“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 20 June 2014 00:00

Borrelli funesto demiurgo

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Tanto tuonò che piovve. Mentre il Napoli Teatro Festival annaspa, annega nella mediocrità media delle proprie proposte, un evento altro ha luogo nel ventre di Napoli; e vi ha luogo proprio nel giorno in cui, mentore un Giove Pluvio e Tonante come non mai, il Festival si ferma, messo in ginocchio dalla furia degli elementi, che devasta Pietrarsa, che paralizza una città, che ne allaga le viscere.

Ma non ferma – anzi rende evento unico in grado di rubare la scena al (poco) tonitruante Festival – Opera pezzentella, di Mimmo Borrelli, il “funesto demiurgo” – per dirla con Cioran – a cui si potrebbe ascrivere il sovrumano potere di deviare il corso degli eventi; o comunque, seppur non si voglia credere all’intervento del sovrannaturale cui si è proclivi solo per amor di mistica iperbole, bisogna comunque ammettere che i fati, talvolta, si divertono ad esser gustosamente beffardi.
E così, nel giorno in cui la kermesse festivaliera paga dazio all’interruzione coatta, sembrerebbe quasi che una volontà superiore voglia suggerir tappa purgatoriale per far monda dai peccati l’anima corrotta di questa città. Si faccia ammenda e si transiti per il Purgatorio!
Molto più sommessamente, molto più realisticamente e fuor d’ogni metaforica allusione, quello che avviene al Complesso Museale del Purgatorio ad Arco è qualcosa che trasforma il teatro in visione, dove per visione sia da intendersi qualcosa di potentemente visionario, frutto, questo sì, dell’opera di quel demiurgo, forse funesto, forse no, ma certo genio visionario che è Mimmo Borrelli. Opera pezzentella è visione che si offre in visione, viaggio ad Inferi da cui è concesso ritorno, pantomima di un epos tragico e mistico, caleidoscopio ancestrale di miti atavicamente conservati nell’immaginario; immaginaria via crucis che si percorre sulle tracce di anime sospese, inquiete, che urlano, strepitano, sputano, prede di un’angoscia che non appartiene ai vivi, ma che dei vivi conserva tutta la carnalità. Tre scene si attraversano, dalla sacrestia in cui i guardiani del Purgatorio invocano salvazione (“soscia, soscia, refresca a ‘st’angoscia”), alla navata centrale della chiesa, palco longitudinale e calvario tridimensionale delle anime penitenti, preda dei sette peccati capitali, fino alla cripta in cui avverrà il passaggio finale, sotto l’egida della morte personificata.
Potente costruzione scenica, vibrare di corpi in ogni membra, essenze in cui si insuffla vita di scena, scena che ci concreta in uno spazio longitudinale, fra due ali d’astanti cui è concesso partecipar della visione, il viaggio fra i peccati capitali si materializza in figure dolenti, che appaiono dapprima coperte dall’involto comune di un velo trasparente; dipoi, levatesi, urlano ciascuna la propria vicenda, esemplare del peccato che le abbarbica alla dimensione purgatoriale, si dimenano in una danza convulsa in cui c’è tutta la loro essenza di anime non chetate.
Simbolicità estrema, di ogni anima v’è il tratteggio urlato d’una vicenda, patrimonio della credenza popolare cui si dà legittimazione scenica, vita che vive il tempo di una rappresentazione, sospensione della dimensione spirituale in favore di una vivificazione temporanea, che rapisce pro tempore il mito dal mito per consegnarlo alla viva visione. In questo sta il genio di Borrelli, nel compimento di un’opera che sa di dantesco, che s’avvolge e avvolge in un linguaggio dialettale senza tempo, che compie la magia di poter essere trasversale ai secoli, come la devozione alle anime ‘pezzentelle’ del Purgatorio, cui l’immaginario napoletano da secoli si raccomanda e s’affida.
Le anime in scena, il loro demiurgo dall’alto, al suo apparire, maschera caprina e ferale, una sorta di Arpocrate che guida e accompagna le anime purganti nel loro percorso tambureggiante – e scandito dal battere di una tammorra – è lo stesso Borrelli, che è ad un tempo regista e demiurgo, orchestratore della sarabanda d’anime che percorre in lungo tutta la navata.
La morte, il funesto demiurgo, è sempre Lui, Mimmo Borrelli, nocchiero delle anime purganti, icona viva e morta ad un tempo di una Napoli che fu e che è ancora e cui simbolicamente s’allude per il suo essere Purgatorio a cielo aperto.
