“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 17 June 2014 00:00

A Mosca! A Mosca!

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(tre scene).
Primo atto. Irina – “uccellino mio bianco” – festeggia l’onomastico, sorridendo e saltellando come una bimba che ha appena ricevuto in dono i giocattoli. È mezzogiorno, fuori c’è il sole, in casa suona allegra la musica, le conversazioni producono risate mentre nel salone, il rumore dei piatti e dei bicchieri, dice che si sta apparecchiando la tavola per la colazione.

“Ditemi perché oggi sono così felice?” chiede più volte, sorpresa ella stessa che la gioia sia possibile. Poi aggiunge: “Oggi, quando mi sono svegliata, alzata e lavata, all’improvviso mi è parso tutto chiaro e di sapere come vivere: io so tutto. L’uomo deve faticare, lavorare fino a far sudare la fronte, chiunque egli sia, e solo in questo stanno il senso e la ragione della sua vita, la sua felicità, le sue gioie”. Tuzenbach, nel frattempo, l’ammira sospirando.
Terzo atto. Irina è vestita di grigio, ha i capelli leggermente spettinati, il volto stanco, nel camminare sembra quasi che le facciano male i piedi. È notte, da fuori vengono gli ultimi barlumi dell’incendio che ha distrutto parte della città: i riflessi battono sui vetri, generando un alone colorato che ravviva il salone, altrimenti livido, semibuio, opaco. Uomini e donne sentono addosso la fiacchezza, il dottore è ubriaco mentre Andrej – il fratello geniale che geniale non si è dimostrato – trascorre il tempo chiuso nella sua stanza, a suonare il violino. Tuzenbach si avvicina a Irina, le sussurra qualcosa su una fabbrica di mattoni, sul suo desiderio di lavorare, fa un complimento al pallore della donna, capace di “rischiarare le tenebre” ma riceve soltanto un saluto frettoloso. E allora: “Addio, me ne vado… Vi guardo e mi torna in mente che tanto tempo fa, nel giorno del vostro onomastico, voi allegra e piena di baldanza parlavate delle gioie del lavoro… E come vi sorrideva la vita allora! Dov’è finita?”.
Quarto atto. Irina indossa un abito nero. La vediamo accasciata, distesa in terra, col busto e le braccia prostrate su una valigia di cuoio consumato. Dentro vi sono i vestiti (tutti chiarissimi: bianchi, rosa, turchesi, celesti) che avrebbe dovuto portare con sé. Piange. Prende a pugni la valigia. È confusa, tenta di aprirla ma si fa male a un dito o a un'unghia del dito, quindi rinuncia. Piange di nuovo, poi, lentamente, si placa. Tuzenbach è appena stato ucciso in duello. Nessuna partenza, quindi. Nessun lavoro, quindi. Nessuna libertà, quindi. Nessuna felicità, quindi.

(la coppia e la speranza).
Basta porre attenzione a questi tre frammenti – protagonista Irina – per rendersi conto della capacità di Konchalovsky nel leggere il dramma di Čechov: Tre sorelle è una messinscena crudele giacché ci permette di osservare, attimo per attimo, come perisce la speranza, come muore 

