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Monday, 04 August 2014 00:00

Riflessioni e domande sulle direzioni di Luca De Fusco

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Dunque, si è conclusa la settima edizione del Napoli Teatro Festival Italia.
E puntualissimo è arrivato il bilancio entusiastico che ne ha fatto il suo
direttore, Luca De Fusco. Ma i giudizi di De Fusco (gli dice qualcosa il
motto "Cicero pro domo sua"?) lasciano il tempo che trovano.

Nell’ambiente teatrale napoletano di oggi due cose vengono tenute in
sommo onore: l’omertà, al cui confronto quella che vige tra i mafiosi
è una barzelletta (o, a scelta, un valzer di Strauss ballato da un chierichetto
e una conversa), e il trasformismo servile nei confronti del potente di turno.
(Enrico Fiore, da 'Controscena.net')


Nel 2010 fu L’attesa.
Operazione di “commissione drammaturgica”, nacque inizialmente come richiesta di un’elaborazione di testi, poi raccolti in forma di libro: Milena Agus, Vincenzo Consolo, Ivan Cotroneo, Andrea De Carlo, Paolo Di Paolo, Dacia Maraini, Maria Pace Ottieri, Sandra Petrignani, Pulsatilla ed Elisabetta Rasy. Furono loro a scrivere brevi storie dialogiche delle quali il concetto di attesa fu la premessa, l’argomento, il tema esplicito o il contenuto nascosto, la conseguenza teatrale, il risultato effettivo.
Dalla realizzazione dei copioni al loro affidamento a “compagnie teatrali espressione delle nuove creatività napoletane” ovvero – citiamo ancora dal volumetto Bompiani che ne derivò – “giovani artisti che sperimentano idee di teatro non convenzionali”, che “accettano di cercare il teatro anche dove non sia previsto che l’attore si dichiari allo spettatore” e che fossero capaci di tramutare gli scritti messi a loro disposizione in uno spettacolo effettivo ma taciuto, plasmando le parole alle condizioni, ai luoghi, alle idee realizzative di una scena-oltre-la-scena: perciò “non sempre i testi che gli autori hanno scritto saranno i testi detti in questi pochi minuti”.

Elenco dei registi e delle compagnie che furono selezionate: Giorgia Palombi/Maniphesta Teatro; Sara Sole Notarbartolo/Taverna Est; Anna Gesualdi/TeatrInGestAzione; Nicola Laieta/Calone-Laieta; Daniele Russo/Teatro Bellini.
Non pare il caso, naturalmente, di tornare alla qualità realizzata degli spettacoli, in alcuni casi davvero pregevole. Basti tuttavia sapere che chi scrive conobbe il progetto quasi involontariamente, com’è giusto che fosse. Di ritorno da una delle tante conferenze stampa mattutine previste dal Festival l’occhio mi si fermò su una ragazza giovane, dal volto bianco e smunto, sul capo una benda a comprimerle i capelli alla nuca, indosso una camicia verde stinta ed una gonna nera a fiori: cultura rom. Ai piedi una piccola radio da cui veniva una musica appena percepibile; dalle labbra una nenia capace, a stento, di toccarmi l’orecchio. Ero nella stazione della Cumana/Circumflegrea; le mie gambe erano pronte ad andare ma restarono ferme; le lancette del mio orologio giravano ma sembrarono pian piano rallentare; a casa mi attendevano per il pranzo ma lasciai brontolare lo stomaco: dimenticai casa, pranzo, poi non sentii più la fame. I miei occhi si incuriosirono, mi avvicinai, fissai, compresi: l’ordine degli eventi previsti per quella giornata si scombussolò, il teatro ridefinì all’improvviso il mio tempo, la mia direzione, i miei impegni e mi conquistò trattenendomi e costringendomi ad assistere a uno spettacolo che non si dichiarava spettacolo ma che diventava spettacolo soltanto nel momento in cui m’accorgevo della sua presenza, della sua improvvisa apparizione, della sua ostinazione laterale e furtiva.
Era Petru, per la regia di Anna Gesualdi. L’attrice era Michela Vietri.

Dieci scrittori, cinque compagnie, trentuno attori, migliaia di spettatori che – senza pagare alcun biglietto d’ingresso ad un luogo – si ritrovarono al contatto con il teatro del Napoli Teatro Festival Italia. Piermario Vescovo, ne Il tempo a Napoli (Marsilio, 2011), analizza quest’esperienza collettiva rapportandola al concetto di spazio urbano come luogo “diversamente teatrale”; relaziona le singole opere con la pratica dei canovacci ma sottolineando che si trattava di “un progetto più ambizioso” giacché erano “drammaturgie per uno spettatore” inconsapevole e rese in “circostanze non consuete”; infine associa gli spettacoli agli Stationendrama anche se – nel caso specifico – chi partecipò all’evento non aveva scelto di prendervi parte ma vi s’imbattè, lo seguì totalmente o lo abbandonò ad un punto, non sempre ebbe piena consapevolezza di ciò cui stava assistendo.
Far accadere teatro in funicolare, in autobus, in metropolitana significò – scrive ancora Vescovo – “realizzare azioni che superano il pubblico che queste stesse si scelgono o che le sceglie: le persone in attesa che, per caso, si raggruppano vicino agli attori in incognita e permettono loro di iniziare la performance, oppure coloro che si avvicinano, attirati da qualcosa che è già iniziato e desta la loro attenzione”.
Questo – tra gli altri – fu uno dei valori socio-urbano-teatrali de L’attesa.