Uno scavo nell’ancestrale, quello di Borrelli, che sviscera i connotati di una tradizione, che è visceri ed essenza dell’anima di Napoli; uno scavo che ricerca, analizza, studia e rielabora, alla sua maniera, attraverso il filtro della sua lingua e del suo personalissimo rapporto con la tradizione, che giunge a Napoli partendo flegreo, nella lingua come nell’arte del cunto e, tipico dell’atavico portato del cuntare dei suoi luoghi è ad esempio quel suo ‘nzomma che prelude e roboa come incipit di narrazione. Parte flegreo eppur giunge ecumenico passando per napoletano.
Demiurgo, funesto demiurgo, questo Borrelli che in scena dirige la scena, nocchiero di anime come un novello Caronte, ferino e luciferino, demiurgo di una commistione, fra un luogo ed i suoi miti, fra Napoli e gli Inferi, fra sottosuolo e vita terrena, fra luoghi della tradizione e tòpoi contemporanei (basti pensare alla compresenza di brani della tradizione canora napoletana, come Guapparia e Te voglio bene assaje), e che, ancora demiurgo, fra la vita e la morte, sveste la maschera caprina e diabolica per indossare i panni bianchi d’una morte travestita da guappo.
Altro aspetto che va sottolineato, in Opera pezzentella, è la presenza di Dio, ovvero la sua assenza, la mancanza di qualunque superfetazione spirituale che ammicchi o indulga al trascendente, a quel Dio “che atterra e suscita, che affanna e che consola”, e che qui sembra semplicemente non essere stato invitato, ritenuto superfluo, non necessario, soppiantato dalla forza laica e necessitante di un’istanza carnale, prim’ancora che spirituale, che è poi la stessa che sembra muovere dalla scrittura di Borrelli; è un Dante laico questo demiurgo, che s’arresta al Purgatorio, perché del Paradiso non gl’importa, preso com’è nell’affrontare da presso l’antinomia vita/morte.
Borrelli dirige un gruppo di attori nei quali sembra aver infuso la sua stessa magmatica energia – ancora una volta il demiurgo – incastonando nella mistica cornice del Purgatorio ad Arco una galleria di anime vibranti, che pulsano e sussultano in ogni fremito delle loro membra, che guaiscono, inveiscono e spasimano con le loro voci che rimbombano all’intorno e che risuonano delle parole insufflate dal demiurgo, in cui si espettora una poetica che è ormai marchio di fabbrica ed in cui risuona un che di dantesco traslato in una lingua altra (lingua che – ed è questo l’unico neo di questa Opera pezzentella – lascia per strada, sacrificata all’eco ed alla microfonazione, parte della fruizione auricolare del suo eloquio, ed è un peccato), una lingua che parla l’idioma di un tempo passato eppure calato nel presente… magia dell’evocazione.
Ma le sensazioni che instilla la visione di Opera pezzentella travalicano, come sovente accade con Borrelli, la necessità di una comprensione letterale, perché agiscono in altro modo, percorrono i canali di una comunicazione ultraverbale: si ha la sensazione, assistendo ad Opera pezzentella, di essere al cospetto di qualcosa di speciale, che vada oltre il tempo della visione, come quando si è testimoni di un evento destinato a storicizzarsi e di cui poter dire “io c’ero”; si ha la sensazione, assistendo ad Opera pezzentella che il percorso poetico di Borrelli stia attraversando la sua piena fioritura e che il privilegio della visione sia testimonianza da tramandare; si ha la sensazione, assistendo ad Opera pezzentella, che il demiurgo abbia reso manifesto il suo genio potente e visionario. Ancora una volta. Tuonando.

 

 

 

 


Opera pezzentella

percorso di ricerca antropologica, testi, drammaturgia e creazione di Mimmo Borrelli
con Paolo Fabozzo, Federica Altamura, Enzo Gaito, Andrea Caiazzo, Renato De Simone, Isabella Lubrano, Sara Scotto di Luzio, Sara Guardascione, Veronica D’Elia, Mimmo Borrelli, Riccardo Ciccarelli, Lucienne Perreca
musiche Antonio Della Ragione
luci Cesare Accetta
scenografia Luigi Ferrigno
costumi 0770
assistente costumi Gaia Sarnataro
oggetti di scena Alovisi Attrezzature
maschere Gennaro Staiano
sound design Gianluca Catuogno
direzione tecnica Franco Acciarino, Giovanni Caccia
tecnico audio Joe De Marco
produzione Opera Pia Purgatorio ad Arco Onlus, Associazione Culturale “Sciaveca”, Progetto “Purgatorio ad Arco: un Arco sul territorio”
Napoli, Complesso di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, 16 giugno 2014
in scena 16 e 17 giugno 2014

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