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Wednesday, 07 May 2014 00:00

Città, via, interno

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[…] È questa la pietas verso l'intenzionalità, l'accettazione
del misterioso piacere che ci lega alle cose, nel quale
vibra sempre la ricerca dell'essenza,
della continua correzione, dell'armonia.

(Enzo Paci, 15 aprile 1956)

 

 

 

Città

 

 

Vetro, vetro,
interrompi la discesa
nel calice trasparente.
Sopra, niente. Assemblaggio di nuvole.
Uovo spettrale, sul mare,
hai già tutto generato?
Scorticato, aleggi senza ora,
e io, granello, pure non sono figura.
Vetro, dammi lo spazio
e il mio riflesso:
la pelle si piega e il cemento non si sfilaccia.
Perciò, io e questi miei compagni di ora camminiamo in esso.
Sul suo sfondo sfumato,
l'autobus è già lontano.
Vado nella tromba del suo rumore.
Questa discesa è già il fondo eterno.

 

 

•••

 

 

La palma, dov'era la mia casa,
descrive archi di circonferenza,
produce rumori compositi:
come tutto.
Tutto è in questo blu convesso,
concavo è l'umido dove calco le mani.
I colori non sono delle cose,
sono delle vernici, e ogni settore,
comunque, ricorda l'arancione.
Sotto, forse, c'è il fondo
che Prometeo ha nascosto,
l'amaro eterno naufragio di questo giorno.

Con questo libro aperto
evangelizzo i lampioni e gli agri strascichi.
Pure, versi screpolati,
taciuti e consegnati a questo organo.
Pure, un'eco selvaggia si frange
(non so dove):
pure, questo non sono io - forse sono lei.

 

 

Via

 

 

La forma
della mia mano?
Chiedendo andavo,
scuotevo corpi,
occhi invetrati
d'uno stupore solo antico.
Tra aria verde o grigia andavo.

Ora la mia domanda è come pietra
e il cielo è come stagno.
Sgorga sorgiva fino a te,
o altro fertile di luce.

La tromba dei simboli
si chiude vorticando
sulle nostre spalle.
Qui possiamo sentire
acqua ampia, fuoco pieno,
tempo aperto.

 

 

•••

 

 

Andavo per strada, in antica trasparenza.
Così antica com'è antico sorgere,
e le foglie accanto alla strada sorgono perché tremano.
Nascono, come sgorgare:
vengono dall'ombra che non dico, forse tornano.

Allora nascono,
e lo spazio s'è ammaccato
come un imbuto o altri squilibri.
Allora la strada non è pittura:
ci sono, vivo nei muri duri e nelle macchie nuvolate.

 

 

•••

 

 

Non toccare il mare.
Lascia che s'acchittino steli neri,
travi e profili, e
lascia nell'occhio bianco spirare
cementi severi.

Ma già è sera.

 

Interno

 

 

Più non rammemoro,
sfugge alle mie labbra ferme
il movimento, il vascello divino delle orbite e dei pianeti.
L'ombra inceppa i meccanismi
(dove sono? non più al centro)
e quasi a lato, fuggitivo,
guardo un pianto al muro che scanso.
Ma tutto è aderente sull'occhio,
sul corpo fermo già via da lì
(dove sei, mia grazia?).

Piange.
Un altro piccolo buio la scuote,
la supplica senza saperlo
(forse foglie volano rotte?).
Sono arreso,
impolverato e incartato dal cemento.

Ma bianca stridi e giungi dove non sono,
mi generi senza sforzo allo spazio, al tempo,
al fiore che lontano
esplode or ora dalla terra.

 

 

•••

 

 

Metafisico,
tendi lo sguardo sul mare.

Pensi alla sera,
quando il fabbro ha deposto il martello
e con mani grezze riposa, cinge altre spalle
nel letto bianco.
Quando il mondo s'è stretto nella notte,
solo respiri e circolazioni,
dispersi frinii;
chi pensa, chi lega,
chi vedrà il giorno nuovo?

Scuotiti per scacciare
le sfere luminose.
Forse ribolle,
l'intelletto, acqua, o forse
è questo vento, quello che respiri tu,
respiro io,
respira esso.

Metafisico,
cerca il respiro più fresco.
Sorridi alla tua notte e torna a scrivere.

 

 

 

 

 


NB. Immagine di copertina: Edward Hopper, Night Windows (part.)

 

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