“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 26 May 2014 00:00

Ma chi è Mimmo?

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Tentata memoria prevede alcune caratteristiche che sono ormai consuete del teatro-documentario-in-forma-di-monologo.
Prevede uno spazio semicircolare di scena, qui definito da tre sedie (una sul fondo e due sui lati) e da sei copie di giornale (appoggiate in terra) nel quale si muove l’unico interprete.
Prevede una drammaturgia con finalità evocative (“ri-cor-dare: ridarsi cuore, restituirsi qualcosa o qualcuno”), che viene replicata in maniera non illusiva per cui agli scampoli recitativi segue il commento, agli accenni di interpretazione seguita una spiegazione o un rimando storico-politico-folclorico locale.

Prevede un insieme di oggetti di scena che alludono all’altrove anche immaginifico o metaforico (il tronco di un albero nato da una base di libri) ma che servono, soprattutto, a rendere la pluralità di contesti in cui la storia abita o si trascina (a destra abbiamo perciò fornellino, macchina e tazzina da caffè perché sia casa propria; a sinistra un tavolino basso, con lampada, perché sia lo studio di un professore).
Prevede – Tentata memoria – l’utilizzo ormai “post-epico” di brevi filmati, di proiezioni di atti e reperti, di rumori oltre-scena a cui aggiunge un accenno di teatro delle ombre (sagome di cartone, spazio buio, luce sul fondo); prevede cambio d’abito a vista; prevede continua interazione con gli spettatori (“Secondo voi questa cos’è?”); prevede una mancata corrispondenza tra giornali letti per trama e giornali esposti allo sguardo del pubblico (altro scarto non illusivo, per cui Cronache di Napoli è Paese Sera, Il Giornale è Il Mattino); prevede un andamento cronologico lineare (dal millenovecentottanta al duemiladieci: dall’omicidio alla prima di questo spettacolo); prevede un prologo (“Buonasera, buonasera… Io mi chiamo Eduardo Ammendola, ho trentasei anni e sono un medico di Ottaviano – vivo”) che ha tre funzioni specifiche:
− presentare il portatore della storia in quanto tale (“Io mi chiamo Eduardo Ammendola”).
− contestualizzare immediatamente la vicenda (“Ottaviano”).
− presentare allusivamente la materia, sottolineando ciò che differenzia chi narra da chi viene narrato (“vivo”).
Prevede, Tentata memoria, che questo prologo abbia poi una frase-chiave con cui lo stesso ha da concludersi (“Non sono pronto. Cominciamo”) perché sia consentito il vero inizio dell’opera ovvero l’Orazione civile di rito Beneventano (il sottotitolo dello spettacolo) di cui colpisce la sostituzione del nome proprio (“Mimmo”) con l’indicazione del mezzo che servirà a far risuonare quel nome (“rito”). Poi è trama, è storia, è tentativo di racconto:
“Stasera ci restituiremo una persona: il dottor Domenico Beneventano”.
“Lui, medico di Ottaviano, ucciso a trentadue anni; io, medico di Ottaviano, di trentasei anni: vivo”.
“Un uomo scomodo, certamente”.
“Un comunista”.
"Speculazione edilizia".
“Dovranno passare sul mio cadavere”.
“Questi mi votano, ma non mi proteggono”.
“Raffaele Cutolo”.
“Il sette novembre, alle sette di mattina, con sette colpi di pistola”.
“Killer e mandanti ignoti, ancora adesso”.