Perché riscriverne adesso? Perché a quattro anni dalla visione di Petru o de L’innocenza dei postini, di Assenti, di Circolare, di Grandi speranze viene da riflettere pensando all’ultima edizione del Napoli Teatro Festival Italia, firmato non più da Renato Quaglia ma, per la quarta volta, da Luca De Fusco. Perché viene da riflettere? Perché chiunque ha frequentato con assiduità il Festival 2014 – raggiungendo i suoi luoghi e dunque traversando le strade, le piazze, gli scorci della città – si è reso conto del distacco assoluto tra le strade, le piazze, gli scorci della città ed il Festival stesso, vera e propria carcassa d’Arte fantasma che vive nel pieno centro urbano di Napoli ma che non ha alcuna relazione con il centro urbano di Napoli, con la sua plurisocialità culturale, con i suoi abitanti, che ne sono stati spettatori potenziali e mancati.
Non si tratta, sia chiaro, di fare la conta dei biglietti venduti o degli incassi realizzati ma di prendere nota di un’impostazione organizzativa che, se vogliamo, realizza in concreto un’idea teorica del teatro. Il Napoli Teatro Festival Italia di Luca De Fusco vive tra le pareti, opta per gli spazi chiusi e consueti, si alberga sui palcoscenici storici della città; prevede la coda ai botteghini, il pagamento del biglietto, l’atto di sedersi in poltrona. È dentro il Napoli Teatro Festival Italia di De Fusco, com’è dentro il teatro di una normale stagione di spettacoli. E le messinscene presso il Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa? E Per oggi non si cade di Manlio Santanelli presso l’Accademia delle Belle Arti?
Le prime hanno tramutato il Museo in un teatro momentaneo ovvero il Museo è stato pensato, adibito e usufruito come una polisala tradizionale, con spazi al chiuso o all’aperto: una sorta di edificio ulteriore per la drammaturgia, capace di rispondere a tale funzione per il solo mese di giugno.
Lo spettacolo di Santanelli è stata una piacevole eccezione tanto da essere diventata, per chi firma l’articolo, una pulce all’orecchio: è proprio assistendo a Per oggi non si cade che ho ripensato a L’attesa e alle potenzialità sprecate di un binomio – Festival/Città – che mi sembra necessario e vitale ma a cui, Luca De Fusco, pare aver rinunciato senza troppi assilli o riguardi.
Dunque il Festival 2014 appartiene ai teatri e – appartenendo solo ai teatri – appartiene al pubblico già teatralmente formato o interessato; appartiene ai teatranti (da sempre curiosi nello scrutare il lavoro dei colleghi); appartiene a quella ristretta comunità che di teatro vive, chiacchiera e scrive (critici della carta stampata e del web compresi, naturalmente). Pubblico elitario (come è inevitabile che sia: il teatro non è più fatto di massa, non è più evento sociale) ma la cui elitarietà sembra essere stata accentuata ulteriormente dalla concezione festivaliera di Luca De Fusco, che da L’attesa passa all’assenza, potremmo scrivere: all’assenza di legami e contatti tra il suo Festival e la cittadinanza “non teatrale” di Napoli.
Non uno spettacolo, non una performance, si ambienta dunque in un vicolo, in una sala universitaria, al centro di una piccola o grande piazza periferica; non uno spettacolo, non una performance, abita uno spazio inconsueto, incontra spettatori inconsueti, genera e (perché no?) forma un possibile pubblico teatrale futuro, imponendo ad esso il teatro.
Il Napoli Teatro Festival Italia 2014, nella sua natura spazio-teatrale, invita gli spettatori a raggiungerlo mentre non è capace di proporsi: “venite”, dice, pretendendo gli si vada incontro senza – nel contempo – ipotizzare e realizzare alcun atto di generosità, senza manifestare alcuna vera propensione al confronto, alla contaminazione, all’apertura.

