“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 06 September 2014 00:00

Deviazioni digitali

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L’edizione 2014 di Flussi – Media Arts Festival ha proposto come gli anni scorsi performance e live set dei dj/musicisti/manipolatori di suoni più interessanti della scena internazionale, oltre a videoinstallazioni, conversazioni con gli artisti e ragionamenti intorno al tema del selfware, termine che sta ad indicare la presenza delle individualità all’interno dell’universo della rete dei social, la costruzione di una identità tramite le pagine (o spazi in generale) individuali messi a disposizione dai network, i nuovi luoghi in cui avviene la definizione del sé.

Un merito indubbio di questa edizione, a mio avviso, è stata però la presenza di uno dei gruppi storici della new wave inglese: i Clock DVA. Uno dei nomi che hanno letteralmente inventato il suono industrial, quella contaminazione tra rumore, strumenti elettronici fatti in casa, sperimentazione con tape loops, uso innovativo dei sintetizzatori e delle drum machine, il tutto supportato da considerazioni non banali sul condizionamento operato dalla società industriale sulla libertà individuale e collettiva e sull’espressività artistica stessa. Certo ogni nome presentava proprie caratteristiche: e se il luogo di provenienza per alcuni di loro è lo stesso – la grigia capitale dell’acciaio Sheffield (mentre i precursori Throbbing Gristle sono figli della capitale dell’impero) – le differenze naturalmente segnano i caratteri e i percorsi di gente come Cabaret Voltaire, Human League e Clock DVA.
Questi ultimi contaminano il post-punk dei PIL di John Lydon (fuor di metafora in questo caso) con un’attitudine free jazz (nell’uso del sax) e stratificazioni di ritmi, basso e distorsioni reiterati come erano già soliti fare i concittadini ispirati dal dadaismo zurighese. Il suono del periodo 1978-80 (fissato su una serie di cassette prodotte dal gruppo stesso – tranne White Souls in Black Suits edita dalla Industrial Records dei Throbbing Gristle – e recentemente ristampato in un cofanetto contenente vinili e dvd a titolo Horology – DVAtion 78/79/80) trova la sua maturità nel primo lp ufficiale, Thirst (Fetish Records, 1981), registrato in maniera più accurata e prodotto da Ken Thomas (storico produttore di David Bowie e dei Queen, per citarne alcuni). I fiati perdono le velleità free e le composizioni trovano una forma più coesa, non rinunciando ad articolazioni di ritmi e registri. Un affinamento ancora maggiore pervade Advantage (Polydor, 1983) grazie alla produzione di Hugh Jones (alla consolle in qualità anche di ingegnere del suono con Simple Minds, Sound, Echo & The Bunnymen, Undertones), disco che presenta tracce dalla indubbia presentabilità radiofonica, come i singoli Breakdown e Resistance. Ma dopo l’uscita di due componenti il gruppo si scioglie. Adi Newton prosegue interessandosi a studi di psicoacustica e alla multimedialità con realizzazioni di video e di performance teatrali. Il suono prodotto si avvale di ritmiche computerizzate, nastri e voci preregistrate, percussioni tribali. Un panorama sonoro dai forti presupposti concettuali che segna un netto distacco dal collettivo percorso precedente e che sotto il monicker di T.A.G.C. (ossia The Anti Group Corporation) pubblica un paio di lp e alcuni singoli. Nel 1989 Adi Newton recupera la vecchia sigla di Clock DVA ma la musica è ormai affidata quasi del tutto alle nuove macchine digitali. Il ritorno del suono dalla forte matrice ambientale è passato dal periodo industriale (quando ancora le acciaierie funzionavano a regime) a quello cibernetico dei personal computer che facilitano la possibilità di esprimersi con più media. Da allora in poi i Clock DVA ragionano intorno alle potenzialità dei suoni e delle forme elettroniche contemporanee, portando avanti un discorso di senso contrario alla banalizzazione della tecno e al suo utilizzo quale conseguenza di una moda musicale. Newton e Co. analizzano le potenzialità delle macchine, dei suoni e dei ritmi che possono generare, le loro influenze sulle modalità di percezione e di elaborazione dei dati, fino a modificare le nostre potenzialità. Al di là dell’attitudine e delle tematiche cyberpunk, è l’onesta con cui programmano suoni e rumori digitali – e a rendere questi ultimi strumenti di un’estetica mai fine a se stessa (o a semplici esigenze di costume) – che pone i Nostri in una posizione laterale rispetto alle ultime tendenze della scena elettronica. Una posizione da cui osservare criticamente la parabola di un mezzo che può passare dall’entusiasmo per la novità alla routine dell’obsolescenza in poco tempo. Inoltre, a differenza di tanti dj/manipolatori/paesaggisti sonori, Adi non ha mai rinunciato al valore del messaggio verbale, fosse anche attraverso il campionamento di voci di cui reitera i messaggi per evidenziare la dimensione condizionante. Dopo il disco del 1993 (Sign, etichetta Contempo Rec.) il progetto si ferma per più di una decade. Nel 2011 Newton rispolvera la sigla e inizia una collaborazione con Maurizio Martinucci (aka TeZ) che porta alla ristampa di brani risalenti alle sessioni italiane di Sign (Post Sign, Anterior Research 2013) e alla scrittura di nuovo materiale (Clock 2, uscito come box contenente una memory card, e il 12’’ Re-Konstruktor / Re-Kabaret, entrambi per Anterior Research 2014).
Accompagnati dal videoartista greco Panagiotis Tomaras, Adi e TeZ arrivano sul palco dopo alcune performances d’impronta ambient, per cui scuotono l’audience da subito con The Konstruktor, in cui la voce declama con toni solenni testi che si poggiano a fugaci cellule melodiche e a metronomiche scansioni ritmiche. Rayonist aggiorna di quasi quattro decadi le litanie oscure di Alan Vega. Si torna indietro di vent’anni con Phase IV, ma il brano risulta sempre attuale, segno di una opzione lungimirante che non inseguiva le tendenze del momento. Anche il disco della “svolta” – Buried Dreams del 1989 – suona sempre odierrno, e Sound Mirror ne è un esempio. Kabaret 13 libera sul palco la tensione trattenuta su disco (meglio, su card), mentre The Return conferma le qualità melodiche nascoste tra le interferenze e i bpm. Spazio ancora per un recupero da Post Sign con Sigma 7 prima del gran finale con Hacker-Hacked, una delle varie versioni del classico da Buried Dreams. Brano dall’inconfondibile pattern del basso sintetizzato, ispirato dalla morte di Karl Koch, pioneristico hacker tedesco riuscito a introdursi nelle reti dei sistemi informatici strategici dei Paesi occidentali, è il manifesto potente di una precisa scelta di campo estetica. In fondo la tecnica resta per l’uomo strumento di ibridazione e di estensione del corpo e dei sensi, in un rapporto di sudditanza che non lascia alibi a paure millenaristiche. Se controllo c’è, è perché sono gli uomini a volerlo, non le macchine. Che altro non sono se non strumenti di resistenza.

 

 

 

Flussi – Media Arts Festival 2014
Clock DVA
voice and electronics Adi Newton
electronics Maurizio TeZ Martinucci
visuals Panagiotis Tomaras
Avellino, Terrazza Teatro Carlo Gesualdo, 27 agosto 2014

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