“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 06 May 2014 00:00

Una scontrosa grazia. La poesia di Umberto Saba

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Un cantuccio pensoso e schivo, solitario come una casupola su un’erta, è riservato nella nostra popolosa storia letteraria all’originalissima esperienza di Umberto Saba. Leggendo il grande triestino si ha più che mai la sensazione di spogliarsi dei propri abiti e di infilarsi nei suoi, logori e sofferti, per poi comprendere che, in fin dei conti, gli abiti di tutti gli uomini sono irrimediabilmente resi stinti e lisi dagli affanni della vita e dal peso della storia.

La sua poesia non è uno specchio nel quale egli solo possa riflettersi: ben lo sapeva Vittorio Sereni, che nella poesia Saba sottolinea l’inedita disponibilità dell’opera del poeta a farsi dialogo veritiero con gli altri. Non si tratta, come avviene spesso, di un autobiografismo autoreferenziale, autistico. Nella compilazione di quel romanzo diaristico in versi che è Il Canzoniere, Saba mette il suo cuore a nudo, senza ritrosie davanti al lettore. Descrive i moti della propria anima con inusitata limpidità e chiarezza, sia che la nevrosi, di cui traccerò nelle sue linee essenziali la genesi, lo getti in un inconsolabile sconforto, sia che un momento di felicità inattesa – e per questo motivo più preziosa −  gli renda gli occhi azzurrini un po’ più brillanti.
Rifuggendo ogni difficile ermetismo, ogni trobar clus in odore di compiaciuta e disonesta mistificazione, Saba usa la poesia come uno "scandaglio" che possa scendere sino ai fondali della propria individualità e portare una fiammella tenue nei recessi della mente.
Comprendere la complessità della poetica sabiana è impossibile senza una previa conoscenza del dramma vissuto dal poeta negli anni della primissima infanzia, vista poi, ineditamente, non più come il luogo del candore e della purezza, ma come il luogo di incubazione di nevrosi di là da venire. Il padre, ariano, di carattere gaio e spensierato, aveva abbandonato il tetto domestico prima che lui nascesse e aveva lasciato il piccolo Umberto alle cure di sua madre, un’ebrea cupa e severa che farà sovente sentire responsabile il figlio dell’evento occorsole per colpa o sfortuna. Il poeta gode di una troppo breve parentesi di felicità nel periodo in cui vive con Peppa Sabaz, la balia, la madre di gioia, che gli permetteva di vivere la propria infanzia con la festosa e vivace irruenza di ogni bimbo. Col ritorno della madre, però, che lo ritolse alla balia, tutte queste pulsioni positivamente aggressive conobbero il triste momento della repressione. Persino gli schioppi e i tamburi, i giocattoli teneramente guerreschi presenti in ogni infanzia, vennero banditi dall’austerità materna, alla quale il piccolo Umberto dimostrerà sempre condiscendenza, pur celando dentro di sé un "muto rimprovero" mai sopito. Dal trauma di questa doppia infanzia gli deriva una personalità scissa e il ruolo della poesia diventa quello di tentare di ricongiungerne i lembi, di ricucire la dolorosa dialettica, la "antica tenzone".
Il poeta si giova della psicoanalisi come strumento di scavo interiore. Di essa aveva una conoscenza approfondita e personale, non solo perché il pensiero freudiano conosceva vivace circolazione nella cosmopolitica Trieste, ma perché egli stesso era stato paziente del rinomato dottor Weiss. Anzi, egli disse di aver superato la nevrosi solo nel periodo coincidente con la terapia e molte poesie sembrano celebrare il successo del riscatto, ma la letizia è solo momentanea.
La poesia – questa l’amara conclusione cui giunge – può solo illuminare momentaneamente il buio dell’animo umano, non medicarne le ferite inflitte dalla vita. Le rose non possono nascondere un abisso eppure, malgrado ciò, la realtà acquista pienezza di senso solo se si profila sull’orizzonte della poesia e solo se investigata, secondo i mezzi e le possibilità di ciascuno, con onestà. Essa risulta indispensabile nella conoscenza di sé: ogni mistificazione è un autoinganno che non può in alcun modo riuscire giovevole.