Ma la concezione chiusa del Napoli Teatro Festival Italia 2014 – proseguendo il ragionamento – è forse, a sua volta, conseguenza specifica di una concezione programmatica e organizzativa generale che appartiene a Luca De Fusco. Tralasciando il grottesco-ridicolo del 'Premio Le Maschere' (in cui, quest'anno, quasi un terzo dei candidati è direttamente o indirettamente legato a Luca De Fusco), va detto che l’autoreferenzialità festivaliera (che raggiunge l’apice con il direttore del Festival che, nel Festival, agisce anche da regista che mette in scena e da botteghino che incassa) si manifesta compiutamente anche nelle scelte pluriennali che il multi-direttore ha palesato: un ossessivo ritorno degli stessi registi, delle stesse compagnie, degli stessi attori, quasi a fare del Festival un'appendice ammalata dello stesso male che affligge lo Stabile di Napoli in cui, la propensione alla riproposta, è ormai pratica acclarata.
Non vi è ricambio, da un’edizione all’altra del Napoli Teatro Festival Italia, ma riaffermazione di rapporti e di vincoli; non vi è modificazione effettiva e sostanziale ma soltanto una variazione rara, funzionale e assai parziale (siamo alla lottizzazione delle scene?) che diventa generosa concessione ridristibutiva della possibilità di andare su palco e – in questo modo – chi ha un occhio attento alle vicende napoletane assiste alla conferma continua di certi nomi e di certe presenze.
Se non siamo in errore ecco che veniamo all’idea di una privatizzazione del Pubblico (Stabile e Festival vivono di contributi pubblici) per cui la direzione di Mercadante/Ridotto/San Ferdinando e la programmazione del Festival realizzano – nei fatti – non un ampliamento dell’offerta ma una riduzione della stessa giacché gestita e affidata a un nucleo ristretto di riferimento cui è permesso di passare con vorticosa insistenza da Shakespeare a La Capria, dalla Ortese a Čechov: con i risultati che poi giudichiamo, di volta in volta, criticamente.

A questo punto prendo in prestito il passaggio di un articolo firmato da Carlo Fuortes, economista teatrale, pubblicato da Il Manifesto nel novembre del 2000. La data di composizione esclude un diretto riferimento a De Fusco ma il frammento serve a completare il ragionamento. Fuortes, in questo mini-saggio intitolato Il teatro che il denaro (non) può comprare, spiega quali sono gli obiettivi di politica economica e culturale che uno Stabile (e quindi anche un Festival che usufruisce di soldi pubblici) non può mancare.
Dopo aver scritto che lo Stabile “non può ragionare come un’azienda privata” e che – pur dovendo badare a una corretta gestione corrente − non può limitarsi a “vendere il servizio teatro” pensando solo a “massimizzare il profitto”, Fuortes sottolinea la fondamentalità di altri aspetti, che diventano i parametri su cui poter giudicare la direzione di uno Stabile:
− offerta di “sperimentazione teatrale”
− “messa in scena di nuovi testi contemporanei”
− “diffusione presso tutte le fasce sociali e di età di un teatro di qualità”
A questi aggiunge la definizione di “un progetto culturale chiaro” che sia competitivo con le altre forme di intrattenimento e di uso del tempo libero e che, per essere tale, è necessario sia “comunicativo” e “invasivo”. È così – secondo Fuortes – che si realizza quel necessario “allargamento del pubblico” che consente ad uno Stabile di definirsi Stabile, legittimandone la sua esistenza istituzionale e i fondi che ne garantiscono la sopravivenza (pagati, ricordiamolo, da tutti i cittadini: anche da quei "9/10 che non vanno a teatro").
Le domande che seguono sono perciò inevitabili:
− la duplice direzione di Luca De Fusco (Stabile e Festival) risponde a tali criteri?
− quanta “sperimentazione teatrale” offrono lo Stabile e il Napoli Teatro Festival, stagione dopo stagione?
− quanta “messa in scena di nuovi testi contemporanei” realizza e produce?
− quante (per tornare a L’attesa) “compagnie teatrali espressione delle nuove creatività” napoletana e italiana sono coinvolte?
− soprattutto: riescono lo Stabile ed il Napoli Teatro Festival a diffondere “presso tutte le fasce sociali e di età un teatro di qualità”?
È dalla risposta a queste domande che si valuta un direttore.

Infine.
L’articolo è scritto nel mentre si attende di conoscere ancora il destino del Fringe E 45, rassegna giovane del Napoli Teatro Festival Italia. A chi tocca organizzare il Fringe E 45 previsto nel 2015? Quali sono le ragioni che hanno portato al mancato rinnovo del contratto con Interno5 e quali le personalità – evidentemente anch’esse molto attente al lavoro di scouting del Nuovo Teatro – che si prenderanno cura di valutare e selezionare i futuri spettacoli? Con quale criterio sono state, sono o verranno nominate tali persone? Quali le loro competenze e quale la loro relazione effettiva con il teatro Under italiano e con i Festival nazionali che lo propongono?
Non vorremmo che il Fringe E 45 fosse una conferma settembrina della concezione privatistica che abbiamo appena descritto.
Restiamo in attesa.

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