“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 02 June 2014 00:00

Il teatro necessario: intervista a Eduardo Zampella

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Torre Annunziata. Non solo Fortapàsc. O meglio, oltre Fortapàsc. Sì, perché oltre Fortapàsc c’è un’isola, una enclave di autentica resistenza socio-teatrale che tiene botta da più di un trentennio: diffusioneteatro, scritto tutt’attaccato, tutto minuscolo, ovvero uno spazio ‘integralista’ in cui ci si ostina ad offrire formazione a chiunque voglia accostarsi al teatro. Sul perché abbiamo usato quell’’integralista’ compreso fra due apici torneremo più avanti, allorquando lasceremo la parola al padre di diffusioneteatro, dalle cui parole verrà fuori un’accezione tutt’altro che deteriore di quel termine.

Fatto sta che diffusioneteatro, tutt’attaccato e tutto minuscolo, rappresenta un’eccezione, il frutto unico e maturo di un’esperienza fortemente voluta, fortemente radicata nelle convinzioni di chi la porta avanti, fortemente decisa a resistere, e lo diciamo fuori da ogni retorica plausibile, che per solito in questi casi si profonde sempre con buona e sin troppo magnanima facilità.
Eduardo Zampella, l’artefice principale di questo piccolo miracolo fuori dal tempo, ci accoglie nel suo studio a Torre Annunziata, una casa dalla mobilia in dismissione (se vi dovesse abbisognare una credenza in stile antico, probabilmente Eduardo sarebbe felice di disfarsene e farvene dono), aperta e a disposizione di chiunque sia disposto ad andare una sera in scena in cambio di un piatto di pasta e di un accogliente ricetto per la notte. All’atto d’iniziare la chiacchierata, potreste facilmente avere la sensazione che stiate parlando con un epigono di quell’ultimo giapponese che stazionava sull’isola, ignaro che tanto Pearl Harbour quanto Hiroshima e Nagasaki fossero ormai state da un po' di tempo derubricate alla voce “guerra che fu”, e lo potreste pensare perché potrebbe apparirvi fuori dal tempo ostinarsi, dopo un trentennio e passa, a dedicarsi anima e corpo al teatro per fare solo formazione, come fosse una missione ordinata dagli dèi dell’assito, ignorando bellamente l’idea di fare produzione teatrale. Eppure vi basterebbe guardarvi intorno per accorgervi che non c’è nessuna bandiera col sole che si leva, mimetica ed elmetto neanche a parlarne, e se proprio voleste sforzarvi di vedere il giapponese che vive in Eduardo Zampella, potreste al massimo immaginarlo come quello che prepara il sushi. Solo che lui non lo vende, lo regala; anzi, lo pesca, lo pulisce e lo distribuisce (gratis). E poi, siccome è un perfezionista pignolo, per scrupolo professionale, va in giro per gli altrui banchi del pesce (pagando) a vedere ed assaggiare gli altri come lo preparano, il sushi. Ora, se sostituite alla parola “sushi” la parola “teatro”, avrete un’idea di come funzioni l’isola in cui non si sapeva che la guerra fosse finita.

Eduardo, a beneficio di chi non lo sapesse, che cos’è diffusioneteatro?
Diffusioneteatro nasce come un progetto di formazione permanente, non solo per attori, ma per tutti quelli che hanno relazioni sociali, noi lavoriamo sulla destrutturazione e sulla ristrutturazione della persona, sulla gestione delle emozioni (e non sul controllo, c’è una bella differenza!), questo è il nostro modo di lavorare ed è diretto a chiunque voglia andare alla ricerca delle proprie verità più profonde; così, lavorando su se stesso, chi viene da noi può stabilire un canale di comunicazione privilegiato fra sé e il proprio ambito: se è un pediatra potrà essere un pediatra migliore, se è un magistrato potrà essere un magistrato migliore. Secondo me ha ragione Jean-Luc Nancy, filosofo di cui sono seguace appassionato, che in un suo saggio ha accostato due parole: corpo e teatro. E sapere che un filosofo si sia attardato sulla verità autentica del tempo della finzione che interrompe il tempo del vissuto mi ha molto affascinato. Diffusioneteatro è nata per offrire gratuitamente un servizio ad una fascia disagiata, ad un comprensorio come quello vesuviano, come alternativa a quei posti "alla moda", a quei tanti spazi ormai famosi, che si possono chiamare – e non ho nulla contro di loro, anzi sono degli amici che stimo tantissimo – Bardefé sul Vomero (che era un laboratorio), l’Elicantropo di Imma Villa e Carlo Cerciello, Umberto Serra, Laura Angiulli, persone che hanno fatto l’inizio della storia di una parola e di un concetto, quello di “laboratorio”, che prima io associavo solo alle analisi cliniche e che ora invece è diventato inflazionato: oggi ognuno si fa il laboratorio che di solito porta il proprio nome. Il nostro laboratorio invece si chiama diffusioneteatro, tutto attaccato e tutto minuscolo, da prima che ci fossero le e-mail; deformazione professionale, poiché nella vita professionale ho guadagnato facendo l’informatico all’INPS e sapevo che, dal DOS in poi, tutti i file si chiamavano con le lettere minuscole e chiaramente questo portava come conseguenza di avere una mentalità rivolta all’elettronica, alla telematica.

