“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 16 June 2014 00:00

Una commedia poco kafkiana: “Das ist komisch”

Written by 

Dahlberg sosteneva che, agli scrittori che diventano ‘icone’, capita quasi sempre di trasformarsi in astrazioni e, in quanto tali, di essere privati della capacità di una comunicazione reale con i lettori. Nemmeno Dostoevskij sembra si sia potuto sottrarre dalla maledizione che Wallace ha definito “il bacio della morte per uno scrittore”. Nel momento in cui si introduce uno scrittore ad un potenziale lettore definendolo un ‘grande classico’, ecco che si abbassa un’ammirata e rispettosissima serranda tra i due che rimanda il momento del vero incontro. Forse l’unico ad essere immune al sortilegio è proprio Kafka, che è, sì, un grande e pure un classico, ma quando si pensa a lui non si avverte mai quella confusa sensazione di timore reverenziale e pesantezza alla bocca dello stomaco.

Kafka lo si sente vicino, ha la voce intima di un vecchio amico. Qual è il suo antidoto? Potrebbe essere un micidiale mix di fattori determinanti: la sua modernità, che persiste qualunque sia l’epoca in cui viene letto, una scrittura ‘semplice’ e, sicuramente,  la sua strana ironia. In Kafka non ci sono argutissime ed acrobatiche freddure esibizioniste, né ciniche spiritosaggini, ma si tratta più che altro di un’alchimia capace di rendere la sua comicità, sempre, anche tragica, e viceversa; la sua ironia solo in parte può essere spiegata come “una sorta di letteralizzazione radicale di verità solitamente trattate come metaforiche” (parole di Wallace), perché non si esaurisce in questa definizione.
La modernità di Kafka sta nella capacità insita in personaggi e storie di essere decontestualizzabili dalle contingenze storiche in cui sono nati; sta nella capacità di attingere all’universale. In un’intervista, Borges dice di Kafka che “per tutti gli scrittori; bisogna pensare: hanno scritto nella tale epoca, nelle tali condizioni; bisogna collocarli nella storia della letteratura. Così si possono perdonare o tollerare certe cose. Ma il caso di Kafka è diverso; credo che Kafka possa esser letto astraendo dalle sue circostanze storiche”.
America è un’opera minore rispetto ai più famosi e fortunati lavori precedenti, ma è stato considerato, non a torto, il più kafkiano di tutti. È il romanzo della colpa e della cacciata dal paradiso terrestre, Piero Citati lo definisce “un romanzo teologico con un triplo peccato originale”. L’emblematico titolo che Kafka aveva scelto era Il disperso, poi cambiato dall’amico Max Brod che lo pubblicò.
È la storia di Karl Rossman, giovane praghese in fuga dall’Europa, perché cacciato dalla sua città, Praga, e dalla sua casa, dai suoi stessi genitori, per via d’uno scandalo di natura sessuale di cui è stato protagonista senza colpa, quindi vittima. Sulla nave che lo porta a New York fa la conoscenza di un fochista le cui vicende personali lo rendono un personaggio fortemente kafkiano, tanto da far addirittura pensare che il protagonista del romanzo potrebbe essere proprio lui; ma in realtà le ingiustizie subite dal fochista hanno più che altro una funzione profetica/introduttiva: sono un’anticipazione di quello che accadrà a Karl durante l’intero romanzo. Il ragazzo, infatti, verrà cacciato e ripudiato dallo zio Jakob, newyorkese d’adozione, per oscuri motivi che lo zio riconduce sotto i labili concetti di ‘onore’ e ‘valori morali’, e nuovamente cacciato/licenziato, sempre senza colpa alcuna, dal lavoro assunto presso l’Hotel Occidental, proprio come era accaduto nel primo capitolo al fochista della nave. Una condanna divina e irrevocabile costringe Karl ad un rassegnato vagare dovuto a colpe che non ha commesso.
La colpa e l’impossibilità di riscatto sono gli elementi che marchiano a fuoco quest’opera. E questo stato d’animo caratterizza il protagonista, teso in una costante e insistita immobilità fisica che lo ingessa in posture rigide e innaturali di fronte a figure soverchianti che non sono mai “semplici pagliacci vuoti da ridicolizzare, ma sono sempre al contempo assurde e spaventose e tristi” (ancora Wallace).
