente, per scorgere particolari che mi erano sfuggiti in precedenza ma anche un’attenzione costante al comportamento del regista (cosa osserva Barba del suo spettacolo mentre questo avviene?) e del pubblico. Regista e pubblico, quindi: quale rapporto?
In una delle conversazioni avute con Barba, mi ha colpito questo inciso: “Il regista è il garante degli spettatori”. Ovvero: il regista, ad un punto del processo creativo, comincia a ragionare sulla relazione con gli astanti, si immedesima in loro o – quanto meno – prova a immaginare quale potrebbe essere la reazione degli stessi alla messinscena, a parte di essa, ad alcuni dei suoi contenuti. Dunque chiedo a Barba per quale pubblico lavora o ritiene di lavorare e aggiungo poi: il rifiuto della chiarezza e della semplificazione estetica di cui lei parla a chi è rivolto? La risposta mi sorprende.
“Lavoro alla costituzione di uno spettacolo stratificato, poiché so che non esiste un pubblico ma esistono i pubblici: esistono cioè tanti pubblici quanti sono gli spettatori dello spettacolo. Ognuno si relaziona in maniera diversa, recependo e completando in maniera personale e differente ciò cui assiste. Perciò, quando realizzo una regia, la compongo rivolgendomi contemporaneamente a diversi gruppi ideali di pubblico: quelli che badano solo all’aspetto letterale dello spettacolo; ai sordi; ai ciechi; agli adulti-bambini; agli esperti di cinema o di pittura; ai conoscitori del teatro e via discorrendo. Lavoro sui diversi gruppi e, ad ognuno di essi, cerco di dedicare un aspetto della messinscena. Ho anche due spettatori speciali, a cui mi rivolgo, ma di cui ignoro l’effettiva presenza. Li chiamo ‘Borges’ e ‘Beethoven’. Sono coloro che hanno letto tutto, che hanno visto tutti gli spettacoli (miei ed altrui), che conoscono tutta la musica. Creo anche per loro due: in profondo, di nascosto, lasciando che ci siano dei riferimenti così oscuri e celati da essere intelligibili per tutti tranne che per loro”.
“L’Odin non ha eredi. Finirà con la morte dei suoi protagonisti. Non avrà seguaci che opereranno nel suo nome, non ha allievi che potranno ripetere la lezione dei maestri. Ciò che è accaduto con Artaud, con Grotowski o con Brecht, non deve avvenire con Eugenio Barba e con l’Odin Teatret”.
A tavola, ad ora di pranzo. Fuori c’è il sole ed i raggi inondano la sala, sbiancandola, mentre Eugenio Barba riflette, ad alta voce, sulla fine di un’avventura teatrale che coincide con la fine della vita.

In ultimo.
Quando sono arrivato a Gallipoli avevo l’intenzione di scrivere un articolo esattamente identico a quello che ho appena scritto: un insieme di note su un importante regista contemporaneo, incontrato per la prima volta nel mio percorso critico. Speravo, anche, di far sentire la sua voce. A Gallipoli ho veduto spettacoli che hanno trent’anni e che si offrono come testimonianza viva d’archivio; ho veduto performance dimostrative sui metodi di lavoro degli interpreti dell’Odin; ho veduto la Festa Baratto e documentari del tempo che fu; ho veduto La vita cronica ed ho veduto, ogni mattina, il faticoso training fatto dai giovani attori italiani che – in una sala interrata – hanno cercato di apprendere gli accenni di un metodo. Ho riempito due taccuini d'appunti, rimanendo spesso in silenzio: per ascoltare, imparare, capire.
Nel terminare quest’ultimo paragrafo mi chiedo, adesso, perché davvero ho seguito Eugenio Barba per sette giorni? Mi viene da dire che la ragione, paradossale, è la seguente: per cercare di comprendere meglio il nuovo teatro italiano, la ricerca di scena, gli spettacoli che incontrerò da domani.
Così come la visione di un Amleto può essermi utile per recensire uno spettacolo di sperimentazione o d’avanguardia, aver spiato Eugenio Barba e l’Odin mi consente (forse) di essere più consapevole, e più pronto, al confronto con ciò di cui dovrò fare testimonianza. Ed è pensando a chi farà teatro, quindi, che ho cercato di conoscere chi − il proprio teatro − lo fa da cinquant’anni.
Disciplina, rigore, coerenza e abnegazione, didattica scrupolosa, chiara idea della propria funzione artistica, ostinazione al limite della cocciutaggine, convinzione nei propri mezzi e capacità di rinnovare la propria tradizione, fermezza e propensione all’adattamento, spirito di sacrificio, sopportazione del dolore fisico e morale che il teatro t’impone, consapevolezza che – per ottenere le luci e qualche minuto di applausi – occorre lavorare a lungo nel buio e nel silenzio, avendo per solidali altri attori ed attrici e per compagni/nemici i dubbi e i timori, i tremori del corpo e della mente e le incertezze, le ritrosie, la noia, il senso di vuoto o di solitudine.
La stanchezza. La paura di fallire. La tentazione di abbandonare. Il desiderio, talvolta, di fuggire o di rinunciare. E la consapevolezza, confermata ogni giorno, di non avere altro destino, altra casa, altra possibilità che il palcoscenico.
Da Barba, per i teatranti di domani.