Ma come è nata e come si regge diffusioneteatro?
Inizialmente diffusioneteatro si è mantenuta con questo principio generale, ora caduto in disuso: “la banca del tempo”, ovvero una specie di tribù in cui ciascuno metteva a disposizione le proprie capacità e competenze, chi sapeva inchiodare inchiodava, chi sapeva come si monta un mobile lo montava e si attingeva a questa specie di banca, su questo principio. Così è nato il laboratorio, o lavoratorìa teatrale (che è un termine che mi piace moltissimo), costituito da lavoranti, appunto, che rimanda ad un’idea di artigianato. Non possiamo permetterci, come fa qualcuno col proprio laboratorio, di chiamarlo laboratorio “artistico” o “sperimentale”: ogni laboratorio è di per sé e non può che essere sperimentale, quanto all’”artistico” poi è quanto meno presuntuoso, dovrebbero essere gli altri a valutare se quel che fai ha o meno un valore artistico, riconoscendo l’universalità di quell’esperienza. Ma fin quando questo non accade – e ci possono volere mille anni perché la storia se ne accorga – bisogna parlare di una lavoratorìa, un luogo dove si riuniscono volontariamente, non pagando nulla, delle persone che hanno capito che la banca del tempo è finita, non si fa più, perché tutti devono guadagnare, ma io posso comunque darti parte della mia energia, tu attraverso questo che sono io, che sono il tuo specchio, affronti la relazione che hai col mondo; attraverso la nostra compresenza scambiamo reciprocamente le nostre esperienze generando un plusvalore che si aggiunge al tuo valore iniziale. L’esigenza di questo nasce dalla convinzione che non è vero che attori si nasce, e non è vero nemmeno che attori si diventa, attori si finisce!

Tornando alle origini, quando ti sei avvicinato la prima volta al teatro?
Era il 1962, frequentavo l’Istituto per Geometri di Torre Annunziata e partecipammo ad un concorso teatrale per le scuole, dalle parti di Ancona; portavamo un atto unico intitolato In cerca di un appartamento, uno di quei copioni anonimi che giravano, io avevo un ruolo secondario, facevo la parte di un portiere; ebbene, all’ingresso in scena lanci di caramelle e cancelleria varia, fischi; io un po’ per paura, un po’ per dispetto rimasi di spalle e cominciai solo quando in sala si fece silenzio. Questa cosa piacque a chi doveva giudicare e ricevetti un premio. Negli anni Settanta poi avevo fatto parte della compagnia Core Oplonti di Torre Annunziata. Nel ’74 ebbi un lutto in famiglia, andai in crisi. Il lutto non è solo perdita ma anche guadagno di una memoria, allora ho cominciato a guardarmi dentro, cercando di capire tutte le carenze di cui pativo in quel momento: a teatro si rifacevano sempre le stesse cose. Fino al ‘74 ero stato in molte compagnie teatrali, dandomi sempre un ruolo marginale, perché non avevo un bel corpo, mi affiancavo al regista e con blocchettino e penna alla mano, lo seguivo e segnavo tutto, vedevo un errore e lo segnavo, il regista qualche volta mi chiedeva come era andata la volta prima ed io ero di una puntualità pignola e meticolosa fino allo spasimo. Quando mancava il regista, si provava lo stesso sulla base dei miei appunti, e questo l’ho fatto non con una sola compagnia, ho frequentato una compagnia del Politeama, ho frequentato Roma, Novedrate, mi sono imbattuto in una scuola che si chiamava Damora, presso la quale ho avuto una formazione intensiva, facendo training per attore, non mi volevano nemmeno ammettere, dovetti insistere per accedere a questo percorso abbastanza duro, molto fisico, con un forte ascendente di sessualità, molto forte. Dopo la morte di mio padre nel ‘74 ho avuto una crisi molto profonda, e ho detto basta, basta con le compagnie e allora mi son detto: “Facciamo giocare i bambini, vediamo un po’ come posso capirmi di più”, quindi la mia prima ricerca è cominciata su di me.
Così, a un bel momento ci ritroviamo in pochi attorno ad un tavolo a chiederci “Dove stanno gli altri, se siamo convinti che ogni corpo contiene il suo teatro? Dove sono? In casa, al bar, a vedere le partite di calcio? Allora andiamoli a pescare, apriamo un laboratorio, creiamo un punto di aggregazione”, e così, poco alla volta sono venute serate in cui avevamo addirittura settantasette persone a fare formazione. Era nata, il 12 dicembre 1983, diffusioneteatro.