Nella rappresentazione teatrale di quest’opera, presentata in questa settima edizione del Napoli Teatro Festival Italia, la scelta del regista Maurizio Scaparro deve essere stata quella di utilizzare sostanzialmente la trama e di disfarsi del resto, dirigendo piuttosto i riflettori in direzioni diverse rispetto a quelli che sono i temi caratterizzanti del romanzo. Il regista, dell’onnipresente dualità tragicomica kafkiana, ha scelto di sacrificare il primo elemento, quello tragico, dato che, fatta eccezione del toccante racconto autobiografico della cuoca sulla morte/suicidio della madre, mancano i momenti in cui, rielaborando le parole dello stesso Kafka, una scure si abbatte e va a scalfire gli oceani di ghiaccio dentro di noi. Tuttavia questo sacrificio ha avuto ripercussioni inevitabili anche sull’altro elemento, quello comico. Come già detto all’inizio, i due aspetti sono inscindibili, e anzi è da una tragicità compressa ed esasperata che poi può scattare la molla di una comicità paradossale. Facendo fuori la prima si imbolsisce la seconda, è inevitabile. Ed è quello che purtroppo si è verificato; nonostante la bravura di un Aldo Maria Morosi che impersonava i diversi antagonisti del giovane Karl, l’efficacia del suo ironico cinismo deputato a suscitare ilarità viene fatto ‘sfiatare’ dall’assenza di un contrappunto tragico sul quale infierire. L’equivalente teatrale della differenza tra il tiro a piattello e la caccia alla volpe; è innegabile che emotivamente non sono la stessa cosa, la presenza di una vittima sacrificale cambia tutto.
Dalle parole di Fausto Malcovati stampate sul programma, apprendo che l’intento era quello di dare spazio all’aspetto onirico/surrealista di Kafka in cui l’America è vista come “grande sogno kafkiano”, e di sottolineare l’emarginazione presente nella condizione dell’emigrante.
In effetti, soprattutto quest’ultimo aspetto è ben reso dalla scelta di far dire ad ogni personaggio delle cose nella propria lingua. È sicuramente un ulteriore sforzo in questa direzione quello di tradurre in musica le diversità etniche presenti sul palco, anche se in alcuni casi rischia di degradare nel cliché (l’italiano che canta Santa Lucia in napoletano, ad esempio).
Tuttavia, la bontà di questo intento viene anch’essa penalizzata dall’assenza degli elementi sopra descritti. D’altra parte lo vediamo anche nei film: la triste e faticosa condizione di un emigrante non può lasciare indifferenti; qualsiasi sia la strada che si sceglie, la meta non può che essere quella di arrivare a toccare i precordi del pubblico. E purtroppo tocca dire che all’uscita dalla sala i nostri precordi erano praticamente illesi.
Nonostante le ottime intenzioni ed alcune trovate efficaci – l’orchestra sul palco accompagna gli attori in tutta la rappresentazione e non solo nei loro momenti canori – quella a cui ho assistito è stata una gradevole commedia che però di ‘kafkiano’ aveva veramente poco.
In un saggio su Kafka, lo scrittore David Forster Wallace invitava gli studenti ad immaginare le storie di questo autore come una specie di porta; immaginare di avvicinarsi a questa porta e di battervi forte, sempre più forte per entrare, perché abbiamo disperatamente bisogno di entrare, un desiderio assoluto che fa battere, spingere e scalciare, finché finalmente la porta si apre, e si apre verso l’esterno: “eravamo già dentro dove volevamo essere sin dal principio”. Ecco, la sensazione che si ha dopo questa rappresentazione, invece, è una sorta di frustrazione per essere rimasti fuori da un luogo in cui avevamo disperato bisogno di entrare. E questo è accaduto perché la porta non si è mai aperta e perché noi eravamo fuori per davvero. Questo sì che è kafkiano. Das ist komisch.


 

 

 

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Amerika
di
Franz Kafka
traduzione e adattamento Fausto Malcovati e Maurizio Scaparro
regia Maurizio Scaparro
con Ugo Maria Morosi, Giovanni Anzaldo, Carla Ferraro, Giovanni Serratore, Fulvio Barigelli, Matteo Mauriello
musiche Alessandro Panattieri (piano), Andy Bartolucci (batteria), Simone Salza (clarinetto)
scene Emanuele Luzzati
riprese da Francesco Bottai
costumi Lorenzo Cutuli
produzione Compagnia Gli Ipocriti
in collaborazione con Fondazione Teatro della Pergola di Firenze
lingua italiano
durata 1h 20'
Napoli, Museo Nazionale Ferroviario di Napoli Pietrarsa – SALA DEI 500, 13 giugno 2014
in scena 13 e 14 giugno 2014

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook