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Wednesday, 17 September 2014 00:00

Beckett, Carullo/Minasi, Caspanello

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La definizione di uno spazio aperto, ma dal quale è impossibile evadere: luogo di arrivo o passaggio che si tramuta in luogo di stasi, di permanenza, di stagnazione. La coniugazione del tempo di recita inevitabilmente al presente, dipanato attimo per attimo, minuto per minuto, fino a raggiungere una durata che appare – nella percezione degli spettatori – più ampia (e più lenta) di quanto non sia effettivamente. La riduzione del numero di figure previste in palcoscenico, vera e propria scarnificazione corporea a due soli soggetti che sono un avanzo, il resto, ciò che rimane: del mondo teatrale, dell'intero universo.

Realizzazione visiva di una condizione terrena, materiale, riconoscibile nei suoi tratti più evidenti ma che – rarefatto il numero dei segni scenografici – diventa ben presto una suggestione allegorica o metafisica, il racconto per immagine di una condizione non più singola ma collettiva, che appartiene agli uomini in quanto uomini. E ancora. La mascherata degli abiti, per far apparire figure ultime, emarginate, laterali al modello sociale imperante; la definizione parodica dell’azione, per cui si compiono gesti che assumono tratti grotteschi, calcati, puramente autoreferenziali, sovente fini a se stessi; l’interdipendenza tra i soggetti, per cui l’uno deve all’altro la propria esistenza in un vincolo di cui si ignorano le ragioni, la nascita, la durata, il valore, finanche la sincerità d’affetto e di comprensione. E la metateatralità smascherata, burlesca, confidenziale; certa mestizia di fondo che viene alleggerita col motto di spirito o con la battuta da vecchio sketch ormai passato di moda; una trama che pare alludere a tutto senza parlare di niente e che sembra non parlare di niente ma che finisce per alludere a tutto. La solitudine da vivere (e da discutere) in due; la cronometria come trappola o come castigo; il senso di un momento penultimo che anticipa e che rimanda – dilatandosi il più possibile – il finale, la scomparsa, la morte: carnale, scenica, umana.
Tratti della drammaturgia beckettiana che sono tratti di due drammaturgie siciliane: Due passi sono, di Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi; Fragile, di Tino Caspanello. Facciamo – di seguito – analisi, comprendendo che si tratta di una lettura di testi differenti per origini, motivazioni, contenuti effettivi: piccola esegesi dovuta a chi scrive che, nel leggerli, pare aver ravvisato tuttavia un denominatore comune, un sottile rimando reciproco al grande autore irlandese.
Beckett in siciliano o meglio: la Sicilia beckettiana del teatro contemporaneo, potremmo dire, quasi associando un’isola all’altra, una voce straniera alle voci nostrane, la condizione d’isolamento che contraddistinse il padre di Godot alla condizione di isolitudine di chi scrive dalla (e non sempre della) Trinacria.
Legame orizzontale tra le opere, quindi, con lo sguardo verticale rivolto all’altissima fonte di Beckett; legame che sviluppiamo basandoci sui testi, sulla natura scritta delle opere, sul loro tessuto verbale. È sfogliando le pagine, piuttosto che ricordando le messinscene, che cerchiamo somiglianze, similitudini, echi circolari di ritorno.
Quali sono le caratteristiche che abbiamo riscontrato, dunque, e che hanno fatto immediatamente pensare a Samuel Beckett? Cerchiamo di procedere con ordine individuando tre aspetti rilevanti.


