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Sunday, 26 October 2014 00:00

I teatri di Marco De Marinis

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Ogni volta che qualcuno vorrà chiudervi in un angolo,
dichiarando: Questo è teatro, questo non è teatro,
rispondete decisamente: Il teatro non esiste, ci sono
i teatri, e io cerco il mio.
                                                        (Émile Zola)


Scrive Marco De Marinis che il compito dello storico del teatro “sta nell’andare al di là della superficie ingannevole della cronaca, delle verità note, delle sistemazioni facili della storiografia” per rendere “la storia sotterranea del teatro”.
Rifiuto di un’oggettività di maniera, fasulla nella sua pretesa di verità inappuntabile e – invece – affermazione continua della propria presenza, del proprio sguardo, dei propri interessi: inevitabilmente parziali. Scegliere, mettersi in gioco, prendere posizione distinguendo cosa va raccontato davvero da cosa merita l’ombra o l'oblio.
“La storia del teatro del Novecento non esiste, rappresenta una pura astrazione”: se non la si riduce a un manuale o un’antologia da esame universitario – costringendo a visitarla come si visita un museo (con la sua lunga “fila di monumenti un po’ funerei”) – ci si accorge ben presto che il ventesimo secolo del teatro è un bollore continuo, un costante fermento confuso, magmatico, difficilmente riconducibile a un solo indirizzo o a poche dinamiche più o meno lineari: il teatro del testo e la postdrammaturgia; il grande attore e la scena visuale in cui gli attori sono decoro estetico; la ricchezza degli Stabili e la povertà delle cantine; i santoni del teatro antropologico e gli artisti della performance; il ritorno all’autore e le trame di immagini e urla o di buio e silenzio e poi il teatro sociale, il teatro collettivo, il terzo teatro, il teatro degli invisibili mentre aumentano e diminuiscono i fondi pubblici, si discute di nomine e di programmazioni stagionali, si riflette su come far fronte all’invasività lottizzatrice della politica.
Nel Novecento c’è questo e c’è altro e di fronte a tutto questo insieme brulicante di idee, di esperienze e spettacoli, “lo storico non può far altro che mettere da parte inutili e pericolose pretese di oggettività e di esaustività” e rendere – ai suoi lettori – le proprie predilezioni e preferenze, le proprie (parziali) conquiste, i propri innamoramenti: esplicitando, argomentando, contestualizzando e motivando.
Leggere Il teatro dopo l’età dell’oro. Novecento e oltre di Marco De Marinis significa – innanzitutto – seguire lo sguardo di De Marinis; comprendere quali sono i luoghi teatrali che in questi decenni ha frequentato; misurare il cammino, le rotte, i percorsi che i suoi piedi hanno compiuto per raggiungere determinati attori, registi, autori e determinate messinscene.
Nel volume, dunque, non c’è una storia del teatro né la storia di un secolo, in parte visto dalla platea; non c’è la resa di un pantheon e neanche una rassegna esauriente e completa di ciò che è avvenuto; non c’è la realizzazione di una fredda classifica di merito o una difesa assoluta di ciò che si è prediletto mentre c’è – com’è giusto che sia – tutto ciò cui l’autore ha deciso di dedicarsi, di approfondire e conoscere, ciò per cui ha parteggiato, ciò che ha scelto di seguire e di non abbandonare nel tempo ma di continuare ad interrogare e comprendere.
Ne viene, in un certo senso, una sorta di autobiografia per studi fatti giacché, scrivendo, De Marinis lascia inevitabili tracce di sé: i propri gusti, le conoscenze personali, i rapporti intessuti con uomini e donne del palcoscenico, gli umori con cui ha condiviso o meno certe scelte artistiche che hanno portato fallimenti o successi. Così – in questa rassegna di scritture in parte già edite ma qui riunite a saggi mai pubblicati in volume – capita ad esempio di imbattersi in frammenti d’amicizia, in brevi incisioni personali o in ricordi di legami trascorsi: “Credo di non potermi sottrarre all’obbligo di parlare del mio rapporto con Leo de Berardinis, un rapporto quasi ventennale”, ad esempio; oppure: “Scrivo anche per pagare un debito nei confronti di Giuliano Scabia e riconoscergli quello che gli debbo come maestro: anche se non sono mai stato suo allievo in senso stretto, Scabia è uno di coloro che ho avuto la fortuna di potermi scegliere come maestro – a modo mio, naturalmente”.
In questo libro, dunque, c’è tutto l’impegno pluriennale di De Marinis; c’è il teatro che lo ha scosso o che lo ha incuriosito; c’è l’impegno dello studio che vi ha dedicato; c’è la animosa propensione a un’idea (sempre mutevole) della scena e dei suoi protagonisti; c’è l’insieme di avventure (non sempre a lieto fine) che il Novecento teatrale italiano ha cercato di proporre. C’è – in questo libro – l'affetto che l’autore ha manifestato per certe esperienze artistico-umane; c’è il fascino che ha subito da alcune grandi figure pedagogiche; c’è l’incanto dell’incontro con un autore, un’attrice o un regista, che è cresciuto fino a diventare ragione di analisi, di vocazione esegetica, di ostinazione critica.
“Questo è il teatro che ho cercato di vivere” potrebbe dire De Marinis, riunendo nel verbo “vivere” i verbi “amare”, “vedere”, “studiare”, “interpretare”, “raccontare” e “valutare”.