un’illusione, come appassisce un desiderio. È vero, come scrive Peter Szondi, che quest'opera − “forse il più compiuto tra i drammi di Čechov” – “presenta individui soli, ebbri di ricordi, che sognano il futuro”, tra un avvenire impossibile e un impossibile ritorno alla patria, ma è altrettanto vero che occorre, in realtà, parlare al singolare perché – delle tre sorelle (Ol’ga, Maša, Irina) che sognano “Mosca” ripetendo “Mosca” in ogni occasione in cui sia possibile dire “Mosca” – soltanto Irina ancora crede, davvero, di poter tornare nella città in cui è nata, tanto che è suo il monologo della consapevolezza: “Dove? Dove sono finite le nostre speranze? Ho dimenticato tutto, tutto… che confusione che ho in testa… Dimentico tutto, di giorno in giorno, e la vita se ne va per non tornare più, mai, mai partiremo per Mosca… Vedo bene che non partiremo…”. Per questo Čechov prevede una sola altra figura in grado di lasciarsi cullare fino in fondo dai sogni e, questa figura, è proprio Tuzenbach che, infatti, s’innamora di Irina. Il resto dei personaggi sono invece già preda (consapevolmente o meno) della disillusione: Ol’ga, Maša, il dottore e l’ufficiale, il tenente, il sottotenente ma anche Andrej, Kulygin e addirittura la vecchia balia sanno che nulla di bello li attende, che nulla di nuovo riserva il futuro. Si prenda la balia: “Divento sempre più debole e, un bel giorno, mi diranno: via!” e, infatti, non passano che pochi minuti e Nataša si esprime così: “Che domani quella vecchia gallina non sia più qui, vecchia borbottona…”. Dunque abbiamo una coppia legata non dall’amore – giacché in Čechov si ama senza mai essere ricambiati – ma dal miraggio e dall’ossessione del miraggio, al punto da fonderlo in un progetto comune. Irina vuol tornare a Mosca mentre Tuzenbach, lasciato l’esercito, vuole “lavorare”? E allora: “Oh, venite con me, andiamo insieme a lavorare!” sussurra Tuzenbach, mentre Irina acconsente alle nozze “ma andiamo a Mosca! Per favore, andiamo! Al mondo meglio di Mosca non c’è niente! Andiamo!”. Konchalovsky riesce a rendere tutto questo. Ad esempio, veste Irina scurendo progressivamente i suoi abiti (bianco, grigio, nero) e le impone comportamenti sempre più fievoli, lenti, spossati: nel primo atto corre, danza, fa battute, abbraccia le sorelle, fa le smorfie, sorride, ammicca, volta su sé stessa, ad un punto sale saddirittura su una sedia e comincia a camminare sulle altre sedie, presa per intero dalla certezza della partenza; nel quarto atto la troviamo invece affranta, lenta, quasi immobile: passeggia come un automa, schiena diritta e movimenti ridotti al minimo, si fissa in un angolo, rimane in silenzio, sospira, ha un unico scatto nel trascinare la valigia che ha preparato per l’abbandono ma è consapevole (l’abito a lutto lo dice) che ciò che dovrebbe avvenire non avverrà mai.
È talmente capace, Konchalovsky, da arricchire la lettura di questo rapporto di coppia ulteriormente: si vede Irina e Tuzenbach scherzare reciprocamente, tra la tavola (centrale) e l’armadio (sulla destra); li si scorge assieme nel girotondo festivo; si nota che si cercano di continuo; si capisce (notevole invenzione del regista) che Tuzenbach pronuncia il suo motto “Lavorerò!” (e tutti ridono) esattamente nella stessa maniera in cui Irina dice “A Mosca!” (e tutti sorridono); ci si emoziona quando – nel quarto atto, poco prima del duello – assistiamo al modo in cui si dicono addio:
“Vengo con te”
“No, no! Irina…”
“Sì?”
“Non ho preso il caffè oggi. Di’ che me lo preparino”.
È l'ultima consapevole menzogna che si dicono. Toccherà alla giovane bere il caffè preparato per l’uomo: seduta, le gambe strette, il mento calato, lo sguardo privo di luce, nella mano destra la tazzina, lentamente portata alle labbra: “Lo sapevo, lo sapevo…”.

(lo spazio e i segni).
Tre sorelle ha nella dimensione spaziale il suo elemento fondante. Dobbiamo immaginare un’immensa distesa di terra in cui non s’ode che il silenzio, non si percepisce che la noia. Al centro di questo vasto lembo assai squallido c’è una casa: lontano stanno altre case, nei pressi soltanto un presidio militare. Al centro della casa c’è un salotto e – in questo salotto – qualche soldato e le sorelle.
Tre donne, quindi, lontane da ogni vivere civile, da ogni divertimento, da ogni brivido e da ogni emozione. Tre donne al centro di un salone 

che si trova al centro di una casa che si trova al centro di una mortifera provincia periferica. Tre donne senza più genitori, con amici passeggeri, che devono accontentarsi di conoscere e frequentare uomini meschini, mediocri, privi di poesia quando non del tutto idioti, inetti, senza carattere: di cui è impensabile, in condizioni normali, innamorarsi. Tre donne lontane dal mondo, fuori dal mondo, private del mondo. Tre donne segregate, serrate, compresse. Tre donne rinchiuse.
Lo spazio di scena di Tre sorelle è – quindi – solo apparentemente una dimora ben arredata mentre è una prigione: i vetri sono sbarre, le porte sono mura e, l’ampio spazio all’esterno, è come se fosse circondato da un (insuperabile) filo spinato. A chi scrive – teatralmente parlando – ricorda in qualche maniera il grande deserto di Beckett e di Aspettando Godot: occorrerebbe andare, sono sicuro che andremo, in teoria potremmo andare, tra un attimo andiamo ma andare è impossibile.
Ampiezza che stringe, grandiosità in cui si soffoca, luogo nel quale ci si può muovere ma in cui si è destinati a rimanere per sempre, dunque. Perché ciò sia chiaro Konchalovsky costruisce – prima vera immagine dello spettacolo – una quarta parete teatrale, ponendola tra il pubblico e gli interpreti: coloro che vedrete entrare e uscire, mangiare, scherzare, dormire, lavarsi e ballare, rincorrersi e amarsi, detestarsi, soffrire – sembra dirci – compiono tutte queste azioni all’interno di uno spazio calcolato, soffocante, ristretto. Sono all’interno di un recinto, si muovono all’interno di un perimetro. Perciò questa stessa quarta parete (composta da pannelli-finestre movibili) viene poi scomposta e portata in parte sui lati e, in parte, sul fondo: perché sia evidente quanto misura la stanza, quanto misura la cella.
E poiché la compressione dello spazio (e del tempo) moltiplica il potere allusivo di ogni segno, Konchalovsky (al fine anche di non appensantire lo spettacolo con la resa assoluta dell'immobilità) si diverte a moltiplicare gesti o inventare nuove situazioni vivacizzanti: così Irina gioca a carte, i soldati si riuniscono attorno a un vassoio, un ampio girotondo circonda la tavola; si scatta una foto, si gioca con le trottole, si corre all’esterno per seguire Andrej che fa volare un modellino d’aereo. Non bastasse: Ol’ga è costretta a sbracciarsi per farsi ascoltare, Maša è piegata dalla tosse, Irina e Tuzenbach fanno un veloce gioco con le mani; Veršinin suona il piano, Čebutykin legge il giornale, Nataša si specchia di continuo, Rode e Fedotik improvvisano una danza mentre Anfisa – la vecchia, cara e spigolosa Anfisa – non fa che rimanere seduta, scrollando la testa, attendendo la calma.