Se, dunque, la forma-struttura è oramai solita, ciò che differenzia e caratterizza davvero Tentata memoria è l'idea di rievocare non chi è morto ma ciò che − per chi è di scena − è passato: l’infanzia e la giovinezza trascorse; quel luogo abbandonato o distrutto; quelle figure (un padre, uno zio, un nonno, il professore, un amico, la fidanzata, il padre della fidanzata) che parlavano allora e che parlano adesso (figure accennate per piccoli intarsi fisico-vocali) perché non appaia la piccola biografia individuale di una vittima ma una più complessa resa del contesto (personale e parzialmente collettivo) che fu, tra mezze frasi di vergogna, contrasti umorali, voluta distrazione (a)politica e disinteresse, timore, mancanza di coraggio, fastidio celato o trattenuto, piccoli eventi da speranza improvvisa, ritrovamenti o conoscenze che confermano che vale la pena di continuare a cercare, di continuare a conoscere, di continuare a capire, approfondire, sapere.
È Ottaviano che riemerge, dal buio iniziale della sala, e di Ottaviano un micro-contesto familiare o di relazioni che respira, si muove, incontra, sfiora, tocca, conosce, osserva e collabora, valuta, giudica, allontana, si separa, abbandona, commenta, fa retorica, dimentica, seppellisce la storia di Mimmo Beneventano; è di Ottaviano e della propria vita ottavianese che fa Tentata memoria Eduardo Ammendola: per questo la telefonata di un amico; per questo le ripetizioni di Italiano (“Studia, Eduardo, studia: Dante, trentatreesimo canto, Inferno”); per questo il viaggio sulla 268 e l’Alfa Romeo “gialla, non beige” del padre; la “Cinquecento nera di mio zio”; la “Centoventisei Brown Special di mio nonno”.
Ed è richiamando in ribalta questo stretto pezzo di mondo e questo parziale scorrere d’anni – che insieme costituiscono tutto il vissuto di Eduardo Ammendola – che riappare anche Mimmo Beneventano, ostinato spettro o fantasma capace di farsi notare, ascoltare o ricordare quando sembra che tutto collabori perché di lui non vi sia più traccia: così ragiona da un vecchio articolo di giornale; rimarca la sua prossimità ostile al crimine finendo in un’antologia di letteratura locale; ritorna sotto forma di scritta sul muro; così appare indirettamente in un filmato della Rai, il suo nome risuona in una conversazione, la sua presenza assume la forma di un libro (gli orli consunti, le pagine ingiallite, la copertina rossa, pulita, plasticamente lucida e con il titolo in nero: Rabbia e Destino).
Insomma, sembra quasi che Mimmo Beneventano − più che essere evocato dal rito − s’imponga al rito medesimo, chieda di farne parte, pretenda presenza: penetrandolo, abitandolo, occupandolo per farlo (anche) proprio. 
È tanto vera questa sorta di testarda caparbietà ad esserci che, ad un punto, sembra sia Mimmo Beneventano a indurre o costringere Eduardo Ammendola (“Aspetta collega, ora glielo dico”) a declamare parole, frasi, domande: “Chi è vittima della camorra e chi non lo è? Chi è vittima della camorra e chi si è salvato?”.
È tanto vera questa tenace idea di persistere a forza tra i vivi che, lo stesso Eduardo Ammendola, ha da ammettere “Io non lo so chi è Mimmo, non lo so e, quello che so, l’ho saputo per sbaglio”: come a dire che non ha cercato la storia di Mimmo ma è la storia di Mimmo che lo ha cercato e lo ha raggiunto, afferrato, conquistato: invadendolo in pieno, spingendolo in palco.
In questo, dunque, Tentata memoria differisce da altri spettacoli, simili soltanto in apparenza: non fa elegia di un martire (operazione contenutistica fin troppo semplice) bensì mette in scena la permanenza cocciuta, intransigente e testarda di un uomo che non s’arrende a sparire, che non si consegna all’oblio. E se alcuni passaggi del testo e della recitazione  sono ancora migliorabili − perché si ha la sensazione di una mancanza di scorrevolezza e, talora, di una mimica ancora acerba − resta alla fine la soddisfazione di aver visto non come un vivo si ricorda di un morto ma di come un morto riesca a farsi ricordare da un vivo.
A volte ritornano, suol dirsi.
Talvolta scopriamo, invece, che non se ne sono mai andati.

 

 




Tentata memoria. Orazione civile di rito Beneventano

ideazione e testo Eduardo Ammendola
regia Nicola Laieta
con Eduardo Ammendola
scenografia Peppe Cerillo
collaborazione e consulenza Chiarastella Panaccione e Luigi Mosca
documentazione storica e biografica Luigi Mosca e Gabriella Galbiati
con la collaborazione di Fondazione Mimmo Beneventano
videoproiezioni Luigi Mosca
foto di scena Gianfranco Irlanda
durata 50'
Napoli, Start Teatro/Interno5, 24 maggio 2014
in scena 23 e 24 maggio 2014


 

 

 

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