1 − La dinamica del rapporto io-voi ovvero la presenza – ad un punto dell’opera – di un’interpolazione senza filtri tra un personaggio ed il pubblico.
Io recito, voi osservate; io so che voi osservate, voi sapete che recito; io sono in palcoscenico e voi siete in platea, facciamo finta entrambi di credere alla verità di questa menzogna tenendoci a corta distanza ma, all’improvviso, ecco che io mi rivolgo a voi, sbriciolando l’illusione che la quarta parete sia ancora in piedi e dimostrandovi che tra me che recito e voi che osservate c’è solo aria, trapassata dal nostro sguardo reciproco. Nei testi di Beckett e nei testi siciliani che prendiamo in esame avviene questo: l’attore o gli attori, giunto il momento opportuno, provocano, realizzano e sottolineano il contatto, ristabilendo con chiarezza voluta l’effettiva posizione di chi prende parte al rito teatrale. Segnalazione di una soglia (la linea che separa il palco dalla platea) attraverso il superamento (orale) della soglia stessa; sembra un gioco ma non lo è: definisce, infatti, l’intera natura dialogica delle opere, che partono dalla presa di coscienza che non è possibile più scrivere e recitare pensando che non ci siano spettatori. Lo scriba (la coppia Carullo-Minasi; Caspanello) genera così insorgenze della voce, appelli dichiarati, richiami sonori all’avvicinamento partecipato rompendo la presunta linearità della trama, la sua uniformità, la sua natura compatta attraverso forme incisive di apparente improvvisazione teatrale. Gli attori impegnati continuano a recitare, ma recitano evidenziando la loro recita ad un pubblico che – in quel momento – torna a ricordarsi di essere il pubblico.
“Io questa notte mi sono addormentato e ho iniziato a fare così, e così, e poi così, e così, così… e poi ho immaginato sì, ho sognato io, te e… una bimba”
“Zitto, c’è un sacco di gente”
“Sì, una bimba! Ma perché non facciamo una bambina?”
“Ancora, guarda quanta gente c’è”.
In Due passi sono il rapporto tra attori e spettatori è una messa in rilievo: all’interno del dialogo tra i due protagonisti occorre ricordare e ricordarsi degli estranei che sono seduti d’avanti, che hanno pagato il biglietto e che assistono allo spettacolo. Ecco che, in una dinamica di contrappesi interpretativi (che sono anche contrappeso tra illusione e realtà, tra propensione al sogno e concretezza materiale) Pe si lascia andare alle suggestioni romantiche, alle utopie familiari, mentre Cri lo richiama all’ordine, gli riassetta la situazione, lo induce a prendere coscienza che si tratta, pur sempre, di teatro. L’uno è sbadato, fanciullesco, pieno di svago mentale; l’altra è netta, quadrata, consapevole: dalla difformità caratteriale, qui forzata perché il frammento riesca, ne viene la funzionalità del passaggio testuale: “Facciamo una bambina”, “Zitto, c’è un sacco di gente”.
In Fragile di Caspanello, invece, ci divertiamo a seguire il cappello che i due artisti viandanti usano per raccogliere eventuali offerte. Leggiamo le didascalie che riguardano l’oggetto, ricordandoci che – il singolo oggetto – nel teatro di Caspanello ha un’importanza fondante, giacché delinea e rappresenta metaforicamente il destino del personaggio. Di seguito:
“La donna prende un cappello e lo sistema con cura per terra”.
“La donna balla ancora per qualche istante, poi si ferma all’improvviso, prende il cappello e lo porge a qualcuno che, probabilmente, le sta passando d’avanti; non riceve nulla, rimette il cappello per terra”.
“Si alza e imita il modo di camminare dell’uomo. Ad un tratto si ferma, prende il cappello e lo porge a qualcuno che passa; non riceve nulla; si volta a guardare l’uomo, prova un certo imbarazzo; rimette il cappello per terra e torna a sedersi sulle ginocchia dell’uomo”.
Caspanello, apparentemente, genera una dinamica chiusa, ristretta, che in ribalta prevede una soglia non valicabile in alcuna maniera. Concentra, con maggiore intensità, il discorso limitandolo ai due soli soggetti (un Lui e una Lei), senza alcuna parola rivolta direttamente agli astanti. Ma – ad acuire lo sguardo e a considerare le didascalie come parte essenziale della trama – ci si accorge che tutto ciò che accade accade al cospetto del pubblico, di un pubblico di cui i due attori sono consapevoli e al quale si rivolgono direttamente proprio attraverso il gesto di allungare (inutilmente) il cappello. L’ultima didascalia, in tal senso, è rivelatrice: “Una pausa. L’uomo va a sedersi. Lo sguardo della donna si perde nello spazio che la circonda, poi va a riprendere il cappello per porgerlo a qualcuno che passa; nemmeno questa volta riceve nulla; rimette il cappello a terra e si avvicina all’uomo”.
Lo sguardo della donna – quindi – “si perde nello spazio che la circonda”, mettendo in rilievo che quel “qualcuno che passa” è, in definitiva, l’insieme delle persone che sono sedute in platea: a loro è rivolto idealmente e/o fisicamente il cappello, perché facciano la carità di prestare attenzione alla scena che segue. Queste didascalie, infatti, anticipano i siparietti di cui i due sono protagonisti: siparietto, cappello, nessuna moneta; siparietto, cappello, nessuna moneta.

