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Wednesday, 10 September 2014 00:00

Guardare, guardarsi

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Nel teatro i personaggi vengono da un fondo buio, da un retropalco sconosciuto, da un’attesa oscura. Creature di un mondo che avrà i confini del palcoscenico, avanzano portandosi al centro dell’assito, prendendo carne e colore, luce, attenzione.

Figure della notte (ovvero ciò che non appare o non esiste), diventano abitanti di un giorno fasullo, illuminato non dal sole ma dai fari. Sono finti, i personaggi; sono finti e non esistono eppure esistono davvero: sudano, sono in grado di afferrare gli oggetti, hanno un respiro, i loro piedi, quando battono, fanno rumore. I personaggi di teatro sembrano appartenere alla vita degli uomini, ma in realtà stazionano all’orlo, al confine, sulla soglia del mondo che abitiamo normalmente: ci osservano, prima di essere osservati; prendono spunto dalle nostre vicende per dire le loro vicende; indossano abiti simili ai nostri, parlano il nostro dialetto, conoscono le nostre storie poiché saranno le storie con cui occuperanno il loro tempo, la loro presenza. Da osservatori i personaggi diventano poi osservati: invitano gli uomini a sostare – per un’ora – sulla soglia, sul confine, sull’orlo che chiamiamo “teatro” per mostrare a noi – che da osservati diventiamo invece osservatori – ciò che abbiamo vissuto senza accorgerci di averlo vissuto davvero.
I personaggi di Patres parlano il nostro dialetto, indossano abiti simili ai nostri e, quando battono i piedi, fanno rumore. Sudano, sono in grado di afferrare gli oggetti, hanno un respiro, sembrano veri pur non essendolo. La riflessione di questa ovvietà mi serve per far comprendere che il merito principale di Patres è quello di raccontarci la nostra vita attraverso una finzione che, pur somigliando tantissimo alla nostra vita, rimane con evidenza una finzione.
Ci sono molti modi per mettersi in rapporto con questo spettacolo: si può ricordare la vicenda di cronaca che è alla base della trama (la nave Jolly Rosso, carica di rifiuti tossici, lasciata a galleggiare fino a inondarsi al largo della Calabria e che ha ammalato le coste e la terra, gli uomini e le donne della Calabria); se ne può apprezzare la capacità di alludere a un discorso più ampio per cui – mettendo in scena un padre e un figlio – si fa discorso sulla generazione dei padri e su quella dei figli, sul disinteresse di chi è venuto prima per chi viene dopo, sulla (ir)responsabilità dei primi verso i secondi, sulle conseguenze che riguardano i secondi per le colpe dei primi; se ne può amare la componente specificatamente teatrale, per cui si presta attenzione alla scia di luce che illumina la nave-giocattolo (allusione all’evento e sua riductio simbolica in scena), si apprezzano i balletti di presentazione dei personaggi (che annullano ogni realismo presunto), si segue il movimento legato del figlio (finto-cieco, ha una corda alla caviglia che gli rende la misura dello spazio, tra retro e ribalta), si appuntano mentalmente certe battute metateatrali (“Cambiamo discorso?”) e certe smascherature del gioco cui si sta giocando (“A me mi piace quando tu mi cunti ‘e storie. Papà, me la cunti una storia?”) ma la verità – la profondissima verità che sente di dover scrivere chi firma l’articolo – è che vicenda di cronaca, allusione metaforica e teatralità dichiarata sono un miscuglio inseparabile, stretto quanto sono strette le dita quando, una mano, tiene una mano: il vero deve la propria verità al falso, il falso deve la propria esposizione falsa al vero; la cronaca si fa metafora, la metafora ricorda la cronaca; il teatro vive fingendo la vita, la vita finge vivendo il teatro.