Questa è una delle ragioni per cui il titolo originario del Canzoniere doveva essere proprio Chiarezza, e alla limpidità intellettuale corrisponde quella limpidità formale che è una delle cifre peculiari della poetica sabiana. L’antimodello naturale, alfiere dell’artificiosità estetizzante e ‘disonesta’ è, naturalmente, Gabriele d’Annunzio, cui Saba nel breve scritto del 1911, Quello che resta da fare ai poeti, dice di preferire "i versi mediocri ed immortali" di Manzoni, "il più astemio e sobrio dei poeti italiani". L’antidannunzianesimo militante del poeta triestino non stupisce affatto: un ricercatore del vero, un franco filosofo della quotidianità, non può e non deve cadere nei lacciuoli di una facile musicalità, di una ingannevole e fatua esteriorità, che nasconde solo un decadente vuoto di valori.
Qualcuno ricorderà che il giovane Saba era stato ospite di d’Annunzio e che questi non aveva mantenuto la promessa di raccomandare al proprio editore il poeta triestino, verso cui pure aveva dimostrato o finto di dimostrare una certa intenerita ammirazione. Così ci si può spiegare, non senza malizia, l’antipatia per il poeta abruzzese, e non diversamente l’odio per Benedetto Croce, di cui Saba traccia un ritratto spietato ed amaramente ironico in Scorciatoie e raccontini. Il filosofo idealista, principe della cultura italiana del primo Novecento, oltre ad aver ignorato del tutto il poeta triestino, aveva anche liquidato senza appello la psicoanalisi, che, sarà ormai chiaro, è la chiave ermeneutica fondamentale per comprendere Saba, il quale solo in apparenza è di facile approccio, mentre, come ammoniva Pasolini in Passione e ideologia, risarcendolo di tante miopie critiche, "è il più difficile dei poeti contemporanei". Difficile perché la sua psicologia lo è, perché gli abituali e frusti significati sono risemantizzati da quell’esperienza formativa-deformativa che è il dolore, da cui la fantasia nervosa del poeta è facilmente scuotibile.
Saba, che pure riscoprì nel dolore un amico, non è affatto un cantore sconsolato del male di vivere. Benché sappia che il dolore è immanente a tutti i viventi (tanto da sentire un’eco della sofferenza umana nel belato triste di una capre bagnata dalla pioggia) Saba inclina a intessere con loro un rapporto di amorosa fraternità, rigettando la "divina Indifferenza" montaliana e piuttosto abbracciando la lucida solidarietà proposta dal Leopardi de La ginestra. Saba è un amante irriducibile della "calda vita", di cui egli trova l’espressione più autentica e vitale negli umili, nelle cose semplici e quotidiane (anche in partite di calcio), negli animali che "avvicinano a Dio". Il pensiero degli uomini è corrotto dalle sovrastrutture complicanti e dalla civiltà reprimente: la felicità sta nella via turpe e brulicante, nella vitalità primitiva e spensierata.
Tema cardine della poetica sabiana è il rapporto con la moglie, Lina, nella quale è facile vedere in filigrana la figura della madre. Saba intreccia con lei una relazione controversa, inquieta, vivificante: è per lei la particolarissima poesia A mia moglie in cui ella è paragonata ad alcuni animali (e qui si spegne definitivamente l’eterea donna della nostra tradizione letteraria) oppure la struggente Dico al mio cuore intanto che t’aspetto, nella quale è celebrata la potenza dell’amore, che fa addivenire alla difficile strada della riappacificazione due amanti momentaneamente allontanatisi fra loro, superando ostacoli, titubanze, rancori.
L’amore per Lina, al di là delle complicanze psicoanalitiche di molti testi, è cantato (o narrato) con freschezza ed inedita intensità. Il medesimo senso di leggerezza e di soavità si avverte nella descrizione della figlioletta del poeta, una delicata bambina dagli occhi azzurri e dalla fina ed "estiva vesticciola", simile alla schiuma del mare che biancheggia sulle onde, alla scia azzurra di fumo che esce dai comignoli dei tetti e che il vento disperde, o ancora alle nuvole che si dissolvono nel cielo chiaro. Immagini che esorcizzano la pesantezza della vita, che non è mai dimenticata dal poeta, ma rimane lì anche se non si vede, come la tela di un ragno o un appena percettibile brusio.
