“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 01 August 2014 00:00

Sporogenesi di una periferia

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Il Novecento è stato caratterizzato dalla perdita della dicotomia storica tra centro e periferia: il centro, gerarchicamente superiore, ha ceduto spazio ad un’attrazione verso la periferia, alimentata dall’azione delle telecomunicazioni e della globalizzazione. Le città si sono decongestionate, socialmente è venuta a mancare la distinzione tra le classi ricche del centro e quelle povere della periferia; si sono da tempo modificati i territori e le costruzioni attraverso gli effetti di quel fenomeno chiamato conurbazione: le periferie sono ormai quartieri, o centri alternativi, con strutture funzionalmente appartenenti alla città, che però sono dislocate, come le discariche, o le multisale cinematografiche.

Questo non fa che riprodurre, all’infinito, quella frammentazione tipica della modernità, e soprattutto del nostro Paese, così plurale nella sua tradizione anche dal punto di vista geografico.
Nella contemporaneità la provincia è stata rivalutata: quello di molti scrittori è ormai uno sguardo locale, che ha abbandonato la visione protesa verso i grandi sistemi trascendentali per abbracciare l’immanenza, la materialità e uno sguardo più ravvicinato. La vicinanza della scrittura all’oralità è uno degli elementi che concorrono a questa riduzione che è anche, e soprattutto, una riduzione epistemologica, legata alle ambizioni rispetto alla letteratura precedente: la letteratura è infatti un’operazione mentale – anche se ormai connaturata – che porta alla traduzione in immagini e in suoni secondo un procedimento astrattivo.
Ora l’attenzione al parlato comporta l’apparizione di un elemento di godibilità identificabile con l’immediatezza, e allo stesso tempo con l’immanenza e la contingenza.
Tutti questi motivi vanno a confluire ne La Città distratta, reportage narrativo di Antonio Pascale, che ci fa conoscere non solo un territorio, ma un modo di attraversarlo.
La città distratta è, infatti, Caserta, ed è tale per il suo sviluppo senza discernimento, per lo strano passo con cui avanzano, a braccetto, vecchio e nuovo, nuove ricchezze e nuove povertà; è una città distratta anche perché sfuggente, in cui il centro vero e proprio viene oltrepassato ancor prima di essere riconosciuto. La provincia ruota attorno ad una città a sua volta provinciale, in cui gli elementi architettonici e urbanistici si ammassano, si riproducono per sporogenesi, si coagulano, si configurano come agglomerati dalla struttura a grappolo.
Paradossalmente, l’elemento umano sembra sfuggente, sembra manifestarsi solo attraverso determinati elementi architettonici come balconi e portoni; è un’umanità che si muove solo in branco, agitandosi e espandendosi senza ordine, che – proprio come le costruzioni non regolate da un piano edilizio – si ammassa senza motivo in determinati luoghi di interesse. Nessuno dei protagonisti ha un nome, eppure sono perfettamente caratterizzati.
La natura, in questa situazione di continua riproduzione, sembra configurarsi come ostile all’uomo: essendo stata fin troppo contaminata dall’azione di quest’ultimo, si è trasformata fino a diventare infestante, convivendo con il cemento e questi esseri umani gonfi e pesanti, presentandosi nella sua forma meno nobile e accogliente, quasi parassitaria.
L’insistenza di Pascale nelle descrizioni, soprattutto quelle da botanico – o da agronomo, quale l’autore è per formazione – hanno come scopo la resa scientifica del dato. A questo proposito, le parti scritte in un carattere minore, sembrano richiamare l’analisi fatta da uno scienziato che, zoomando al microscopio, fa delle considerazioni su ciò che, in prima istanza, gli appare.
La narrazione di Pascale è infatti un racconto di costume, sintonizzato sulla tonalità quasi mistica del “sentito dire” che, attraverso le parti scritte in un carattere minore, trova delle spiegazioni, delle smentite o delle conferme.
È davvero una "questione di diottrie", per dirla con le parole di Domenico Scarpa: in questi brani “minuscoli” la realtà è guardata più da vicino, nei dettagli, e insieme più da lontano, per porvi meglio l’attenzione, cosa che conferma l’attitudine all’immanenza e alla riduzione di cui sopra. Cambia il punto di vista, e la scrittura diventa, a questo punto, una questione di compromessi, un equilibrio tra pesi opposti.
Pascale stesso, ha detto, offrendo un compendio delle sue motivazioni scrittorie: "In un mondo di incubi [..] bisogna portare la necessaria dose di analisi. Le analisi vanno fatte caso per caso e spesso non offrono situazioni definitive. Ma questo è un bene: davanti a un sistema complesso, composto cioè da molte variabili, non ci resta che impegnarci a fondo per accrescere di pari passo la nostra sete di conoscenza. L’intellettuale di servizio è dunque il cittadino (più o meno indignato) che ha voglia di trasformare un sentimento poco nobile come la rabbia in una metodologia conoscitiva […]. Insomma, lo scrittore che ho in mente non inventa nulla di nuovo, non tiene molto in considerazione le metafore poetiche, in quanto ce ne sono già troppe in giro, né ha voglia di sprecare la sua energia in racconti troppo sentimentali. Ma si limita a ragionare costantemente (e per amore di metodologia) su quanto prodotto dalla sua comunità di appartenenza" (da Introduzione, in Questo è il paese che non amo. Trent’anni nell’Italia senza stile, minimum fax 2010, pp.5-7).                                             

 

 

 

Antonio Pascale
La città distratta

Einaudi, Torino 2001
pp. 168

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