La sede di diffusioneteatro è all’interno del complesso della Chiesa Evangelica Luterana di Torre Annunziata. Com’è nato questo sodalizio e come sono i rapporti con la comunità religiosa che vi ospita?
Il presidente di diffusioneteatro è stato per anni un farmacista, Gaetano Marullo, inserito nella comunità e che ci ha introdotti nell’ambito luterano, che ci disse che potevano metterci a disposizione una cantina obsoleta, putrescente, umida, affinché ci andassimo a fare il laboratorio.

Perché, prima dove avevate la sede?
Alla Pro Loco di Torre Annunziata. Ed io titubavo ad accettare la proposta di Gaetano Marullo. La Chiesa Evangelica Luterana ci ha sempre sostenuto, senza mai pretendere nulla in cambio. Non hanno mai preteso che andassimo in chiesa, perché nella loro cultura c’è di fare le cose per le persone, a prescindere da quello che fanno. Abbiamo fatto delle richieste e quando hanno avuto la disponibilità economica ed hanno potuto “distrarre” delle cifre – piccole per loro, enormi per noi – ci hanno fatto tutti gli impianti a norma, e tutto il resto, compresi i servizi (che non c’erano), la piattaforma per i disabili (che ora si deve riattare).

Quindi la comunità vi sostiene anche economicamente?
La Chiesa Evangelica Luterana, dal 2000 al 2009 ci ha dato un sussidio di circa venticinquemila euro all’anno per pagare quello che bisognava fare, il resto veniva investito in formazione; fino al 1994 avevamo anche un premio, il “Tassello d’argento”, dedicato alla memoria di Cesira Izzo, attrice e non solo della Core Oplonti, morta come Ruccello a trent’anni in un incidente stradale; il premio veniva assegnato a personalità del mondo del teatro delle quali acquistavamo anche lo spettacolo: abbiamo premiato Isa Danieli, Vincenzo Salemme (che oggi fa finta di non ricordare), Enzo Moscato, Giorgio Barberio Corsetti; dopo di allora la situazione stava sfuggendo di mano economicamente, così abbiamo smesso di assegnare il premio ed abbiamo deciso di destinare alla formazione le somme a nostra disposizione, il che era anche più in linea con le finalità di diffusioneteatro; così, periodicamente, i ragazzi che studiano a diffusioneteatro hanno la possibilità di andare a fare dei corsi di formazione al Workcenter di Pontedera (intitolato a Grotowski), o al Teatro di Settimo Torinese, o al Potlach, o al Kismet; cioè periodicamente, con un contributo al cinquanta per cento a carico del ragazzo, e al cinquanta per cento a carico di diffusioneteatro viene offerta la possibilità di fare formazione in questi luoghi.

E dal 2009 in poi?
Siamo in affanno. Dal 2009 la crisi ha colpito anche un ente ecclesiastico che ha altre priorità umanitarie; però ci hanno sempre riconosciuto il valore sociale del nostro ruolo, offrendoci il patrocinio morale (che per me vale più dei soldi); ed è un fatto senza precedenti, nessun ente ecclesiastico aveva mai riconosciuto un valore in questo senso ad una attività operativa teatrale; ce lo hanno riconosciuto perché sanno che stiamo a Torre Annunziata, perché non ci siamo mai messi una lira in tasca. Dal 2010 la comunità è diventata proprietaria dei locali e si è fatta carico delle spese vive; quindi noi qui stiamo in comodato d’uso. E poi ogni anno ci si sta inventando qualche formula di finanziamento, tipo il matching grant, inventato in Italia dal Rotary.

