“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 10 August 2014 00:00

Nel nome di Enea, luci rubenti di un muliebre sentire. Lo vogliono gli dèi

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I chiari, gli scuri. Il tenue, il forte. In una fresca sera d’agosto, albeggia, s’infoca e tramonta un rosso che non desiste, ora che quell’elegante custode del tempo chiede la parola. Una parola che si fa anzitutto luce, appunto, in un’architettura di colori superba ed intrigante, come per gioco, in un gioco delle parti. Luci rubenti, quelle dominanti, che prendono forma, ancor prima che in parola, nei tessuti che avvolgono i corpi chiamati dal tempo: tessuti trasparenti e rigidi, in ricamo e screziati, elegante periodare (se emozioni e parole che le raccontino qui si plasmano) di natura e mito, tradizione e storia, spirito e carne.

Luci rubenti, come i tessuti, a vestire i corpi di tre donne, a plasmare il detto di un muliebre e vinto sentire.
In scena la storia di Enea. Di questi è evocato, invocato, supplicato il nome, per il tragico vissuto di cui gli dei l’hanno voluto vittima e carnefice, eroe e non già  umano, né più figlio o marito o padre: in nome di una patria da dover perdere e di una da dover fondare. Troia più non è, ed il suolo italico attende d’esser battuto da una nuova forza, da un padre che gli darà i natali.
E sarà Roma, che nello splendore augusteo troverà sostanza, nata dalle glorie dell’Egeo e per l’indiscussa volontà dei numi.
Prende così vita qualcosa di simile ad un racconto, ad un viaggio dove in cammino sono i ricordi e le storie di cui questi si fanno testimoni del tempo custode. Narratio ed actio si fondono nella volontà di un dire talvolta confuso e compresso se ha, poi, la meglio il pur oggettivamente bello menage suggestivo. Prende vita, così, un’eco drammatica di voci di donna che, in una giostra di sequenze, riesumano il ricordo di Enea per dare ragione (e forse pace), passando per le mitologiche (non) verità, alla trama di un dolore tutto umano, dalle tinte passionali e quasi ineffabili, lontano da ogni rimedio se non nella doverosa cerebrale pausa della rassegnazione.
La scena, vivida immagine d’impatto cromatico del rosso imperante, è il luogo degli Inferi: lì Enea ritrova gli insepolti e, dal padre Anchise, riceve la profezia del suo destino; qui tornano alla luce le anime raminghe, ancora straziate dal dolore e dal desiderio di giustizia, di Creusa e Didone.
Un viaggio nel virgiliano Ade, dove il ruolo del dantesco maestro (in fede al poema) è della Sibilla: sarà lei, con in mano un ramo d’oro (chiave d’accesso al regno immortale), a guidare, qui, con certezza espressiva (per colore, ritmo, e mimica), il ricordo dell’uomo che per primo dalle terre di Troia raggiunse esule l’Italia per volere del fato (Eneide, I, vv1-2), attraverso il dannato racconto delle donne del suo passato.
Tragicità di richiamo faustiano (se “iperbolicamente” – a ricordare Praz – la passione dominante dei personaggi è spinta all’estremo) e tipico delle ovidiane figure femminili, quest’Eneide non trova luogo nell’incontro di personaggi in azione, in un epico snodo di pietà e di fughe, ma tenta di dare luogo ad un viaggio di racconti, tra i ricordi, da un femminile punto di vista: quello di Creusa e Didone, moglie ed amante del pius Aeneas.
A chiamarlo, di un urlo spesso e disperato, come illudendosi di poterlo vedere una sola volta ancora, è la voce, il corpo, il desiderio di Creusa. Viva è la morte che questa donna trascina con sé: in un luogo come quello le anime, spoglie del corpo mortale, ne (sop)portano la gravità per non aver saputo assecondare una Volontà giusta. “Io ero ed ora non sono più”: Creusa piange la scomparsa di suo marito per colpa di quella guerra, di Elena, di quella “cagna maledetta”.
Maledetto l’inganno del cavallo che di Troia ne distrusse la stirpe: ad Enea non restò altro che l’inizio di un nuovo viaggio, lontano dall’amore di Creusa e del piccolo Ascanio. Creusa, in lacrime, rinnova il dolore di non aver più visto il padre di suo figlio e (luogo virgiliano) di averlo rivisto in quest’Ade fallire, per ben tre volte, il tentativo di abbracciarla. Mortale illusione: lei non è più, loro non sono che “fantasmi simili a sogni amati”. Metaricordo di un infernale dolore.
Districandosi tra le furie di Caronte e del mostro Cerbero, qui rievocati, la Sibilla cede l’omnisciente passo al lento incedere di un’altra anima, di un altro sentire.
Ancora sanguigna di suicidio, è Didone che risale dalle tenebre: scuro l’incarnato e straniere le sue prime parole. Della Libia fu regina, vedova di Sicheo e per amore di Enea ne abbandona la devozione. A nulla servì aver creduto alle parole del troiano, averlo accolto e soccorso. Stringe nella mano ancora il pugnale che l’ha resa colpevole e vittima di un’atroce destino, accecata dalla passione e dall’incapacità di comprenderne l’impossibile felice coronamento. Didone arde ancora d’amore per Enea, si dispera nel ricordo – Didone, dovevi sapere che gli amori degli stranieri non erano affidabili. Di rabbia e di amore le sue parole – "Tu eri la pioggia sulla mia terra arida" – ricordando quel bacio con cui ha iniziato a morire, quel bacio che l’ha resa immortale.
Turbata dalla nausea, si accascia proteggendo il ventre: l’eroina ovidiana aveva, forse, in grembo una nuova vita. Più forte, poi, stringe il pugnale e, allontanandosi, continua a colpirsi rinnovando il dolore della sua ingannevole vita.
Un personaggio eternamente vivo, quello di Didone, tra le figure femminili dell’opera virgiliana e di quella ovidiana, che , invero, avrebbe meritato, proprio in questa pièce, una drammatizzazione più consapevole e meno sincopata (sincope di battute, di movimenti e di tentate seduzioni) per dare giusta forza (letteraria e scenica) ad una scelta drammaturgica molto ben scritta.
La Sibilla torna a guidare il ricordo, verso i Campi Elisi, quindi al tempo della profezia di Anchise al pio figlio. Sulla strada, dei sogni, (s’immaginano) due porte si aprono ad Enea: l’una è di corno, l’altra eburnea.
Il cammino della vecchia donna, fin qui, è compiuto. Ormai i granelli di sabbia in suo pugno (quanti ne aveva, ingenuamente, richiesti ad Apollo per una lunga vita) sono rimasti in pochi, e la clessidra del tempo è nuovamente ribaltata. Sono passati già sette secoli. Il suo corpo, lentamente, si fa piccolo fino a che non resterà che una voce.
Flatus vocis per l’eternità che avrà ancora memoria. Per nuove genti. Tra nuovi luoghi. Da Troia al suolo italico, oziando per la terra capuana.
Se gli dèi lo vogliono.

 

 

 

Teatri di Pietra
Eneide – Ciascuno patisce la propria ombra
da
Virgilio, Ovidio, Marlowe
drammaturgia e regia Matteo Tarasco
con Viviana Altieri, Nadia Kibout, Giulia Innocenti
scene e luci Matteo Tarasco
costumi Chiara Aversano
produzione Arte e Spettacolo Domovoj
Santa Maria Capua Vetere (CE), Anfiteatro Campano, 5 agosto 2014
in scena 5 agosto 2014 (data unica)

 

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