 
2 − La spartizione della parola per voci che contrastano, generando battibecchi continui, continui fraintendimenti, dubbi, continue versioni divergenti su avvenimenti, persone, natura di oggetti o eventi trascorsi.
In Due passi sono come in Fragile abbiamo una coppia e, questa coppia, sembra non poter essere che una coppia: io esisto perché ci sei tu ma tu esisti perché ci sono io (“Ma qui che faccio?” – leggiamo in Fragile – “Quello che hai sempre fatto”; “Senza di te?”; “Lo fai benissimo, anche senza di me”; “No, senza di te non ci riesco”). Eppure, per quanto l’affiatamento sia assoluto tanto quanto il vincolo d’interdipendenza reciproca, il duo è portatore di visioni differenti, dà al medesimo oggetto caratteristiche diverse, confonde costantemente ogni singolo argomento che viene affrontato.
“Quando è successo?”
“Stamattina”.
“Non devi mangiare fuori dei pasti”.
“Ma non l’ho mangiata, l’ho buttata”.
“Dove?”
“Fuori”.
“Da dove?”
“Dalla finestra”.
“No, tu l’hai mangiata”.
“Pensi che non me ne accorga?”
“Ma non ho fame, lo sai che non ho fame”.
“Chi vuoi prendere in giro?”.
La natura interrogatoriale del passaggio, che dà il vero inizio a Due passi sono, segnala che siamo al cospetto di una trama basata su incertezze, intemperanze, discussioni. Sembrano litigi senza alcun senso – ed in parte lo sono – ma nel loro insieme ci dicono anche dell’ineffabilità del reale, dell’assenza di una verità che sia verità per davvero. Se ascoltiamo due voci che ci raccontano un fatto, quel fatto non sarà conoscibile fino in fondo: ne avremo due versioni e toccherà a noi credere all’una o all’altra e, molto probabilmente, finiremo per non credere a nessuna. In Aspettando Godot, ad esempio, Estragone e Vladimiro danno vita a questo scambio di battute:
“Siamo già venuti ieri”.
“Ah, no! Qui ti sbagli”.
“Cosa abbiamo fatto ieri?”
“Cosa abbiamo fatto ieri?”
“Sì”.
“Be’… Per seminare il dubbio sei un campione”.
Non sanno – i due – il giorno prima cosa hanno fatto, non sanno dove sono stati e non sanno neanche che giorno sia veramente: “Ma quale sabato?”; “E poi, è sabato adesso?”. Per dirla con Jean-Jacques Mayoux: “Con Beckett non tocchiamo mai niente, niente, senza essere costantemente in balia di illusioni diverse”. Lo stesso accade in Due passi sono, in cui a perdere valore è certamente il dialogo come incontro a metà strada; ma a perdere ancora più valore è – in definitiva – tutto il reale cui si fa riferimento. Avviene con Beckett, avviene anche nel testo di Carullo e Minasi, in cui anche l’illusione concettuale della felicità viene così sbriciolata:
“Vorrei abbracciarti”.
“E che cos’è un abbraccio?”
“Una cosa bella, per essere felice”.
“Certo, è per il possesso delle cose belle che i felici sono felici. Ma tu credi che ricevendo il mio abbraccio potrai essere felice?”
“Sì, credo”.
“E tu credi che basti volere una cosa, per ottenerla? Saremmo tutti felici”.
“Alcuni lo sono”.
“Altri no”. Ma come fanno quelli che ci riescono?”
“Dicono di amarsi, di amarsi per sempre”.
“Ah, Ma che vuol dire amarsi e per sempre poi! È un modo di dire, agli uomini piacciono molto i modi di dire”.
Nulla è sicuro, nulla è definitivo, nulla è certo fino in fondo: il giorno può essere notte, la pioggia può essere il sole, il mare può essere un lago se la felicità è l’infelicità nascosta da un'illusione, se l’amore è un modo di dire: uno dei tanti usati con sufficienza dagli uomini. Due passi sono ci suggerisce che possiamo dire tutto poiché tutto, potenzialmente, è valido come dettato: ma essendo valido tutto, nulla è ormai valido in maniera definitiva.
“Ti senti male?”
“No”.
“Non mi dici mai la verità. Come ti senti?”.
Già, come si sentirà davvero? Viene da chiedersi...