NB. A margine la recensione de La vita cronica, regia di Eugenio Barba.
http://www.ilpickwick.it/index.php/teatro/item/1535-la-vita-i-segni

 

 

 

 

Fonte e/o autori delle immagini a corredo dell'articolo: Rina Skeel; Bernd Uhlig; Giuseppe Di Stefano; Leccese.it; Teatroaleph.com; Odinteatret.dk

 

 

I mari della vita: dal Mediterraneo al Mare del Nord. Un progetto internazionale per i 50 anni dell'Odin Teatret
organizzazione Odin Teatret, Teatro Pubblico Pugliese
con la collaborazione di Regione Puglia, Comune di Lecce, Comune di Comune di Carpignano Salentino, Comune di Gallipoli, Cantieri Teatrali Koreja − Teatro Stabile di Innovazione del Salento
con il sostegno di Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Lecce 2019


Teatrografia

Il castello di Holstebro
regia Eugenio Barba
con Julia Varley
produzione Odin Teatret
lingua italiano
durata 1h
Gallipoli, Teatro Garibaldi, 23 settembre 2014
in scena 23 settembre 2014 (data unica)

L'eco del silenzio
di e con Julia Varley
produzione Odin Teatret
lingua italiano
durata 1h 30'
Gallipoli, Teatro Garibaldi, 24 settembre 2014
in scena 24 settembre 2014 (data unica)


La vita cronica
di
Ursula Andkjaer Olsen, Odin Teatret
regia e drammaturgia Eugenio Barba
con Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley
dramaturg Thomas Bredsdorff
consulenza letteraria Nando Taviani
luci Odin Teatret
spazio scenico Jan de Neergaard, Antonella Diana
costumi Jan de Neergaard, Odin Teatret
direttore tecnico Fausto Pro
assistenti alla regia Raul Iaiza, Pierangelo Pompa, Ana Woolf
produzione Nordisk Teaterlaboratorium di Holstebro, Teatro de La Abadìa, The Grotowski Institute di Wroclaw
organizzazione Teatro Pubblico Pugliese
lingua italiano, inglese, spagnolo, danese
durata 1h 25'
Gallipoli (LE), Palestra I.T.C. Amerigo Vespucci, 24 e 25 settembre 2014
in scena dal 24 al 26 settembre 2014


Orme sulla neve
di e con Roberta Carreri
produzione Odin Teatret
lingua italiano
durata 1h 40'
Gallipoli, Teatro Garibaldi, 25 settembre 2014
in scena 25 settembre (data unica)


Memoria
regia Eugenio Barba
con Else Marie Laukvik, Frans Winther
produzione Odin Teatret
durata 1h
Gallipoli, Biblioteca Comunale, 26 settembre 2014
in scena 26 e 27 settembre 2014


Quasi Orfeo: l'attore musicista

di e con Jan Ferslev
produzione Odin Teatret
lingua italiano
durata 1h 20'
Gallipoli, Teatro Garibaldi, 27 settembre 2014
in scena 27 settembre 2014 (data unica)


Bianca come il gelsomino
di e con
Iben Nagel Rasmussen
produzione
Odin Teatret
lingua
italiano
durata
1h 10'
Gallipoli, Sala Mercato, 27 settembre 2014
in scena
27 settembre 2014 (data unica)


Judith

regia Eugenio Barba
con Roberta Carreri
produzione Odin Teatret
lingua italiano
durata 1h 30'
Gallipoli, Teatro Garibaldi, 27 settembre 2014
in scena 27 settembre 2014


Festa Baratto
organizzato da Kai Bredholt
con scene dello spettacolo Ode al Progresso
regia Eugenio Barba
con Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley
e con il contributo dei partecipanti all'Odin Festival, la popolazione locale di Gallipoli
produzione Odin Teatret
lingua italiano
durata 3h 30'
Gallipoli, Piazzale delle Armi, 28 settembre 2014
in scena 28 settembre 2014 (data unica)


 

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