Parliamo anche del teatro oggi, di quello che c’è in giro, a partire dalle filodrammatiche per arrivare alle compagnie professionistiche.
Io dico meno male che ci sono state le filodrammatiche, perché sono state realtà in grado di farci proseguire, di dare una continuità al valore che il teatro dovrebbe avere e che non ha del tutto o non ha ancora. Ma le filodrammatiche, filologicamente intese come realtà che “per amore” della rappresentazione si industriavano a costo zero e quasi sempre senza compenso, secondo me sono venute meno al loro ruolo quando sono subentrati i consorzi e sono sorti degli istituti che le hanno aggregate, una per tutte, la FITA che dovrebbe essere nelle intenzioni una confederazione delle compagnie dilettantistiche, cioè di coloro i quali non operano nel teatro professionale, ma di fatto, chiunque si metta al coordinamento di queste realtà lo fa per trattenere una parte degli utili. Così, una serie di compagnie, che secondo me sono professionistiche, si iscrivono alla FITA perché non avrebbero altro sistema e altro spazio per avere un contributo, sporadico, per ciò che fanno nel tempo libero; io discuto l’istituzione, perché l’amatore è tutta un’altra cosa, tant’è vero che io vorrei dire a costoro: “Ma a voi questa licenza di uccidere lo spettatore chi ve l’ha data?”. Proprio perché si definiscono teatro amatori dovrebbero approfondire molto di più le materie di studio che formano il bagaglio del performer, che non può essere più il ragazzotto di provincia che, ospitato nella parrocchia, con un nome fittizio di una compagnia afferente alla FITA riesce ad avere dal Comune o dalla FITA duemila euro; avrebbero il dovere di essere altro, non di riscaldare sempre la stessa zuppa, scegliendo i copioni solo perché l’aveva fatto papà o perché il nonno l’aveva scelto ed il bisnonno aveva lasciato in eredità la maschera di Pulcinella; questa è la fotocopia sbiadita del teatro, il teatro è quello, come dicono i grandi maestri, da farsi ancora, non quello già fatto. Quindi la mia lancia non è che viene spezzata, ma conficcata nel cuore di tutti quei piccoli enti, piccole realtà che, associando tutti gli amatori, hanno finito per costituire la fossa nella quale le nuove generazioni non crescono perché sono tenute nell’ignoranza.
Diffusioneteatro si è posta in maniera completamente diversa cercando di rappresentare un po’ lo svegliarino, per dire basta con Non ti pago, per carità, possiamo anche metterlo in scena, una volta, ma che sia la volta buona purché non sia la fotocopia scolorita di quello che abbiamo visto trenta o quarant’anni fa, ma rileggiamolo, analizziamolo, cerchiamo di vederlo da un’angolazione completamente diversa. L’autore esiste, a noi ora la capacità di dire altro, di svisare.

Tu sei uno che vede tanto teatro, che conosce e frequenta gli spazi off, curioso di tutto ciò che accade sulla scena. Un giudizio complessivo su quello che vedi, cosa salvi e di cosa si potrebbe fare a meno?
Io non farei a meno di niente, perché sono tutte manifestazioni, a volte anche semplicemente di disagio, che vedo bene in quest’epoca, perché ritengo che l’importante sia che la gente ci vada a teatro, e che la gente faccia il teatro, perche io ritengo il teatro una necessità, ma questo non lo dico io, lo dice in Mater Natura Massimo Andrei, che fa dire ai suoi attori ”ma a noi che ce ne importa se questo spettacolo ce lo fanno o non ce lo fanno fare, noi abbiamo bisogno di fare queste prove, noi abbiamo bisogno del teatro, dice la nostra regista, l’arte è un bisogno”. Quindi io non eliminerei nulla, perché tutte le cose che vedo, anche quelle che non funzionano, o hanno in parte qualcosa da insegnare, quanto meno quello che non vorresti vedere, oppure sono il modo di esprimere un malessere. Poi, per quanto riguarda la situazione attuale del teatro, io la vedo discriminante, noi ci attardiamo sui temi della diversità, noi ci accorgiamo che da Roma in giù siamo trattati diversamente rispetto al resto del Paese, ci sono una serie di spettacoli notevoli che prima si fermavano a Roma, ora addirittura a Bologna!

