“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 30 July 2014 00:00

Elena senis: dentro le mura del tempo, bella senza inganno

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Ah, sì, quante battaglie, eroismi, ambizioni, superbie
senza senso,
sacrifici e sconfitte e sconfitte, e altre battaglie, per cose
che erano state già decise da altri in nostra assenza
… Eppure – chissà –
là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che
inizia
la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza
dell'uomo
tra ferri arrugginiti e ossi di tori e di cavalli,
tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po'
d'alloro
e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello
d'oro.


Un’umanità chiamata quasi a raccolta, quella cui si aprono questi versi di Ghiannis Ritsos, come per il valore di una storia che ha sempre ragione d’essere raccontata, letta, interpretata. Una storia fatta anche di leggende, di miti e di variazioni sugli stessi, che, oltre le mura del tempo, tra il grigio del fumo che sale nel tramonto, sappia ancora dire della bellezza dell’uomo. Una bellezza non vana se le tracce di essa tornano, dal passato, ad aprire un sentiero sul presente: sarà, ad ogni modo, una storia anche nostra.
Lontano dalla giovane bellezza di un tempo, e carico del peso dei lunghi e dolorosi anni trascorsi all’ombra della colpa, lentamente avanza in scena un corpo vestito di bianco: spesso il tessuto dell’abito, sottile il velo che ne scherma il volto. Bianca di una senilità pluricentenaria, la tindaride (figlia, appunto, di Tindaro e Leda) Elena conquista il centro di una scarna scena e, adagiatasi sull’altrettanto bianco seggio (quasi un altare, imbiancato da un lenzuolo), come aprendosi a se stessa, si svela alla vista, all’ascolto, di chi vorrà restare e non andare ancora via: qui vecchia, come la fama che ne ricorda il mito ma sempre, inequivocabilmente, bella.
Una voce fuori campo ne narra il tempo perduto, quello di una bellezza che ha diviso, scatenato guerre, seminato odio e sciagura; una sequenza di immagini in movimento la ritraggono fiera di un fascino giovane e passionale, domina di una nudità imperante e labirintica.
C’è stato un tempo in cui, come si legge nei versi del tragico Euripide, per il capriccio di Era (tanta era la collera per il pomo d’oro non conquistato), della bella Elena fu plasmato di cielo un simulacro per l’inevitabile conflitto tra l’acheo Menelao ed il troiano Alessandro. Fu tempo di sangue copioso, di violenti lutti, dove le madri i figli persero, vergini recisero sullo Scamandro chiome pei cadaveri presso l’onda frigia. Tempo di una colpa equivoca, comica (per il vincolo equivoco, appunto) e tragica al contempo, maledetta, proprio come si sente la tindaride: Io maledetta fui; via dalla patria mia mi trascinava un dio, dalla città, da te: la casa e il talamo che non lasciai, lasciai come un’adultera. La terra greca si sventrava per un ratto ingannevole, figlio di un capriccio divino; intanto, la bella e impotente Elena, nascosta in terra d’Egitto, alla corte di Proteo, quindi del figlio Teoclimeno che voleva farla sua sposa, custodiva integro il talamo di Menelao in attesa del suo salvifico ritorno.
Una colpa, invece, non presente nei versi (forse) omerici e precedenti quelli euripidei di circa tre secoli: tempo di guerra in cui Elena, simulacro divino o umana che fosse, non è consegnata alla storia come responsabile del conflitto. Un conflitto di carattere, essenzialmente, fondativo, al di là del mito, se è vero che si colloca (determinandola) all’origine dell’identità occidentale. Elena, nelle parole di Priamo del testo iliadico, è sciolta dalla responsabilità della colpa, verso me tu non sei in colpa, ah, gli dei sono in colpa, che mi destarono contro la guerra dolente d’Achei (Iliade, III, vv. 164-65) sebbene si apostrofi come cagna (op. cit. v. 180). L’Elena iliadica è, soprattutto, nella forza di un punto di vista: non partecipando allo scontro, vede ogni cosa dall’alto delle mura, dunque 'theicoscopicamente'.