Un altro sfondo, che invece spesso si fa sentire con forza, è la città di Trieste, di cui è originalissimo quadro la poesia omonima. Una città appena “redenta”, italiana di geografia e mitteleuropea di spirito, complessa ed umile, graziosissima e scontrosa, incastonata tra il brullo Carso e l’Adriatico selvaggio, non poteva che dare i natali ad un’anima, quella di Saba, inquieta a tal segno che il suo ulissismo, che trova espressione, appunto, nella poesia Ulisse, non può sperare di trovare sollievo e rifugio in alcun porto. O forse non vuole trovarlo, dal momento che la stasi esistenziali è sorella della morte, come ben sapeva Kavafis quando in Itaca, poesia affine per messaggio, proclamava la gioia infinita di entrare in porti sconosciuti prima.
Trieste, dicevo, più che un ambiente geografico dai confini precisi, è un luogo dell’anima dagli orizzonti sfumati, una città che, per le troppe identità che la compongono, pare anch’essa costantemente sul filo della nevrosi, è lo spazio vitale della contraddizione, che ispira ad un tempo nel poeta il desiderio di fondere la propria singola esperienza con la vita di tutti "gli uomini di tutti / i giorni" (come in Città vecchia o in Il Borgo) oppure di ritagliarsi un cantuccio solitario, fatto apposta per la sua vita "pensosa schiva" (come in Trieste). Era la stessa Trieste nella quale si poteva incontrare, magari con la presunta ultima sigaretta tra i denti, quell’umanissimo fascio di incertezze, di ansie, di debolezze e di ubbie che era il signor Zeno Cosini, nato dalla penna di un altro grande conoscitore dei drammi dell’uomo, ugualmente ironico e profondo.
La peculiarità di Saba, che ne fa un emarginato nell’ambito della letteratura primonovescentesca, è l’uso di una lingua vicina ai grandi modelli ottocenteschi (non esclusa l’opera lirica verdiana), dimessa, quotidiana, domestica, però inserita nell’orizzonte di una grande spiritualità. Nell’epoca del dannunzianesimo imperante o delle oscurità espressive di frammentisti vociani e di ermetici, la scelta di "trite parole che non uno / osava", rivissute alla luce dell’universalità, fanno di Saba un poeta materiale e metafisico, corposo e lieve, rude e tenerissimo.
La poesia di Saba, la poesia della scontrosa grazia, è, inoltre, una delle più profonde testimonianze di un umanesimo moderno, finalmente affrancato dall’insopportabile retorica del poeta-Vate o dell’artista come genio isolato e privilegiato. Più di altri Saba ha capito e ha comunicato, con sofferta scrupolosità, che la poesia deve abbandonare ogni torre d’avorio del disimpegno, calarsi nel fango della storia e farsi universale messaggio etico dopo essere entrata in contatto con i detriti dell’umanità. La poesia sabiana da mera terapia, cura privata, igiene individuale – da ottenersi, lo ribadisco, con la "onestà" a oltranza – può mutarsi in schema di comprensione degli altri e in paradigma di civiltà, in virtù di quell’unanimismo del quotidiano che lo distanzia dall’unanimismo eroico ancora topico nella lirica ungarettiana.
Gli eroi sono fuori moda. Nel tempo dell’inautentico e della sofferenza non resta che porsi cristallinamente di fronte alla realtà, accettandone la dolorosa ed insolubile complessità, senza mistificanti presunzioni e sterili odi verso i compagni di sventura che ci affiancano in questa raminga odissea.

 

Umberto Saba
Tutte le poesie
a cura di Arrigo Stara
Milano, Mondadori, 1998,
pp. 1232


Umberto Saba
Tutte le prose
a cura di Arrigo Stara
Milano, Mondadori, 2001
pp. 1530


Umberto Saba

Scorciatoie e raccontini
a cura di Silvio Perrella
Torino, Einaudi, 2011
pp. 194

Umberto Saba
Trieste
a cura di Davide Rossi
Milano, Mimesis, 2013
pp. 44


Pier Paolo Pasolini
Passione e ideologia
Milano, Garzanti, 2009
pp. 561

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