Così Patres mostra tutta la propria dimensione corporea, spingendo i due attori a un’interpretazione che alterna moti esplosivi e riduzione controllata (e faticosissima) dei muscoli; mostra una trama dalla scrittura secca, essenziale, tanto diretta quanto allusiva, che fa pesare ogni parola, ogni frase, ogni dialogo facendo pesare anche gli attimi di silenzio e di attesa; mostra un vincolo di relazioni addolorate che riguardano chi esiste (il figlio), chi sembra esistere ma è ormai lontano (il padre), chi è esistito ma non esiste più (la madre); mostra civismo storico ostinato, facendo memoria di un reato che è diventato una maledizione, per cui i padri hanno accecato di veleni i propri figli (“E poi sei arrivato tu, che disgrazia!”) e ucciso di tumore le proprie mogli; ma Patres mostra anche che il teatro è l’unico luogo (altro-dal-resto-dei-luoghi) in cui, le carezze delle dita nell’aria, fanno apparire un cane invisibile; in cui il rombo fuori-scena degli aerei richiama, anticipa o provoca l’abbandono paterno; in cui – illuminando la platea di fari blu – davanti al palco può esserci il mare e che, questo mare, sono gli spettatori.
“La barca non si guida con gli occhi, la barca si guida con le orecchie” dice il padre, ad un punto; mentre prima – palpebre basse, palmo della mano in avanti –  il figlio confida che è con gli occhi chiusi e la mano distesa che vede le navi e l’orizzonte e i colori dei mezzi che arrivano al porto: “Gialli, verdi, arancioni, russi… russi di colore, non russi russi…” testimoniando così che in teatro si vede ciò che si ascolta mentre ci tocca ciò che si vede.
Cronaca: “Una barca, che non si sa cosa trasporta”.
Discorso metaforico-generazionale: “Del padre non si dubita mai, non si tradisce mai”.
Smascheramento del teatro: “Questo gioco non mi piace”.
Come un’onda sull’onda, a comporre una visione d’insieme.
Per questo alcuni spettatori, alla fine della messinscena, hanno gli occhi lucidi e fanno fatica a riprendere fiato, ricordandosi della propria terra e dei dolori che la straziano ancora; per questo altri commentano mormorando qualcosa, dicendo così del loro ruolo di figlio o di genitore; per questo chi scrive adesso l’articolo ripensa alla figura del padre che è metafora stessa del teatro (è il padre che inventa le storie, inventa i giochi, racconta la barzelletta; è il padre che fa vedere al figlio ciò che non esiste, che lo induce all'immagine, che con la sua sparizione annulla ogni illusione) e, sempre chi scrive, ripensa anche al concetto di teatro come bugia dichiarata per cui una donna è una bambola gonfiabile, gli occhi possono essere due pezzetti di carta, una porta d'uscita si può rendere con un rettangolo di luce sul fondo mentre il racconto della barzelletta (che serve ad anticipare la frattura generazionale) diventa − visivamente − la piega data alle lenzuola.
E se abbiamo un dubbio sull’utilizzo del primo dei due incisi sonori (che, sfumato tardivamente, copre le voci degli attori per qualche secondo di troppo) resta la gioia critica di aver assistito a una messinscena in cui la regia ha lavorato con senso della misura e concretezza opportuna; i rari elementi scenografici si sono prestati alla dimensione precisa che ha il teatro quando lavora di segni su fondo buio; gli attori hanno dato vita a una presenza meritevole davvero degli applausi finali.
Al termine – sfumata l’ultima luce, lasciato il figlio a dondolare la sua nave tra le mani, seduto, solo, mentre vola il sonoro di un aereo – qualche spettatore sembra necessiti di un po’ di tempo per abituarsi di nuovo al reale, mentre altri ridicono frasi che hanno appena ascoltato, portando all’esterno un po’ dell’invenzione vista sul palco. Invece nella mia testa, sulla mia pelle, rimangono fisse queste parole: “Gira e rigira, sempre qua si ritorna”. Ovvero: gira e rigira, sempre in questo posto dobbiamo ritornare; qui dove si osservano i personaggi che, avendoci osservati prima, adesso ci (di)mostrano come stiamo vivendo.
Qui, dove "se tu ti riposi, anche il mare si riposa".
Qui all’orlo, al confine, alla soglia tra la vita e la recita della vita.
Qui, a teatro: dove guardare significa guardarsi.

 

 

 

 

 

Re-Act. Festival delle Residenze
Patres
di Saverio Tavano
regia Dario Natale, Saverio Tavano
con Dario Natale, Gianluca Vetromilo
disegno luci Saverio Tavano
tecnica Pasquale Truzzolillo
produzione Residenza Teatrale Ligeia, Compagnia Scenari Visibili
fonte immagini www.scenarivisibili.it
lingua dialetto lametino
durata 1h 15'
Soverato (CZ), Teatro Comunale, 7 settembre 2014
in scena 7 settembre 2014 (data unica)

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