Lo stesso procedimento verbale caratterizza Fragile di Tino Caspanello. Qui la diversità è nel fatto che, a Caspanello, interessa il non-detto ovvero l’emersione di una o più sensazioni che sono state riposte, celate o taciute, ma che adesso vanno dette, a costo di riceverne dolore, sofferenza e frustrazione.
“Sai… io non ti ho detto…”
“Proprio bene!”
“Ma, mi ascolti?”
“Sono pronta”.
“Non ti ho detto una cosa”.
“Eh?”
“Sì, durante tutti questi ultimi anni, non ho avuto il coraggio di dirti una cosa”.
“Una sola?”
“Una sola”.
“Non devi dirmela se non vuoi”.
“Credo sia arrivato il momento di farlo”.
“Ne sei sicuro? No, perché se è qualcosa di personale o di imbarazzante, preferisco non sentirla”.
“È molto personale”.
“Dài, allora non c’è bisogno che me la racconti. Non bisogna proprio dirsi tutto tutto, sempre. Però, se vuoi…”
“Adesso?”
“Sì”.
“Beh, allora ti ascolto”.
Se in Due passi sono perde consistenza ogni realtà, in Fragile abbiamo il tentativo inverso: si cerca di dare consistenza a quella determinata realtà (le ragioni per cui si abbandona un lavoro; un sentimento provato e taciuto; una voglia di distacco o un senso di vergogna rimosso e che adesso ritorna e chiede di essere pronunciato) ma – ciò che conta per noi – è che il mezzo stilistico utilizzato è il medesimo: due voci che contrastano tra di loro, spartendosi il diritto di parola (lo dico/non lo dire) e che, di fatto, realizzano quella “essenza rivelatoria” che è alla base dei dialoghi beckettiani.
Questa tipologia discorsiva non serve soltanto ad annullare o espellere la sostanza reale; produce anche altri effetti: scatti d’apparente teatralità improvvisa; errori platealmente esibiti; fraintendimenti reciproci; brevi virtuosisimi di natura accidentalmente comica, basati sull’infrazione linguistica, sull’abbaglio, sull’incapacità istantanea di comprendere.
Capita in Due passi sono:
“Peee!”
“Cri”.
“Hai finito?”
“No.”
“Hai finito?”
“No”.
“Ma che cosa stai facendo?”.
“Guardo gli occhiali”.
“Ma con gli occhiali si guarda, non si guardano gli occhiali!”
Oppure:
“Che pensi?”
“Niente”.
“Lo sai, non devi pensare”.
“Lo sai, non penso”.
“No, no, tu stai pensando”.
“Non ti voglio dire a cosa penso”.
“Pe”.
“Cri”.
“Pe”.
“Cri”.
“Che pensi?”
“Niente”.
“Ma se mi hai appena detto che stavi pensando!”
Gli stessi siparietti, con tono diverso, li troviamo anche in Fragile:
“Che ci sto a fare con i palloncini, io?”
“Li stai gonfiando, no?”
“Appunto, li sto gonfiando. Ci provo, almeno”.
“Continua allora!”
“Continuo?”
“Sì, continua”.
“Ma ti avevo chiesto…”
“Tu fai troppe domande in questi giorni”.
“Io?”
“Sì, sì, tu”.
“Ma se i palloncini non volano, noi che ci stiamo a fare?”
“E io ti ho risposto”.
“No, non mi hai risposto”.
“Sì, ti ho detto: continua”.
“Continua?”
“Ti ho risposto: continua”.
“Ma non è la risposta giusta!”
“Non c’è una risposta giusta”.
“No?”
“No”.
Per affermare che non esiste una risposta giusta alla domanda (esistenziale) “Che ci faccio qui, io?” (“Che ci stiamo a fare?”) Caspanello produce un’isterica contrapposizione caratterizzata da errori, distrazione all'ascolto, mancanza di correlazione tra premessa ed effetti, tra quesito e sua risoluzione possibile. Nello stesso modo una frase semplicissima può essere incompresa:
“Sei così buffa!”
“No!”
“Sì, dico, sei proprio buffa”.
“Pensi che non sappia ballare?”
“Non ho detto questo”.
“Lo so, non l’hai detto, ma l’hai pensato”.
“E non l’ho nemmeno mai pensato. Dico solo che mi fai ridere”.
E, sempre in maniera identica, si può inscenare una (finta) sbadataggine tutta teatrale, basata sulla (in)volontaria ripetizione di una battuta:
“Non ci si sveglia da un giorno all’altro e si comincia a gonfiare i palloncini”.
“Questo l’hai già detto”.
“Ah, sì?”
“Sì, l’hai già detto prima”.
“Non ci ho fatto caso”.


