“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 13 April 2014 00:00

Manuale di etologia attoriale

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Subito la scenografia scarna, dove il nero e il vuoto sembrano inghiottire un catino che pende legato ad una corda in fondo, sulla sinistra del palco, ed altri catini messi sul proscenio dove poggiano anche rametti secchi, erbe. Alessandra Fabbri è già sul palco in maglietta gialla e pantaloni neri che si muove con i gesti lenti ed incrociati della ballerina che fa riscaldamento. Quando la luce si affievolisce in sala, lei si avvicina sul palco con i lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo ed inizia a recitare “una storia che mi fa piangere tutte le volte che la racconto”.

È la storia di una pappagallina che perde il suo compagno e fischia la solitudine e l’attesa inutile di chi non tornerà mai più. Dalle note di regia di Davide Iodice la scelta di Alessandra Fabbri in questo ruolo è voluta dalla sua biografia che la vede vivere in campagna dove gli animali sono liberi e anima-ae, esseri viventi come l’uomo. Le luci dai toni gialli che accendono di calore la maglia della Fabbri, la isolano nel buio mentre lei ci mostra l’animale che si lava con le sue alucce, che si pulisce attentamente. Una musica lenta e cadenzata introduce la voce fuori campo della stessa Fabbri che inizia a descrivere come in un saggio antropologico il ruolo dell’attore sul palco, anzi dell’animale da palcoscenico, come si ripeterà spesso. Alla voce narrante corrispondono i movimenti dell’artista sulla scena. L’attore sul palco “fa cose assurde che nella vita non farebbe mai” assecondando il pubblico come una foca ammaestrata. Così l’artista prende una mela da quel catino che pende e gioca con il pubblico lanciandola come se fosse una palla, muovendosi e facendo il verso della foca. Se l’attore non ha vergogna di qualunque cosa faccia sulla scena, allora la Fabbri si denuda completamente è può innestarsi un pene di argilla e simulare di essere altro da sé. In scena tutto si modifica e si trasforma come l’argilla duttile e mutevole. Tutto può diventare bellissimo sulla scena anche se nella vita reale ciò non è vero.
I movimenti in scena, a volte volutamente goffi, più spesso armonici spiegano cosa sia il mestiere dell’attore che vuole separare se stesso, combatte contro il tempo volendo ripetere all’infinito quello che fa. L’attore si sporca le mani, il viso con il suo lavoro, perciò l’artista si bistra il viso di bianco sullo sporco dell’argilla precedente, sporca e si sporca di vino in una danza ebbra in cui la musica accompagna la storia di una decadenza etilica di una ballerina in un vortice di abbandono. Sul palco si assiste ad una sorta di riflessione, di compendio etologico sullo studio dell’animale da palcoscenico, non diverso dal pappagallino. Infatti la narrazione della voce fuori campo si alterna a momenti in cui la Fabbri torna a fare la foca ammaestrata, fondendosi in una sorta di inno al lavoro dell’artista. Che crea dal nulla, che può fare cose impossibili come riportare in vita un pappagallino morto e riportare la felicità alla sua compagna.
Basta scendere tra il pubblico, scegliere un giovane spettatore, cospargergli il viso di crema ed incollarci su delle piume bianche, per un’ultima, delicata danza immaginaria, ma reale.

 

 

 

Mangiare e bere. Letame e morte
drammaturgia, spazio scenico, luci e regia
Davide Iodice
con Alessandra Fabbri
coreografia Alessandra Fabbri, Davide Iodice
costumi Enzo Pirozzi
produzione Interno5
residenze creative Altra Scena Napoli presso il complesso monumentale di San Giuseppe delle Scalze
a cura di Altradefinizione, Officina Teatro San Leucio – Caserta
foto di scena Irene De Caprio
lingua italiano
durata 45’
Napoli, Teatro Piccolo Bellini, 10 aprile 2014
in scena dall’8 al 13 aprile 2014

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