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Friday, 09 May 2014 00:00

Cinema pop-up

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Ultimo appuntamento con Visioni – Rassegna del Cinema d’Autore al Cinema Partenio di Avellino. Gradita conferma quella di Wes Anderson, già presente nella scorsa edizione con Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore, autore di Grand Budapest Hotel, presentato al Festival di Berlino 2014 e ivi premiato con l’Orso d’argento per il Gran premio della giuria.

Film che si svolge in varie epoche: ai nostri giorni una ragazza intenta a leggere un libro dal titolo Grand Budapest Hotel omaggia la tomba dell’autore nel cimitero della capitale dell’ex stato di Zubrowka (situato da qualche parte dell’Europa centro-orientale). Poi la scena passa agli anni Ottanta, mentre lo scrittore da vecchio è intento a spiegare quale sia l’argomento del libro e come mai abbia deciso di scriverlo. E così lo vediamo più giovane alcuni anni prima varcare la soglia del famoso hotel per un sopralluogo, e qui fare la conoscenza con l’anziano proprietario, il signor Moustafà, che si ostina a tenerlo aperto nonostante l’evidente calo di clienti. In una lunga chiacchierata l’affabile galantuomo rievoca la storia della rinomata struttura negli anni Trenta, quando a gestirla c’era Monsieur Gustave, un abile ed efficiente concierge, il quale prende sotto la sua protezione un semplice e giovanissimo facchino, Zero, fuggito da un Paese asiatico per via di una guerra.
Non che la Mitteleuropa goda più sicuri destini (la guerra non tarderà a scoppiare, anche se trattasi non del secondo conflitto mondiale, ma dell’aggressione di uno stato vicino) ma la nobiltà e la ricca borghesia può sentirsi al sicuro tra i corridoi e le stanze dell’elegante grand hotel, situato sulla cima di una montagna accessibile grazie a funicolari e lontano dal chiasso delle valli.
È un luogo riservato il regno di Monsieur Gustave, che si dedica con passione a ricambiare le profferte amorose delle numerose anziane ospiti, tra cui Madame D., ricca vedova che gli  lascia in eredità, in seguito alla sua improvvisa e sospetta dipartita, un prezioso dipinto. Ma suo figlio impugna il testamento e accusa Gustave di aver assassinato la madre. Il poveretto finisce in prigione, e la verità sarà svelata non prima di rocambolesche fughe, inseguimenti inverosimili e colpi di scena.
Soggetto scritto a quattro mani con Hugo Guinness e sceneggiatura a firma del solo regista, l’abbrivio deriva dall’interesse dichiarato dallo stesso Anderson per alcuni scritti di Stefan Zweig, e più in generale per quella società mitteleuropea che scontava la sconfitta della prima guerra mondiale e la conseguente dissoluzione degli imperi centrali e di tutti gli assetti politico-sociali connessi. L’Europa scossa dall’eco forte della rivoluzione sovietica e dai prodromi dei fascismi, nati come reazione alle minacce di sovvertimento dell’ordine, e che conquisteranno con i loro nazionalismi belligeranti le sorti dell’immaginifico paese di Zubrowka.
Non è questa una nazione da operetta come nella tradizione delle commedie hollywoodiane (o delle comiche di Stanlio e Ollio) che guardavano con apparente invidia alla storia nobile dell’Europa (dato che in esse i rigidi aristocratici vengono sempre vinti dai pratici e affabili yankee). Ma indubbi e voluti sono i richiami al cinema di Lubitsch e alla sua capacità di narrare con ironia di fatti tragici nella realtà. E come per il regista tedesco la critica ha individuato un “tocco” distintivo, così può dirsi per il cineasta texano, ormai in possesso di uno stile, di una maniera fortemente caratterizzata e riconoscibile. E qui, più che altrove, la forma, la messa in scena, il ritmo, le scenografie (sontuose, di Anna Pinnock), i colori (da vecchio libro di favole, di Robert D. Yeoman), i costumi (della nostra Milena Canonero), la commistione con elementi di altri linguaggi (fumetto, disegni animati, illustrazione) esaurisce in sé ogni spessore del contenuto, che diviene semplice pretesto per imbastire una fascinazione affabulatoria limitata al campo delle immagini. E le movenze del Gustave di Ralph Fiennes (bravissimo) sono le stesse di Ridolini o del Chaplin di Monsieur Verdoux, leggiadre, audaci, iperboliche, dinamiche.
I raccordi tra le scene segnano il tempo di andante con brio, senza pause o tempi morti. I caratteri hanno le espressioni caricate dei cartoon, le atmosfere rimandano ai capolavori del noir o della commedia elegante, l’azione non è quella tonitruante degli attuali cinecomics ma quella rilassata e ironica di Tin Tin. Certo l’elemento umano, la dinamica sentimentale che appassiona il pubblico (e che era presente nell’affaire adolescenziale degli scouts innamorati lo scorso anno, ma in misura maggiore nelle pellicole precedenti) sembra affiorare solo nei commossi ricordi del vecchio Moustafà, altrimenti sacrificato all’altare della costruzione ad orologeria del congegno narrativo. E qui c’è lo scarto con gli altri immaginifici della settima arte (penso a Gilliam, Burton, Gondry) che traggono le suggestioni figurative dalle situazioni e dagli stati d’animo messi in scena. Ma è indubbio che Grand Budapest Hotel si situi nel perimetro del divertissement elaborato e ricercato, mai fine a se stesso, che sa evitare la trappola del cerebralismo e della dimostrazione di bravura.
Un cinema della meraviglia e dello stupore, sano antidoto ai vincoli della verosimiglianza che in alcuni casi si trasformano in effetti di gratuito miserabilismo dello sguardo.

 

 

 

 

 

Visioni
Grand Budapest Hotel (The Grand Budapest Hotel)
regia Wes Anderson
con Ralph Fiennes, Tony Revolori, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Saoirse, Ronan, Jeff Goldblum, Willem Dafoe, Edward Norton, Jude Law, Bill Murray, Tilda Swinton
soggetto Wes Anderson, Hugo Guinness
sceneggiatura Wes Anderson
fotografia Robert D. Yeoman
musica Alexandre Desplat
paese Stati Uniti
distribuzione 20th Century Fox
lingua originale inglese
colore colore
anno 2014
durata 100 min.
Avellino, Cinema Partenio, 30 aprile 2014

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