Sulla questione dei teatri occupati come ti poni? A Napoli c’è stata l’esperienza dell’ex asilo Filangieri…
Cominciano bene e per strada si perdono, perché ad un certo punto, quando c’è dietro l’aggregazione, la protesta e la banca del tempo, funzionano bene, quando c’è bisogno di un tavolo di lavoro, di un coordinamento, allora non sei più finemente e puramente anarchico come quando avevi cominciato, diventi inquadrato e ti crei un nuovo schema. E questo nuovo schema fa nuovamente i conti con affiliazioni, appartenenze, scuderie; anche diffusioneteatro può apparire settario, perché si crea il clan, però io parto con le lettere minuscole, non mi chiamo centro occupato, non mi chiamo workcenter, ma parto come divulgazione del teatro; allora può funzionare e poi ci vuole dietro un pazzo furioso che difende a denti strettissimi la tentazione ed il tentativo di essere comunque inquadrati. Ultimamente la Chiesa Evangelica Luterana ci ha proposto di aprire un conto corrente, di preparare un progettino.; la comunità sta cercando di darci i soldi materialmente attraverso un conto corrente, ma Zampella dice: Nun date retta nun m’e ddat’ ‘e sord’!”, e dalla comunità restano stupiti e si chiedono come mai non vogliamo aprirci questo benedetto conto corrente che ci consentirebbe di avere dei soldi a disposizione: dietro c’è un discorso di purità degli intenti associativi, non possiamo aprire un conto, perché poi non saremmo più diffusioneteatro.

Perché a quel punto saresti costretto a fare produzione…
Esatto! È una catena. Mentre fino a questo punto mi sono sempre tenuto fuori da queste logiche.

Com’è nata l’idea delle celebrazioni per il trentennale?
Se io non avessi visto all’opera un ventenne che fa Sprießen (Giulio Nocera, ndr), non sarei partito col trentennale; quando è finito Sprießen, nel 2012, io mi son detto “ma porca miseria, se un ragazzo di vent’anni e senza molta esperienza fa questo, noi stiamo da ventinove anni qua, io mo’ scrivo una cosa su Facebook: festeggiamenti del trentennale, chiunque vuol collaborare, il venerdì e il sabato facciamo manifestazione”;  è partita così, e non mi sarei mai aspettato, a partire dall’anteprima, la telefonata di Renato Rizzardi che mi dice “Teatri Uniti fa venticinque anni, vogliamo fare una cosa insieme?”; devo dire la verità, pensai a quanto ci sarebbe costato, così dico “Sì, ma dove dobbiamo venire, cosa dobbiamo fare e quanto costerà?”,”Non ti preoccupare, veniamo noi da voi, faremo quattro serate e non ti costerà nulla”; furono quattro serate, e poi Andrea Renzi che venne a fare L’uomo di carta o ancora Gea Martire con Cafone e tutta una serie di spettacoli andati avanti per un anno intero.

Situazione del teatro?
Dovrebbero un po’ smettere i giochi di parte che si fanno. La vera apertura non è ospitare la compagnia emergente, la vera apertura è rischiare, dire “io questo spettacolo non l’ho visto, non lo conosco, lo ospito lo stesso, fatemi vedere… Non facciamo sei serate, ne facciamo una o due, poi se funziona lo mettiamo in cartellone”. In secondo luogo al Sud siamo discriminati, fatta eccezione per i centri che aggregano attorno alla ricerca teatrale – e ce ne sono tre o quattro in giro per l’Italia – tipo il Teatro Settimo (che non c’è più), il Workcenter, il Kismet di Bari, il Crest di Taranto e, se facessi anche produzione, direi diffusioneteatro, ma noi produzione non ne facciamo, il nostro è un posto dove si studia, punto. Anzi, ci si allena, più che si studia.

E le compagnie napoletane? Come vivi il raffronto fra queste e quelle, magari coetanee di fuori? Cosa è la nuova drammaturgia e cosa ne pensi?
Ci sono due parole che non uso mai: “nuova” e “avanguardia”, perché penso che noi ci facciamo passare la storia accanto e non ce ne accorgiamo. L’avanguardia degli anni Settanta è la nostra retroguardia, ma l’avanguardia degli anni Settanta era già la retroguardia del Living e il Living oggi, che sta girando ancora con le sue performance, è diventato la retroguardia di quello ch era il Living una volta, quindi per me, come dice anche Moscato, la nuova drammaturgia non esiste, esiste un continuum, si va avanti nel tempo, si trasformano i codici di comunicazione che diventano altro, e allora è chiaro che se tu oggi mi fai vedere una commedia che si faceva il venerdì sera in televisione negli anni Sessanta, anche se ci sono pezzi da novanta che si chiamano Romolo Valli, Rossella Falk, Sara Ferrati, mi sembra una mosciaria enorme, perché è passato del tempo. I tempi sono completamente diversi; oggi, se per nuova drammaturgia intendiamo il ritmo che bisogna imprimere alla narrazione, allora la nuova drammaturgia sta alla vecchia drammaturgia come i caroselli pubblicitari di oggi stanno ai caroselli pubblicitari di ieri; durano tre secondi oggi i caroselli, una volta duravano cinque minuti. La stessa cosa sta succedendo a teatro.