Ma di che tipo di teatro si tratta, forzando la lettura e cercando un denominatore comune tra narrate realtà differenti?
È il teatro che vive oltre il teatro classico, tradizionale o di stagione, e che appare con forza sovente improvvisa e irrefrenabile in luoghi periferici, sotterranei o stranieri; è il teatro che fa di sé offerta bruciante, dissipazione quasi immediata; è il teatro degli acerbi gruppi d’avanguardia o dei grandi maestri che non hanno mai badato allo spettacolo da confezionare ma al lavoro su se stessi; è il teatro che non vive di sostegno pubblico, che scuote o cerca di scuotere il gran carrozzone del commercio spettacolare, che si offre e talora si immola alla ricerca di una differente (e spesso confusa) nuova via della produzione drammaturgica.
È il teatro che fonda comunità provinciali o che – nei grandi centri d’Italia – induce agli spostamenti furtivi piccoli gruppi di uomini e donne, che si richiudono per qualche ora in uno scantinato, in una soffitta, in una sala da venti posti, in uno spazio occupato, in una casa privata.
È il teatro che rifiuta ormai anche il termine “teatro” e che vi contrappone la vocazione alla performance pluridisciplinare; che rifiuta la frontalità della visione e cerca una fisica compresenza col pubblico; che rifiuta la contraffazione della recita illudendosi di trovare qualcosa di più vero della recita stessa.
È il teatro che rinuncia alle scenografie, al dialogo tra gli interpreti, al regista-comandante del vascello o che ingloba le scenografie, il dialogo tra gli interpreti e il regista-comandante in un più articolato (e confuso) sforzo creativo.
È il teatro che fa del corpo un palcoscenico, del silenzio un discorso.
È il teatro-altro-dal-teatro di Grotowski e Decroux che cercano – in maniera differente ma comune – “le leggi della vita che scorrono”; è il teatro della “poesia come corpo-voce” di Artaud (ma non è il teatro dei troppi epigoni ed esegeti superficiali di Artaud); è il teatro del minimalismo postbeckettiano ma è anche il teatro di Moni Ovadia, Giuliano Scabia, di Ascanio Celestini ed è il teatro delle compagnie nuove degli anni Novanta (Socìetas Raffaello Sanzio, Muta Imago, Motus, Fanny & Alexander, Masque, Teatrino Clandestino).
Ed è il teatro dell’attore “performer”, che fa accadere se stesso in un luogo mutando il senso e la forma del luogo in cui appare; dell’attore “narratore”, che lavora sull’oralità ed esibisce “scenicamente un’identità non sostituita” né sostituibile; dell’attore “sociale”, che opera nei teatri della diversità (da Bobò a Il Teatro della Fortezza di Armando Punzo, il Teatro Nucleo di Ferrara, Kismet di Bari); dell’attore “meticcio”, che elabora la “propria interculturalità-multietnicità” e riesce a rendere le “identità plurime” della propria formazione umana, sociale e di scena (Pippo Delbono, Danio Manfredini, Ermanna Montanari).