3 − La testualità risolta nel ritorno vizioso dell’azione ovvero la definizione di una trama che è strutturata per riproposta di piccole parti che danno vita ad uno spettacolo continuo, ma continuo per reiterate discontinuità drammaturgiche.
Si procede, di fatto, di frammento in frammento e lo spettacolo appare come un insieme di sketch, di burle, di gags (per rimandare ad un termine tipicamente beckettiano) che iniziano, producono il loro effetto e si spengono, lasciando così posto alla scena successiva. In Due passi sono Pe e Cri fanno esercizi ginnici, leggono il giornale (allusione evidente a Giorni felici), si muovono come pedine su un tappeto a scacchi (altra allusione evidente: a Finale di partita). Pe mostra a Cri come si produce una smorfia sonora (“Me la insegni?”), realizzando teatro nel teatro; lo stesso accade in Fragile, in cui Lui chiede a Lei di danzare, Lei chiede a Lui di gonfiare i palloncini o di raccontarle una storia. Un passaggio eloquente segnala che nel testo di Caspanello – come in quello di Carullo e Minasi – si produce teatro nel teatro:
“Adesso tocca a te”.
“Ti ho detto di no”.
(conferma della natura contrastata di ogni dialogo: proseguiamo)
“Tocca a te farmi divertire”.
“Cosa?”
“Dài, fammi ridere”.
“Farti ridere?”
“L’hai fatto tante di quelle volte!”
Ovvero: lo hai fatto tutte le volte in cui siamo andati in scena e, in scena, hai riproposto il tuo spettacolino all’interno del nostro spettacolo.
Due passi sono e Fragile sono dunque partiture fondate su micro-partiture: in entrambi i casi ci troviamo di fronte a un meccanismo che crea effetti che vivono della loro immediatezza effimera e che sono subito superati dalla nuova simulazione, dal gioco successivo, dal prossimo esercizio comico. Si tratta di un andamento circolare (tornano le battute, in un pullulare di autocitazioni interne e reciproche) che trova soluzione solo con la conclusione aperta dei due testi.
Naturalmente, trattandosi di teatro, questa spezzettata discorsività che si accumula ha una dimensione fisica da piccolo varietà, che usufruisce degli oggetti (l’arredo minuscolo, il giornale, le sedie, un abito da sposa, un fiore finto, bottiglie di plastica per Due passi sono; palloncini, vestiti, un carretto, un ombrellino, una sedia pieghevole, una valigia, la custodia di un violino per Fragile), utili per scatenare il sorriso: trucchi quasi da comica muta, che rimandano a Beckett che rimanda – a sua volta –  alla tristezza allegra e martoriata di Buster Keaton.
Così − se in Aspettando Godot Vladimiro ed Estragone si tolgono e si mettono le scarpe, fanno esercizi di ginnastica, si scambiano i cappelli, si calano i calzoni, appendono la cintura ad un ramo per farne un cappio − invece Pe e Cri fanno fisioterapia con la bottiglia, si aggiustano gli occhiali all’unisono, sospirano, afferrano un pezzo di pane ma non riescono a spezzarlo, fanno apparire il giornale dal cuscino posizionato sulla sedia, usano guanti di lattice e tentano un abbraccio, naturalmente mancandolo. Lo stesso dicasi per Lui e Lei in Fragile: non solo il cappello, di cui abbiamo già detto e che serve per separare una parte dalla parte seguente, ma anche: svuotano il carrellino, lo aprono nella sua sezione frontale e fanno apparire una porta, gonfiano e fanno scoppiare i palloncini, provano e riprovano gli abiti, danzano, rovistano nervosamente nel ciarpame che trasportano.
In entrambi i casi registriamo l’incisività performativa degli oggetti (come non pensare anche a Finale di Partita e Giorni felici, tra cani di pezza, sveglie, arpioni, la scala, i giornali, gli specchi, i vecchi trucchi per il viso?): oggetti che fungono da strumento cinetico e consentono la tecnica della ripetizione prevista dal dettato, dandogli evidenza motoria e visiva.
Perciò le gags avvengono, staccate l’una dall’altra; non hanno un significato se non nel loro stesso realizzarsi (“Non mi piace questo gioco, non mi interessa, non ha senso!” dice Cri); risultano sapientemente congegnate come clowneria in aggiunta; non generano confusione bensì un voluto rallentamento ritmico poiché – dopo ogni elaborazione – è necessario uno stacco, occorre una pausa.
Per questo – con Carullo e Minasi come con Caspanello – lo spettatore ha la netta sensazione di un tempo che trascina il suo corso, che dilata la sua ampiezza. Ripetere e ripetersi stanca, spossa, infiacchisce e così – se Nell, in Finale di partita, (si) chiede “Perché questa commedia tutti i santi giorni?” – Lei, in Fragile, sbotta in questo modo “Smettila! Sempre la stessa storia! Se io, se tu… Non la voglio più ascoltare. Mi sono stancata di sentirti dire tutte le volte le stesse identiche parole!”; invce Cri, sbrigativamente, ordina a Pe: “No basta, senti, o la smetti o la smetti”.


