“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 25 May 2014 00:00

Il cielo sopra "Pagliacci"

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Canio è solo, al centro della scena, come sempre, nel cuore tormentoso di Pagliacci. Tu se' Pagliaccio!, e l'aria troppo famosa – come d'uso – s'innalza e forza il cuore e l'emozione. Per una volta, tuttavia, non indossa la povera gabbana d'istrione, ma un candido gilet: ha appena smesso infatti il frac, che dei lirici cantanti è tuttora alt'uniforme. E a terra scalcia per rabbia e per diletto – pare – e solleva spruzzi d'acqua: perché l'impiantito del palcoscenico è ormai una pozza d'acqua – son lacrime di dolore, spiega il regista – in questa visionaria e fantasiosa messa in scena firmata Daniele Finzi Pasca che al San Carlo (ri)approda con l'opera di Leoncavallo dopo il clamoroso successo estivo di qualche anno fa. Così Vesti la giubba s'appropria d'inedito costume astratto e surreale sul fondo rigorosamente nero che sul finire s'arrossa e trasmuta l'acqua in sangue.

Il sontuoso spettacolo allestito dal regista svizzero ha pur ben altre suggestioni: acrobati che volteggiano – lanciati a vol, a vol come frecce – nell'aria calda del giorno di mezzagosto (di cui non ha più però apparenza e calore e colore); che cercano come possono di difender Nedda dall'infoiata eccitazione di Tonio prima, e dalla cieca rabbia di Canio poi, prendendosi anche la lor parte di spintoni, improperi e coltellate; che amplificano il gesto – come oggi spesso i mimi nel sottotesto del moderno teatro, non solo musicale – ma che in qualche modo, silenziosamente, arcanamente, all'azione partecipano e soffrono e vivono: e il frullar dell'ali – delle mani – ad avvertire la coppia degli amanti del pericolo in arrivo sa trovare un accento liricamente vero e struggente.
Dov'è più il vero dell'assolato afoso villaggio calabro dei villici con zappa e zampogna? E il teatro nel teatro? Non c'è traccia apparente di tutto quel che credevamo fosse Pagliacci, in questo Pagliacci: ricerca affannosa e vana del nuovo a tutti i costi, è questa regia, o piuttosto poetica introspezione alla scoperta d'un più autentico significato dell'opera? A ben vedere non è certo nuova – all'interno della critica musicale più avvertita – la tesi dell'insussistenza dell'opera verista, quasi inconsulto ossimoro: e, non bastasse, proprio Pagliacci molti dubbi ha da sempre sollevato sulla sua verace ispirazione realista, costruita com'è sull'invidiato modello di Cavalleria pur senz'averne l'estro e prendendo in prestito – fino a sfiorar il plagio – Le Femme du Tabarin di Catulle Mendès. Perfino il Prologo, sì tanto celebrato come manifesto stesso del teatro musicale verista non sarebbe che brano d'occasione scritto per contentar Maurel il cui gran nome esigeva aria adeguata e di grand'effetto.
Che resta di Pagliacci, se si scrosta via la sottile vernice verista che lo ricopre? Uno spettacolo sconsiderato e trasognato e folle adeguato all'epoca che lo generò: sconsiderato e trasognato e folle come la mise en scène di Finzi Pasca, del bianco e del nero e dei trapezisti en travesti e dei villici in augusti trasmutati, colorati e ridanciani nel famigerato dindon del coro cantato lì, sul tappeto circolare e multicolore al centro della pista del Gran Circo. Purissima sognante (sur)realtà.
E poi il metateatro: non già quello un po' scontato della recita nella recita che scatena le emozioni e innesca la tragedia, amleticamente in sedicesimo che confusamente anticipa pirandelliane angosce: più arcaicamente rispunta fuori Plauto, che scardina con beffardo gesto la forma chiusa del dramma realistico (!) disvelando la finzione scenica e in fondo restituendo il teatro al teatro e la realtà alla realtà. Ma ammiccando, anche, a noi, al pubblico, fin dal primo momento, guardando la platea dritto negli occhi come Tonio fa fin dal primo apparir sul palcoscenico (e il Prologo ha qui la funzione stessa che nell'autore latino: ricorda, pubblico, che siamo qui a far teatro: ecco Nedda – vedrete amar sì come s'amano gli esseri umani – ecco Canio – vedrete dell'odio i tristi frutti – ecco come noi ci mettiamo sulla scena, noi che siamo clown, maschera archetipa del sovvertimento dei presupposti schemi, Persona jungiana usa a finger ciò che è) perché noi, che la realtà possediamo e viviamo, potessimo entrar con loro in pista e finger d'esser ciò che siamo: rispettabile pubblico di teatro d'opera.