Ma tu trovi che ci sia una penuria di scritture drammaturgiche veramente valide?
Sicuramente, perché tutto è stato detto, perché sono in molti a dirlo e chiunque tiene una cosa per registrare, scrive libri in continuazione. Non è che ci sia penuria di drammaturgia in senso assoluto, perché ce ne sono, ad esempio Galleria Toledo farà la prossima stagione due settimane di programmazione con drammaturgie provenienti dal laboratorio di diffusioneteatro, e questa è per noi una grande soddisfazione.

Noi abbiamo pubblicato di recente un articolo sulla regia teatrale, a commento di un saggio di Annalisa Sacchi. Tu cosa pensi in proposito? È ancora legittimo che esista un teatro di regia?
Facciamo parlare Leo de Berardinis: in un passaggio che sta pure su YouTube, in delle prove aperte di Re Lear, lui dice che bisogna temporaneamente imprigionare l’attore perché ne esca fuori la forza; il corpo che hai di fronte rimane inerme e inerte. Se tu non lo imprigionassi temporaneamente, cioè se non usassi la forza per ingabbiarlo temporaneamente, la vis non uscirebbe mai, se accanto all’attore o sopra l’attore ci fosse un personaggio che gli dice solo quant’è bravo, quant’è bello e quanto è stato fortunato. Leo de Berardinis sosteneva la libertà dell’attore, tant’è vero che è uno che dopo la prova generale diceva all’attore: “Da questo momento tu sei il padrone di te stesso, da questo momento non è più vero, era solo per contratto temporaneo che eri diventato mio schiavo, che dovevi rispondere ai miei capricci, ma tu da questo momento sei il vero proprietario, di te stesso e del personaggio e da domani sera te lo fai come vuoi tu”. Come l’autore muore quando la parola è scritta, il regista muore con la prova generale; sì, ci possono essere recriminazioni, rigurgiti di follia, ma in realtà lo spettacolo è fatto, in realtà è già accaduto. Dal punto di vista teorico io dico che il regista è un suscitatore; siccome mi piace molto lavorare con la gestione delle emozioni e scoprire i nervi, “io ti induco un certo tipo di linguaggio, un certo tipo di espressione”, e dopo che l’ho indotto desidero che accada quello che dice Marco De Marinis in uno dei suoi trattati: lo spettacolo deve funzionare per me che sono il regista, ovvero un bambino capriccioso. Poi, a chi deve piacere? Ad una persona che non vede, ma ascolta soltanto, e ad una persona che non sente, ma vede soltanto. Se il ritmo è quello giusto, se la fantasia è quella del regista e se la visione è coinvolgente, i tre meccanismi non possono che funzionare. E tu hai la messa in realtà (non in scena!) di un sogno. Quindi io non è che non creda nel regista o sia contro il teatro di regia: il teatro di regia, egregi signori, anche se si chiamava in un'altra maniera prima del Novecento, è sempre esistito, esisteva il capo della carretta che diceva siccome il nonno è morto, tu ti metti la barbetta e la parte del nonno la fai tu, siccome hai la pancia davanti, la donna incinta la fai tu. La regia è sempre esistita, solo che si chiamava capocomico, conduttore del carro di Tespi, come il commissario tecnico nel calcio. Quindi, il teatro non di regia non esiste! Molti attori commettono il grande errore di dirigersi da soli.