In aggiunta, oltre la dimensione puramente testuale, vanno sottolineate ulteriori convergenze. Primo punto: lo spazio e ciò che ne consegue. La dimensione ambientale prevista dalle due drammaturgie, infatti, produce una tematizzazione comune: il desiderio di fuga e l’impossibilità della fuga desiderata.
Torniamo un attimo a Beckett e sarà facile ricordare come gli ambienti delle sue commedie siano spazi desolati, aride lande o stanze ristrette e costipate da segni scenografici palesemente teatrali: “Strada di campagna con albero. Sera” in Aspettando Godot; “Distesa d’erba che forma un ponticello al centro della scena” in Giorni felici; un “Interno senza mobili” con, “verso il fondo, due finestrelle molto alte da terra”, “una porta”, “vicino alla porta un quadro appeso con la faccia contro il muro” e “due bidoni della spazzatura” in Finale di partita. La neutralità delle aree beckettiane o la loro finzione ostentata caratterizza anche Due passi sono (l’interno di una casa senza pareti) e Fragile (la piazza, meglio: “Una piazza”). In Beckett come in Carullo/Minasi e Caspanello abbiamo perciò luoghi-non-luoghi o, se si vuole, scorci momentanei che diventano tuttavia panorami fissi, inallontanabili.
“Andiamo”; “Non si può”; “Perché?”; “Aspettiamo Godot” (Aspettando Godot)
Oppure: “Perché rimani con me?”; “Perché mi tieni con te?”; “Non c’è nessun altro”; “Non c’è altro posto” (Finale di partita).
La stessa impossibilità di uscire, di abbandonare fisicamente, di prendere una strada diversa viene espressa ripetutamente da Pe in Due passi sono, il cui titolo fa proprio riferimento alla voglia, il desiderio, forse l’utopia di compiere il gesto pedestre di allontanarsi dalla tana/galera in cui Pe e Cri sono relegati (evidente metafora anche di una condizione claustrale, complessa, difficoltosa, d’immobilismo non solo fisico). Leggiamo:
“Vorrei uscire”.
“Non puoi uscire”.
“Non posso uscire, ma il mio desiderio è di andare fuori”.
In Fragile, invece, Lui e Lei sono artisti girovaghi per cui, in teoria, la loro è una vita che corre continua, che muta il proprio fondale, la propria localizzazione concreta. Ma a leggere attentamente il testo si comprende che, anche in questo caso, c’è una condizione carceraria, una ristrettezza dell’anima che è una fisica costrizione a rimanere. Lui sa che Lei – durante un precedente spettacolo, alla vista di uno spettatore particolare – è stata scossa dall’improvvisa speranza di poter essere altrove e in una situazione/condizione differente. Speranza, naturalmente, mortificata:
“Tu gli hai teso la mano”.
“No!”
“Era come se lo avessi fatto”.
“Non ho teso nessuna mano”.
“Ti sei fermata. È stato un istante, una pausa della musica. Immobile, in mezzo alla piazza, e il cuore ti scappava da dentro. E quelle tue parole…”
“Io non ho…”
“Sì, le hai dette. A te stessa, piano piano. E a lui”.
“Io non…”
