“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 26 September 2014 07:50

La vita, i segni

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La guerra che, giorno dopo giorno, consuma gli uomini, avvelena le terre, brucia le case, fa le donne vedove, i figli orfani, gli anziani mendicanti. La guerra che tramuta il presente in ricordo, il ricordo in dolore, il dolore in un lutto facendo di questo lutto un eterno presente.
E poi la fame, che veste di povertà i corpi giovani e quelli avvizziti, la fame che differenzia chi ha il pane da chi il pane lo desidera, che mette contro invece di mettere assieme, che rende gli stranieri nemici, i concittadini avversari, che rende me stesso indifferente alla fame degli altri, impegnato come sono a rispondere soltanto della mia fame.

E la miseria migrante, che comprime chi viveva separato e lontano, costringendo a una vicinanza che genera mostri; il desiderio di vendetta, che collima, sostituisce o coincide col desiderio di giustizia; la sofferenza personale, esibita nei pianti isterici o tenuta nascosta dai conformismi sociali. Lo sperpero del denaro, il passo dei militari, l'intreccio di lingue che non si parlano. C'è la contemporaneità dei conflitti, dei viaggi intrapresi dai disperati, della solidarietà che si riduce fino a diventare astio, noia o fastidio, in La vita cronica di Eugenio Barba; c'è la contemporaneità del paese sconosciuto, nel quale apprendiamo che si combatte per ragioni che sembrano non appartenerci; c'è la contemporaneità del viso di una zingara, che chiede l'elemosina a un metro da dove abitiamo; c'è la contemporaneità di chi non ha più niente da perdere e di chi pensa, invece, di poter perdere tutto. Ma questa contemporaneità – così atavica nelle sue dinamiche primordiali, nel suo primordiale ripetersi di generazione in generazione – non diventa esposizione ideologica né produce la dichiarazione di un manifesto, la celebrazione di una bandiera, l'esaltazione di una fazione politica o di un più generico terzomondismo teatrale; genera invece una partitura di segni allusivi, perturbanti, capaci di alludere o di sconvolgere, di interessare, colpire e far comprendere inducendo, chi osserva, a soccombere a una bellezza prodotta per accumulo.
Il pane, la pietra, il fuoco delle candele, il ghiaccio che si scioglie battendo il tempo con le sue gocce (paupersimo scenico, reperti di un teatro che si vuole povero) convivono con l'ampio utilizzo di fari pluricromatici, capaci di evocare colorazioni suggestive nel buio della sala; convivono litanie dette in lingua straniera e dialoghi di un'immediatezza esemplare; convivono la citazione letterararia (Rulfo) e la figurazione pittorica (Géricault); convivono un manichino e i fili di luce che perimetrano la pedana di scena e che indicano inizio e fine della recita; convivono la formalizzazione cronologica ed il riutilizzo rinnovativo degli oggetti; convivono lo sfoggio del gioco teatrale e l'evidente ricerca di un'essenza; convivono il lancio delle monete, le crocifissioni alate e simboliche, i grandi vessilli di stoffa con le bende sugli occhi, una mano sulla bocca, una cintura alla gola. Convivono – in quest'ultimo lavoro di Eugenio Barba – rimanenze grotowskiane d'origine (come il baule posto a centro scena e che funge da bara, da tavola, da porta adagiata in orizzontale) ed eccessi visuali che ricordano certi effetti da nuova poetica italiana e straniera (si pensi all'uso delle luci sottopalco, al movimentismo volutamente confusionario e disturbante di tutti gli attori, all'alternanza straniante di grottesco e drammatico) per cui se possiamo parlare di una storia composta di storie vissute in parallelo (un figlio che cerca il corpo del padre; una moglie che piange la scomparsa del marito; una donna rumena, governante in terra straniera, che soffoca dalla sua stessa esistenza e musicisti di strada, madonne nere, rifugiate politiche che guadagnano via via lo stesso spazio, riempiendo questo luogo di densità corporea addirittura eccessiva), è giusto anche sottolineare che l'impressione complessiva è quella di un lavoro in cui il piano drammaturgico (la scrittura, la trama, l'insieme delle battute) conta solo come appoggio d'inchiostro, come punto di partenza, come stimolo alle azioni. Per questo è un errore cercare la continuità lineare tanto quanto è un errore considerare La vita cronica un esercizio estetico, uno sfizio stilistico: è, invece, una fedele dimostrazione del punto a cui è giunta la ricerca teatrale di Eugenio Barba che, nel provocare emozioni, dichiara in controluce le sue componenti essenziali.