Ma che funzione deve avere il teatro?
Smuovere emotivamente, risvegliare le coscienze, nel bene o nel male, anche per farti dire “ma che cosa hanno fatto?!”, Il teatro deve in qualche modo oltraggiare, e questo io l’ho fatto con Metrofònos nel 2004, sei date alla Sala Assoli del Teatro Nuovo, testo tratto da Moscato con l’autorizzazione di Moscato, e lì un critico ha detto “ma che schifo, che sono queste undici pazze che gridano” e su Repubblica uscì scritto “Zampella tradisce Moscato”, il giorno dopo Enzo Moscato mi telefonò, io temevo il cazziatone, Moscato invece mi disse di non dolermi più di tanto, perché quando lui aveva cominciato lo stesso critico aveva scritto “Moscato tradisce il teatro”. Insomma gli era piaciuto e piacque anche a Giorgio Barberio Corsetti, che era al Nuovo con uno spettacolo con Filippo Timi e mi aveva fatto l’onore di venire a dare uno sguardo.

Ma se ti offrissero una direzione artistica, accetteresti?
Me l’hanno già offerta, non ho accettato: il Di Costanzo Mattiello di Pompei, non ho accettato perché l’alto prelato che me l’offriva, tramite conoscenti che gli avevano presentato le mie credenziali, mi fece capire prima di tutto che il teatro si sarebbe fittato e poi che mi dovevo interessare di far girare un film ad una troupe su Bartolo Longo: non sono un cinematografaro e non mi interessava l’argomento, senza contare la figura di Bartolo Longo, sulla quale avrei dovuto raccontare le bugie che voleva far dire il santuario. Con una proposta seria accetterei, ma con un contratto di due o tre anni, non rinnovabili, perché io sono convinto che la creatività non sia una cornucopia inesauribile e quando si esaurisce una falda, bisogna passare ad una falda diversa. Si potrebbe obiettare che a diffusioneteatro sto da trentuno anni, ma è diverso, perché qui non cambio io, ma cambiano le persone attorno, cioè, io faccio sempre la prima classe, da noi vengono a fare il laboratorio di base. Io riesco ad accompagnare queste persone per un percorso che se fosse una scuola sarebbe l’equivalente di un corso di laurea specialistico: imparano a leggere lo spettacolo, acquisiscono capacità critica ma soprattutto autocritica dello spettacolo, ne conoscono i limiti, si pongono sempre dalla parte dello spettatore e interpretano prima che lo faccia lui quali siano i suoi bisogni e quale sia il canale privilegiato di comunicazione con chi sta fruendo dello spettacolo. Quando recitano, loro non si dicono “quanto mi piaccio quando dico questa cosa”, ma dicono “piacerà quando dirò questa cosa?”, per ogni battuta ci si crea il problema di chi lo dice, quando lo dice, come lo dice, a chi lo dice e perché lo dice.

Come hai creato il tuo catalogo di esercizi che fai effettuare durante la formazione?
Tra il ‘70 e il ‘74 dopo il lavoro all’INPS andavo nelle famose cantine napoletane, in cui incontravo Laura Angiulli, Luigi Amato del Gruppo Imago: me ne andavo a vedere due ore di prove in una cantina di Portalba, poi la pomeridiana al Nuovo o al Sancarluccio, a seguire il teatro serale e a volte verso mezzanotte finivo al Notting Hill a Piazza Dante (che ora non c’è più), una cosa che si chiamava “rassegna di mezzanotte”, dove praticamente erano cose al limite della pornografia, ma questo ha fatto sì che non mi meravigliassi quando ho visto Latella: erano gli embrioni di Latella. E questo chiude il cerchio sulla formazione. Nel ‘74, morto mio padre, mi sono chiuso in casa con una palandrana addosso e leggevo, leggevo tutto ciò che non era copione. Un percorso, il mio che ha avuto una battuta d’arresto con la vicenda di Cesira Izzo che una sera mi venne a prendere per andare a vedere la Nuova Compagnia di Canto Popolare a Torre del Greco, io avevo la febbre a trentotto, ma lei insistette, mi imbottii di Tachipirina e andai a vedere l’anteprima della Gatta Cenerentola: la grande rivoluzione! Sono uscito da teatro sfebbrato! Ho esclamato ci siamo! Questa è la rivoluzione a teatro! Ho sudato in continuazione, non per la febbre, ma per l’emozione, è stato come la riforma di Molière, come il teatro di Goldoni, una cosa diversa. Io La Gatta Cenerentola l’avrò vista una ventina di volte, in tutte le varie decadenti nuove edizioni. Quello è il vero momento di rivoluzione: Moscato, Santanelli, Ruccello, Francesco Silvestri, Mimmo Borrelli – e te lo dico con assoluta convinzione – non sarebbero nati se nel ‘76 non ci fosse stato Roberto De Simone che si prendeva tutte le critiche dei benpensanti dell’epoca, e che poi si prese la sua rivincita quando la rifece nell’88 e nel pieghevole di sala, uno spesso libriccino, mise a sinistra le recensioni del ’76: “orribile blasfemia”, a desta quelle dell’88: “torna il capolavoro”.

