“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 17 May 2014 00:00

Federico secondo Ettore

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“Io, nei miei occhi, passeggio sui rami. / I rami passeggiano sul fiume. / Vengono le mie cose essenziali. / Sono ritornelli di ritornelli. / Fra i giunchi e la sera bassa, / che strano chiamarsi Federico!”. Prima delle Canzoni per concludere, In altro modo è declamata nei suoi ultimi sei versi all’inizio dell’ultimo film di Ettore Scola, presentato fuori concorso alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia nel 2013: Che stano chiamarsi Federico – Scola racconta Fellini. Versi che ben introducono il sincero ed accorato ricordo dedicato al maestro del cinema italiano nel ventennale della sua scomparsa (31 ottobre 1993). Al di là dell’omonimia, la visionarietà e lo spirito libero e giocoso del poeta andaluso rivivono nello stupore immaginifico del grande riminese, nel suo sguardo appassionato e anarchico, fanciullesco e meravigliato. Uno sguardo carico di stupore e semplicità, indagatore e creativo.

Lo stesso che un giovane Fellini rivolge al mondo ancora sconosciuto ed agognato del cinema che lo incanta da bambino, o delle illustrazioni e delle vignette dei giornali satirici della capitale.
Federico è un timido diciannovenne che viene assunto al Marc’Aurelio, dove incontra i grandi vignettisti e umoristi dell’epoca (Furio Scarpelli, Age, Vittorio Metz, Ruggero Maccari, Steno, Attalo) impegnati a risollevare il morale degli italiani muovendosi nel delicato ed insidioso terreno della satira (sotto controllo del regime, come illustrato dalla felice scena della visita di un gerarca fascista alla redazione). Nel frattempo incomincia a scrivere per le riviste dell’avanspettacolo insieme a Maccari (campo non meno insidioso, come mostra l’episodio in cui i due – insieme alle rispettive ragazze – assistono allo spettacolo dove un guitto partenopeo recita sue gag prima di venire ricoperto da ortaggi e gatti morti dall’insofferente pubblico romano).
Anni di formazione che preludono alle sue collaborazioni, in fase di scrittura, con registi affermati o nomi nuovi del cinema, già prima della fine della guerra (Mario Bonnard, Goffedo Alessandrini, ma anche i giovani Riccardo Freda e Alberto Lattuada, con cui firma la sua prima regia, Luci del varietà). La collaborazione con il già affermato Rossellini si realizza con la collaborazione per Roma città aperta, passando per Paisà, Francesco giullare di Dio fino ad Europa ‘51 (non accreditato). Anche se il coinvolgimento maggiore con l’amico Roberto è per il segmento Il miracolo (secondo tempo de L’amore) in cui recita la parte del vagabondo scambiato per San Giuseppe, prima delle sue due uniche prove attoriali (l’ultima sarà proprio per Scola in C’eravamo tanto amati). Una giovinezza ricostruita da Scola traendo spunto dai suoi ricordi diretti. Difatti assistiamo all’arrivo, nel 1947, di un altrettanto timido e impacciato sedicenne romano (ma originario di Trevico, in Irpinia) armato di cartelletta per i disegni alla redazione dello stesso giornale satirico (interessante come i due geni da ragazzi siano convincentemente interpretati dai veri nipoti di Scola, i fratelli Tommaso e Giacomo Lazotti).
È qui che il giovane Ettore incontra il più grande Federico, munito di una bella macchina, che lo prende in simpatia e lo introduce alla spensierata vita romana. Ricostruite con levità e nostalgia, queste scene di gioventù sono introdotte da un simpatico narratore che introduce e illustra i raccordi tra le tappe di una carriera in ascesa, e filmate in un nitido bianco e nero. Ma l’assenza di colore non è limitata agli episodi più antichi, perché la fotografia alterna i suoi toni nel passaggio da una scena all’altra, letteralmente: girato nel mitico Teatro 5 di Cinecittà, il film svela le quinte e il trucco delle proiezioni di realistici fondali su lunghi teli. Magie di un cinema che rinuncia al presupposto fondamentale della mimesi per inscenare narrazioni di un passato già dato, scritto indelebilmente nelle immagini fissate da una carriera straordinaria.
I ricordi privati hanno solo bisogno di sorreggersi su accenni di set, tra pannelli e impalcature, fari e allestimenti scenografici, in un gioco di disvelamento che rifugge dalla totale finzionalità della ricostruzione a favore di una rievocazione dei ricordi minima, per la quale bastano ambienti da allestire con semplici trucchi ottici. Dilemma anche etico oltre che estetico: rendere oggetto di cinema chi il cinema ha costruito, ripresa dopo ripresa, può risultare pleonastico. E così basta solo accennare, dare un’idea: non serve chiamare due attori per far rivivere Fellini e Scola da adulti, impegnati in lunghi giri notturni in macchina per le vie di Roma. Sono sufficienti due corpi di cui si oscurano i volti, e a cui prestano la voce un doppiatore per Fellini e lo stesso Scola per se stesso.
I due incontrano un’umanità a dir poco felliniana, come la prostituta all’ultimo giorno di meretricio o un pittore madonnaro che si rammarica di non riuscire mai a dipingere bene le mani dei santi. La maturità comporta profondità di dialoghi e riflessioni sulla vita e sull’arte un po’ prolisse e pedanti, e l’episodio con Rubini rallenta il ritmo della narrazione. Pericolo scongiurato dai numerosi inserti documentaristici che ridanno respiro alla rievocazione. Come lo spassoso segmento in cui Fellini provina Sordi, Tognazzi e Gassman per la scelta del Casanova, irresistibile recupero di spontanea comicità. E ancora quadri, disegni di Federico e di Ettore ispirati all’amico, in un turbinio di situazioni e rievocazioni, fino all’inevitabile commiato celebrato nello stesso Teatro 5, in cui si consuma l’ultima beffa del Fellini-Pinocchio (gran bugiardo) ai suoi spettatori. E il montaggio finale non può che avvenire sulle note de L’ultima passerella, musica-manifesto imprescindibile, segno indelebile del maestro Rota, alle cui atmosfere si ispira la colonna sonora di Andrea Guerra sotto il segno dell’omaggio rispettoso.
Operazione che, nata inizialmente come documentario di montaggio, ha convinto Scola a reinventare una ipotesi di meta-cinema come già accennato in C’eravamo tanto amati, con la rinnovata voglia di sperimentare linguaggi nuovi ed inedite contaminazioni. Senza perdere di vista l’ironia e la levità. Per Ettore ora le cose essenziali sono ritornelli e ricordi.

 

 



Che strano chiamarsi Federico – Scola racconta Fellini
regia Ettore Scola
con Tommaso Lazotti, Giacomo Lazotti, Vittorio Viviani, Antonella Attili, Sergio Rubini, Vittorio Marsiglia, Emiliano De Martino, Sergio Pierattini, Giulio Forges Davanzati, Maurizio De Santis
soggetto e sceneggiatura Ettore Scola, Silvia Scola, Paola Scola
fotografia Luciano Tovoli
musica Andrea Guerra
paese Italia
distribuzione Bim
lingua originale italiano
colore bianco e nero e colore
anno 2013
durata 90 min.

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