“’Portami via adesso, ti prego, via!’. E quando la musica è ricominciata, ti sei girata verso di me. Disperata. E io ho riso, ho riso fino alle lacrime, perché c’era tutta quella gente, la festa e le luci colorate e centinaia di palloncini che se ne volavano via e tutto il mondo che mi spariva intorno, un pezzo dopo l’altro”.
Abbiamo, quindi, una condizione di claustrofobia che, realizzata in termine di neutralità scenografica, si rivela invalicabile per chi ne fa parte. Come in Beckett non sfugge, sia chiaro, che la costipazione in ribalta è la ragione stessa della vita, da intendersi in senso metateatrale.
Tanto in Fragile quanto in Due passi sono gli attori sono attori e, pertanto, la loro esistenza coincide con il tempo in cui rimarranno in ribalta, al cospetto del pubblico. Per questo accumulano numeri da cabaret, per questo farfugliano dialoghi senza alcun senso apparente: perché, non avessero più alcuna ragione (reale o fittizia) per sostare sul palco, sarebbero costretti a tornare tra le quinte, sul retro, nei camerini. Li attenderebbe , cioè, la fine della recita, la sparizione, la morte. Non è un caso che – come nelle più importanti opere di Samuel Beckett – anche in queste si trovi un elogio manifesto del tempo presente (che è il tempo del teatro): perché fin quando apparteniamo al presente, possiamo ancora (inutilmente) sperare (o far finta di sperare) nel futuro, non siamo ancora passati, dunque non siamo ancora definitivamente falliti o defunti. Leggiamo, ad esempio, da Due passi sono:
“Abbiamo aspettato!”
“Cosa?”
“Ma come cosa? Abbiamo aspettato un sacco!”
“Bello, il bello è aspettare. Se ci pensi, anche una torta quando la si estrae dal forno ed è pronta per essere gustata, in realtà è finita! Ricordo che quand’ero bambina me ne stavo tutta attenta in cucina a spiare la mia piccola nonna che impastava. Era una lunga preparazione, un grande spettacolo; la torta piano piano prendeva la sua forma e, infarcita tutta, era come se venisse vestita a festa. Erano momenti magici, pura vita, pura creazione. Poi me ne scappavo davanti al vetro del forno e osservavo il mistero della torta che gonfiava, cresceva, ingrassava, quasi di felicità e vita scoppiava. Mi domandavo quale animella le soffiasse dentro. Poi, dentro, suonava il timer! Ecco allora ricomparire mia nonna, a gambe levate e con grande fretta, tirare fuori dal forno la torta e piazzarla su un vassoio a raffreddare. Capisci, me la presentava mentre sgonfiava, mentre quasi spirava. Io la guardavo assai triste, lei era esterrefatta. Che cosa tremenda è il timer! Cuocere è molto meglio che essere già cotti”.
“Desiderare” – per citare ancora dall’opera – “è un presente infinito, cioè un infinito presente”. Che bello sarebbe “il presente infinito”, commenta Cri che aggiunge, poche pagine dopo: “Se aspettassimo sempre, noi saremmo infiniti”.