Parlando dei problemi strutturali del teatro, arriviamo al Napoli Teatro Festival. Tu che percezione ne hai e che spettatore ne sei?
Non ne sono molto informato, ma trovo un parallelo tra il guadagno in nero e la progettazione al buio; trovo che il Napoli Teatro Festival sia una progettazione al buio, in cui fanno di tutto per non farti conoscere le carte, come quando si gioca a poker, per non farti sapere chi sarà il privilegiato. Come pubblico, quando cerco di andare a vedere quello che produce, non ci riesco sempre e se ci riesco è a caro prezzo, perché non sono costi totalmente accessibili. Nell’indotto lavorano molti da fuori. Io vedo il Napoli Teatro Festival come una macchina enorme che si autoestingue, che consuma al suo interno risorse economiche e forze creative; poco lavoro per Napoli (non c’è quasi nessuno di Napoli che ci lavori). Sento di gente che fa la domanda come hostess… Ebbene, abbiamo creato più posti di lavoro noi a diffusioneteatro, senza creare illusioni o aspettative. Come spettatore ho visto qualche spettacolo inatteso: me ne ricordo uno l’anno scorso, uno francese La riunificazione delle due Coree, che mi è piaciuto molto. Gli altri? Non me li ricordo neanche, vuol dire che sono stati cancellati, altri naturalmente non li ho potuti vedere. Biglietti che vengono lottizzati a quadranti, dai box office, dalle agenzie…

Per quanto concerne la critica, tu che ruolo le riconosci? Ha ragione d’esistere?
In termini d’espressione senz’altro. L’importante è non farsi asservire ed avere degli strumenti di valutazione per poter fare dei distinguo tra un tipo di comunicazione teatrale ed un’altra. Vedo meglio la critica in questo periodo, perché vedo le nuove generazioni, spinte da un’esigenza di ricavare degli spazi e delle nuove figure professionali, se preferisci di reinventarsi un lavoro, le vedo molto più approfondite, molto più analitiche, ma in ogni settore, sia tramite Internet, sia attraverso le nuove apparecchiature, ogni categoria ha affinato le proprie specializzazioni, specializzazioni verso le quali si va sempre più e la critica oggi mi appare più specializzata di quanto non fosse vent’anni fa, quando in teatro trovavo un semianalfabeta che sbagliava anche sul giornale a scrivere (e non erano refusi!). Oggi mi sembra che attraverso proprio questo tipo di “stampa”, l’online, le cose stiano andando meglio.

Ma non è vero anche il contrario? Chiunque può improvvisarsi, non c’è una categoria riconoscibile…
Sì, ma non paga, è un fenomeno che si riduce da solo… Alla lunga si capisce chi sa e chi non sa di teatro. Per finirla, ti dico che i critici non mi sono molto simpatici, ma mi diventano simpatici se li trovo competenti. Poi il webmagazine mi pare sia un vantaggio enorme, mette tutti in condizione di farlo, ma prima o poi si vede chi è in grado di farlo e chi no e ti dà la possibilità di un riscontro immediato, è vantaggioso, e mi piace che i giovani si stiano avvicinando a questa cosa. In definitiva vedo un cambiamento in positivo a quella che fino a pochi fa era una specie di lobby.

Ma la critica serve al teatro?
Sicuramente. Parto sempre dal presupposto che non sia asservita a qualcuno, perché il problema è che se la critica è al servizio di qualcuno e attraverso la critica questo qualcuno riesce ad ottenere una cattedra in cui insegna regia, senza aver mai fatto una regia, mi chiedo questa regia come la vada ad insegnare. Già credo poco nella regia, soprattutto quella degli improvvisati registi: io ho curato la regia di sette, otto spettacoli, forse anche di più, ma quando mi chiedono se sono un regista io dico “Per carità! Sto studiando! Voglio capire se da grande sarò capace di impararlo!”.

La nostra conversazione con Eduardo Zampella finisce qui; nel frattempo, complice Marina Fiorenza, abbiamo anche avuto modo di pranzare, “una cosa arrangiata”, dice lui, ma è modesto e non rende giustizia al talento culinario di Marina: spaghetti ai frutti di mare e orata all'insalata. Tutto molto buono. Altro che sushi!

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