No, se manca qualcosa a questo Pagliacci, non è il verismo, che fu solo occasionale e modaiola dipintura; non il metateatro, di cui è preservato il senso più vero e autentico; secondo me, se manca qualcosa, è invece il senso della napoletanità che fu invece tanto presente in Leoncavallo, molto più dello sforzato realismo (e che tanto, se volete, contribuì al clamoroso primo successo di Pagliacci, soprattutto americano, grazie anche alla voce di Napoli per eccellezza, Caruso che fu di Canio interprete quasi di divino diritto).
La napoletanità di Leoncavallo – la sua meridionalità – riempie l'afflato della musica sua, affiora nell'ampiezza e popolanità del gesto drammatico, risuona potente nella retorica del verso, che non è in vernacolo ma che ne conserva sapiente e intatto gusto e sapore. Ecco, tutto questo sembra veramente irrimediabilmente perduto: in tal modo l'opera inevitabilmente smarrisce spontaneità e calore, acquista probabilmente in universalità: poesia della metamorfosi orfica del sogno, financo nelle figure nere – nere come l'estremo abito di morte di Nedda – che dall'alto del cielo scrutano e osservano la strana umanità che popola la terra: il cielo sopra Pagliacci è abitato da luci boreali e presenze angeliche wendersiane che negli sguardi serbano muti la millenaria sapienza della Natura, fino alla liberatoria pioggia del finale che bagna loro – angeli della morte – come le sventurate maschere, tutti accomunandoli nell'unico pietoso insanguinato rito di purificazione.
Nello Santi è ormai un'istituzione: a ottant'anni suonati riesce ancora a dirigere traendo dalla partitura sottolineature e sapori che non diresti, sensazioni che non ritenevi, in un'opera che conosci a memoria. Non è da tutti, non è da tutti la perfezione dei tempi e dei ritmi. Antonello Palombi è rimasto per tutti il tenore "di riserva" scaraventato sul palco della Scala nel 2006 a sostituire il Radames d'Alagna protestato dal pubblico nell'ultim'Aida del tosco Maestrino: gli auguro naturalmente di scrollarsi di dosso quanto prima questo cliché, tuttavia il suo Canio soffre un po' troppo di teatrale gestualità e non si sforza nemmeno di trattenere almeno in parte l'eccesso verista anche nella sfoggiata vocalità, che forse andava per l'occasione tenuta alquanto a bada. Ha una voce potente anche la Nedda di Alexia Voulgaridou ma tuttavia un po' disomogenea e anche a tratti insicura, pur nella complessiva gradevolezza timbrica della voce. Il Tonio di Claudio Sgura – che vorrei ricordare Jago nell'Otello straordinario di Nekrosius dell'anno scorso a Bari – ha dalla sua timbro brunito e pastoso, mancante forse in potenza, nel disegnare un credibile personaggio che spazia dalla misurata signorilità del Prologo al viscido deforme di Tonio al duplice clown di Taddeo.
Nel complesso cast comunque all'altezza.

 

 

 

Pagliacci
di Ruggiero Leoncavallo
direttore Nello Santi
regia Daniele Finzi Pasca
con Antonello Palombi, Alexia Voulgaridou, Claudio Sgura, Mert Sungu, Luca Grassi
e con Orchestra, Coro del Teatro di San Carlo di Napoli
maestro del Coro Salvatore Caputo
scene Hugo Gargiulo
costumi Giovanna Buzzi
coreografie Maria Bonzanigo
luci Daniele Finzi Pasca e Alexis Bowles
foto di scena Luciano Romano
produzione Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli
lingua italiano con sovratitoli in italiano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro di San Carlo, 22 maggio 2014
in scena da 22 maggio a 8 giugno 2014

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