Nel versi di Ritsos, qui nella pièce diretta da Tavassi, la vecchia Elena, seduta sul seggio imbiancato che più trono non è, contempla la nera pietra incastonata sull’anello che ancora indossa, come per aggrapparsi al nero del ricordo del passato. Un passato che ha continuato a parlarle e per il quale, fino ad ora, s’è fatta cieca e sorda per non dover pensare. È questo il tempo per ospitarlo, per liberarsi dall’assedio dei fantasmi che, “anche senza la compassione di nessuno”, tornano e spadroneggiano in questa casa in cui Elena, ormai domata, si lascia vivere in completa solitudine.
È sola anche dalle ancelle che, dispettose, non esitano a disprezzarla e a prendersi gioco di lei ma la vecchia donna si finge distratta come per non crucciarsi delle cattiverie che queste le riservano: un giorno, poi, invero, tutti troveranno la morte.
Argo, Atene, Sparta, Sicione: città di un tempo che hanno saputo parlare della bella e colpevole Elena ma ora, di quelle voci, questa non ne sente che una lontana eco. Straniera nel corpo e nell’identità, pirandellianamente (già), si vede vivere ma come estranea al passato, alla sua stessa vita. Da spartire non c’è altro che il silenzio.
Qualcuno è venuto a farle visita ma è come se avesse fretta di andare. Non ve n’è traccia, se non nel ripetuto invito della sventurata a restare, a non andarsene proprio ora. Ora che nulla più le importa della sua immemorabile bellezza (confessa che i capelli non sono più tinti, ispidi e lunghi peli le circondano la bocca), che vano è ogni inganno, che precaria è ogni vittoria.
Intimo pathos nel monologo sugli uomini (anche quelli che ha amato): certo avidi, intenti a spogliarsi in fretta, con il corpo che sa di fumo e che li intorpidisce ma, alcuni, teneramente belli nella loro nudità, loro bambini abbandonati e lei puerpera di quelle carni.
Al tempo della guerra che divise Achei e Troiani, Elena, dalle mura, gettava i fiori della sua bellezza che gli uomini incauti raccoglievano uccidendosi gli uni contro gli altri. Allora la morte era oltremodo lontana. I ricordi, flessi dal pensiero cosciente, si sfilano dalla trama della vita e fondono il passato con il presente: contemporaneo il fumo degli uomini che avvolge i corpi nudi ed in fretta liberi dai vestiti gettati sul pavimento, come il preferire ai pensieri la vista di una bicicletta in cammino o di una pasticceria, come i giornali che non legge più.
“Rimani ancora”: topicamente, Elena chiede un’ultima volta. Sola da un tempo senza più tempo, ora ha paura di restare sola in questa solitudine che vorrebbe chiamare a sé l’ombra del buio, della morte. Ogni tanto inizia a sfiorarsi il viso, le rughe, le verruche: ne prova nausea e, insieme, la paura di non sentire più neanche questa.
Elena ha paura di morire, e di dover assistere a questa morte che stavolta è tutta sua.
Ancora ricordi, da Menelao giovane con la voglia di viaggiare e vecchio con le pantofole sfondate, a Ulisse che si abbandona alle attenzioni di Circe e di Nausicaa mentre la “sgraziata” Penelope lo attende.
Ricordi ingannevoli, se l’accompagnano al sonno. Ricordi rischiaratori, se Elena, toccata dal passato rifiutato tanto a lungo, ne sente la stretta di pelle. Ora si tocca, si sente, si vede. E la bellezza non è più legata all’idea di un’immagine, di un simbolo. La bellezza non è più inganno.
Elena è dentro le mura del tempo, bella di una giustizia umanamente conquistata. Non più straniera ma cittadina del suo esistere.
“Ora puoi andare, s’è fatta notte. Ho sonno”.
Vita e morte un’unica terra madre.
Impera la fisicità e l’aplomb della D’Abbraccio per l’eroina di cui indossa le vesti, talvolta, con eccessiva attenzione alla mimica gestuale, pena un fragile colore di voce. Punte plastiche che il sound qua e là gracchiante ha, evidentemente, ispessito come la consapevolezza di un pubblico ridotto. Va detto che una campagna pubblicitaria più capillare avrebbe, certamente, garantito la giusta eco ad un evento, quindi ad una rassegna, quella dei Teatri di Pietra in scena anche all’Anfiteatro Campano, che apre le porte al turismo culturale a partire dal teatro classico.
Confidiamo nella buona comunicazione che, proprio in nome della cultura, non può dissolversi nel vento della distrazione.

 

 

 

 

 

Teatri di Pietra
Elena – Variazioni sul mito
dalla raccolta Quarta dimensione
di
Ghiannis Ritsos
regia Francesco Tavassi 
con Mariangela D’Abbraccio
Santa Maria Capua Vetere (CE), Anfiteatro Campano, 25 luglio 2014
in scena 25 luglio 2014 (data unica)

 

 

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