Recitazione per risuonatori corporei, così da esaltare fisicamente ogni frase dandole una direzione precisa e lo spessore che merita; annullamento della distinzione di genere (per cui un uomo è una donna, una donna è un ragazzo); l'uso della segmentazione muscolare, con cui vediamo gli attori muovere una giuntura soltanto, mentre il resto della figura rimane fissa; la propensione al montaggio di immagini e di brandelli di poesia, prosa o canzoni; l'apparente improvvisazione che viene disciplinata, coordinata e compattata in un disegno d'insieme. E ancora: i salti di associazione, per cui una visione genera un rimando ed è il rimando che genera la comprensione; la contrapposizione necessaria tra comico e tragico, tra leggero e gravoso; la resa di una visione che vive di piani e contropiani, con recite offerte in contemporanea, tra contrasto e bilanciamento; lo straniamento continuo, con cui alimentare un'attenzione del pubblico che, altrimenti, potrebbe calare.
Questo ed altro danno, a chi scrive, l'impressione di assistere ad uno spettacolo in cui tutto il testo è fissato ed è fissata ogni particolare della sua resa: un perfetto meccanicismo tardo-mejercholdiano per cui ogni più piccolo atto – ogni minuscolo frammento di scena – è stato pensato, ripensato, lavorato, rilavorato, definito e ridefinito per comporre poi un insieme apparentemente libertario, scalmanato, anche confuso o caotico ma in realtà previsto al millesimo, calcolato al millimetro.
La maniera in cui viene tenuto un bicchiere; la forza con cui un sampietrino batte il metallo; le dita alle corde di una chitarra. Le variazioni di tono all'interno della stessa frase; la porta, che viene aperta facendola ruotare su se stessa; il modo in cui un corpo si piega, si inabissa e scompare. Le corse, le lacrime, le urla e i silenzi, il battito registrato del cuore, una voce che canta fuoriscena. Un paio di scarpe lucide, rosse, col tacco a righe; l'albero genealogico composto con un mazzo di carte; l'espulsione dalla quinta, per sottolineare la natura clandestina dell'immigrata. E una sonata di violino, metafora della capacità che ha soltanto l'Arte di re-suscitare ciò che è defunto, di ridare speranza o verità a chi paga pegno.
E se di tecnicismo si tratta, si tratta del tecnicismo necessario ad alimentare, sostenere e produrre lo sforzo da cui si spera nasca la poesia; si tratta cioè – per dirla con Torgeir Wethal – della "scala di ferro, brutta, dura ma necessaria" su cui si adagia "la neve", ovvero la bellezza dello spettacolo. Agli spettatori la visione della neve, possibile grazie alla presenza della scala.
La vita cronica, quindi, non consegna agli spettatori di oggi il presunto Eugenio Barba di ieri, ovvero il messianico e sorridente santone oscuro di una poetica da setta teatrale, che è l'immagine a cui ci siamo abituati leggendo saggi libreschi che appartengono oramai ai decenni passati; nella sua dimensione presente (giacché è il presente il tempo del teatro) La vita cronica regala invece un esempio di pratica registica rigorosa, severa, faticosa nel suo mostrarsi leggera, spossante nel suo darsi naturale. E se in più momenti dello spettacolo (al minuto cinquanta, al minuto sessanta, al minuto sessantacinque) abbiamo avuto la sensazione che fosse giunta la fine dello stesso, a conferma di una partitura che assomma sequenza dopo sequenza, alla fine resta la testimonianza del silenzio del pubblico che, dopo l'ultima scena e la sparizione degli attori, rimane muto, come scosso o preso da un imbarazzo, quasi turbato dal suo stesso aver visto. Brevi attimi di impaccio, un guardarsi reciproco, il riconoscersi finalmente come spettatori teatrali, quindi gli applausi. Rivolti a interpreti che non torneranno sul palco per riceverli.

 

 

 

 

I mari della vita: dal Mediterraneo al Mare del Nord. Un progetto internazionale per i 50 anni dell'Odin Teatret
La vita cronica
di
Ursula Andkjaer Olsen, Odin Teatret
regia e drammaturgia Eugenio Barba
con Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley
dramaturg Thomas Bredsdorff
consulenza letteraria Nando Taviani
luci Odin Teatret
spazio scenico Jan de Neergaard, Antonella Diana
costumi Jan de Neergaard, Odin Teatret
direttore tecnico Fausto Pro
assistenti alla regia Raul Iaiza, Pierangelo Pompa, Ana Woolf
produzione Nordisk Teaterlaboratorium di Holstebro, Teatro de La Abadìa, The Grotowski Institute di Wroclaw
organizzazione Teatro Pubblico Pugliese
lingua italiano, inglese, spagnolo, danese
durata 1h 25'
Gallipoli (LE), Palestra I.T.C. Amerigo Vespucci, 24 settembre 2014
in scena dal 24 al 26 settembre 2014

 

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