Si aggiunga, ancora: la presenza di domande filosofiche o escatologiche (Due passi sono: “Un uomo è uomo perché desidera qualcosa o perché non desidera nulla?”, “Chi desidera una cosa, la desidera perché ce l'ha o perché non ce la l’ha?”); l’uso dei monologhi nel mezzo dei dialoghi; la propensione fisica all’inciampo (Fragile: “Non mi farai cadere per terra?”); l’enumerazione argomentativa o simbolica (Due passi sono: “Ci sono rimasti controventi abbracci. Centoventiquattro per due: duecentoquarantotto guanti per due, che confusione”) e si avranno ulteriori testimonianze di come ci si trovi d’innanzi a due opere profondamente influenzate dall’anima-scriba di Samuel Beckett; due opere che appartengono alla seconda ondata beckettiana in Italia, quella cioè che – piuttosto che mettere in scena opere dell’irlandese – trae suggestioni dalla sua poetica.
Si tratta di due tra le molte opere ascrivibili ad un filone che Marco De Marinis, in un recente volume (Il teatro dopo l’età dell’oro), cataloga come “teatro dell’essenza”: tipologia drammaturgica che, partendo dallo screditamento del linguaggio, elabora proprio le strategie cui abbiamo fatto riferimento. Soltanto per rimanere ancora sull'isola avremmo potuto scrivere anche de Il cortile di Spiro Scimone o dello splendido Totò e Vicé di Franco Scaldati, per la regia e l’interpretazione di Enzo Vetrano e Stefano Randisi.
Abbiamo prediletto invece Giuseppe Carullo/Cristiana Minasi e Tino Caspanello, avvantaggiandoci delle relazioni esistite ed esistenti tra tali artisti: furono proprio Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, infatti, gli interpreti della prima rappresentazione di Fragile, nell’ambito del Festival ‘Panorami della contemporaneità’, nell’agosto del 2009. Piccolo scherzo d'intarsi che il teatro propone, per cui gli attori sono autori di un testo che richiama, in parte, un testo precedente in cui sono esistiti.
Strano arabesco del destino, dunque; linearità distorta di parabole artistiche che s’intrecciano, disegnando tragitti inaspettati, congiunzioni segrete: come quelle che legano − in questo articolo − l’Irlanda alla Sicilia, un’isola a un’isola, una voce straniera alle voci nostrane. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tino Caspanello
Fragile
in Teatro (Mari, Rosa, 'Nta ll'aria, Malastrada, Interno, Sira, Fragile)
Roma, Editoria & Spettacolo, 2012
pp. 220, pp. 183-205


Giuseppe Carullo, Cristiana Minasi
Due passi sono
introduzione Mario Bianchi
prefazione Massimo Marino
Bologna/Napoli, Caracò, 2013
pp. 53


Gianni Celati

Su Beckett, interpolazione e il gag
in: Finzioni occidentali, Fabulazione, comicità e scrittura
Torino, Einaudi, 2001
pp. 227, pp. 167-94

AA.VV.
Le ceneri della commedia. Il teatro di Samuel Beckett
a cura di Sergio Colomba
Roma, Bulzoni, 1997
pp. 464

 



Teatrografia:

Fragile
di Tino Caspanello
regia Tino Caspanello
con Giuseppe Carullo, Cristiana Minasi
costumi Cinzia Muscolino
assistente alla regia Cinzia Muscolino
produzione Teatro Pubblico Incanto


Due passi sono
di Giuseppe Carullo, Cristiana Minasi
regia e interpretazione Giuseppe Carullo, Cristiana Minasi
luci Roberto Bonaventura
scene e costumi Cinzia Muscolino
aiuto regia Roberto Bitto
produzione Il Castello di Sancho Panza

 

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