Ed è – ancora – il teatro fallimentare e mancato di Pier Paolo Pasolini (proposto in ribalta solo dopo l’Idroscalo); è il teatro che si genera nei laboratori e che nei laboratori appassisce; è il teatro dei festival che spariscono dopo un paio di edizioni illuminanti; è il teatro dei gruppi più giovani, che periscono delle loro stesse certezze granitiche, accontentandosi di parlare solo ad amici e critici affiancatori e indulgenti.
È, in alcuni casi, “teatro che non c’è più” quello cui ha badato De Marinis ed è – in altri – il teatro che (r)esiste riformando se stesso, salvando solo una piccola parte del proprio vissuto, facendo memoria e analisi di sé in attesa di trovare un’ulteriore definizione possibile del proprio lavoro.
È, in definitiva, il teatro che vive all’ombra dei grandi edifici destinati alle programmazioni statali e commerciali, che fitta o che occupa piccoli anfratti umidi o che va in scena in minuscole sale dall'incerto destino e dai conti economici ancora più incerti; è il teatro capace di generare fenomeni vaghi e illusori o suggestioni così gravide da rimanere per sempre negli occhi dei presenti; è il teatro che rifiuta le abitudini della tradizione, a costo di perdere presto in tensione, capacità d’azione, chiarezza progettuale.
È il teatro delle evoluzioni che avvizziscono, delle cooperazioni che finiscono in rifiuti reciproci, il teatro – per citare Eugenio Barba – di coloro che sono “scomparsi, decimati dalla penuria dei mezzi, dalla mancanza di una strategia, dalla rivalità, dalle guerre tra i poveri, dalla disunione”.
In questo suo fondere maestri ed allievi, teorie che fanno la storia e storie che rimangono soltanto teoriche, santoni effettivi e promesse mancate di una scena che si sognava, voleva o si pensava diversa, differente e altra, Il teatro dopo l’età dell’oro riesce ad essere davvero resa libresca di una pulviscolare avventura d’esperienze, narrata in rigorosa soggettiva ma rispettosa comunque della reale ed effettiva pluri-offerta avvenuta negli ultimi decenni: tra continuità e discontinuità, fusioni e separazioni, conservazione della memoria e mature trasformazioni salvifiche.
De Marinis sa che “di fronte a un paesaggio teatrale così mosso e così variegato” ogni riduzione “ad unicum è evidentemente impossibile e comunque non auspicabile” e che, per non abdicare al proprio compito, allo studioso di teatro − contro ogni confusione ammucchiante e contro ogni bilancio superficiale e di maniera, quando non realizzato per interessi taciuti − non resta che tentare di “tracciare contorni, distinguere, collegare”, scrivendo (o illudendosi di scrivere) così non la storia  ma una storia: la propria.
È ciò che, di fatto, compie davvero chi (da osservatore, studioso, esegeta; da docente accademico o da critico del giorno dopo) dedica la vita al teatro – meglio: ai teatri – sedendo, sera dopo sera, in una platea; studiando, giorno dopo giorno, chino a una scrivania.
Decidendo di fare testimonianza di ciò che ha veduto e che merita il tempo della riflessione, la disponibilità al confronto, l'impegno delle parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

Marco De Marinis
Il teatro dopo l'età dell'oro. Novecento e oltre
Roma, Bulzoni, 2013
pp. 415

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