(gli effetti e la finzione).
Fragili fiocchi di neve dall’alto. Nei vetri i riflessi del fuoco. Nell’angolo a sinistra, nascosto, c’è un camino acceso. S’odono i pompieri. Un brusio collettivo proviene da destra. Trilla il campanello. Una fisarmonica suona chissà dove. Tira il vento, in questo largo viale di betulle. Un colpo di pistola uccide il silenzio. S’odono marciare i soldati. Pause sonore o flebili effetti visivi decorano così la messinscena, completandola.
Mentre, questa volta, le proiezioni su grande schermo (destinate a un pannello che giunge a mezza altezza negli intervalli tra primo e secondo e tra terzo e quarto atto) non servono tanto a fare d’ambiente ma per mostrare interviste fatte, dal regista, agli attori: su Čechov, su Tre sorelle, sul proprio personaggio.
C’è chi disprezza la figura che interpreta, c'è chi l'adora, c'è chi ne è pienamente soggiogato; c'è chi è felice di aver scoperto Čechov, chi dichiara di recitarlo per la prima volta, chi è alla sua ventesimo spettacolo čechoviano; c’è chi  paragona Čechov a Shakespeare, chi a Beckett, chi al teatro dell’assurdo; un attore sbuffa e non risponde, un’attrice dichiara che – nel recitare una battuta – sente un grumo in pieno petto, inesprimibile con parole comuni. C’è chi sorride, chi risponde serissimo, chi saluta la mamma.
Le interviste hanno uno scopo preciso: servono a ricordare che siamo a teatro, che ciò cui assistiamo è una menzogna, che chi recita sta recitando.  
Poi i filmati terminano e lo sguardo torna sul palco. Larisa interpreta Ol’ga, Yulia è Maša, Galina fa vivere Irina. La platea ammutolisce. Qualcuno – tra gli spettatori – sembra vagamente commosso. Nataša, in vestaglia, si affretta verso un piccolo mobile posizionato sulla destra mentre Andrej, a sinistra, riposa. Ol’ga, Maša e Irina sono tra le quinte: presto saranno in ribalta.
Siamo di nuovo in Russia, questa casa è una galera, i soldati prima o poi partiranno.

 

 

 

NB. Le immagini a corredo dell'articolo sono di Elena Lapina. Fonte:
http://www.konchalovsky.ru/works/spectacles/tri-sestry/

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Tre sorelle
di Anton Čechov
regia Andrei Konchalovsky
con Alexsey Grishin, Natalia Vdovina, Larisa Kuznetsova, Yulia Vysotskaya, Galina Bob, Alexander Brobovsky, Alexander Domogarov, Pavel Derevyanko, Vitaly Kishchenko, Vladas Bagdonas, Vladislav Bokonin, Evgeny Ratkov, Vladimir Goryushin, Irina Kartasheva, Ramune Khodorkaite, Elena Lobanova, Aleksander Pavlov 
scenografia Andrei Konchalovski
costumi Rustam Khamdamov
musiche Aleksander Skrjabin, Sergey Rachmaninov, Franz Schubert, Edward Artemiev
luci Andrei Izotov
progetto scenografico Lubov Skorina
assistente ai movimenti Ramune Khodorkaite
produzione Teatro Accademico Statale Mossovet
durata 3h 
lingua russo con sovratitoli in italiano
Napoli, Teatro Mercadante, 13 giugno 2014
in scena 13 e 14 giugno 2014



 

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