“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 11 April 2014 00:00

Il teatro, la fabbrica

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Uno degli errori più frequenti è quello di considerare La Madre parte del teatro didattico di Bertolt Brecht: non lo è. Brecht, infatti, afferma espressamente che si tratta di un testo “scritto alla maniera del teatro didattico” e, quindi, non facente parte dello stesso ciclo cui appartengono, ad esempio, Il consenziente o Il dissenziente, La linea di condotta, L’eccezione e la regola. In cosa differisce? Nel fatto – sempre parola di Brecht – che “esige degli attori”. Potrebbe sembrare una minuzia ma questo “esige degli attori”, invece, è fondamentale.

I drammi didattici, infatti, vengono interpretati da un gruppo di non professionisti e la loro finalità, prima che di diffondere la posizione dell’autore rispetto a un dato tema trattato, è quella di far prendere coscienza proprio al gruppo di lavoro. Il gruppo di non professionisti lavora sul testo (sovente una sorta di schema quasi vuoto, da riempire con le acquisizioni progressive maturate durante la fase di studio) e, lavorandoci, prende coscienza del tema. “Per qualche anno cercai di lavorare con un piccolo gruppo di collaboratori estranei al mondo del teatro… provammo una forma di spettacolo che potesse influenzare ideologicamente quanti vi partecipavano”. Ecco i drammi didattici.
Per questo sono detti anche “teatro d’uso”: perché sono usati da Brecht come occasione e possibilità di formazione interna, prima che esterna. Per questo non sono principalmente diretti al pubblico ma sono strumento di auto-realizzazione politica. Per questo la loro dimensione non è quella dello spettacolo ma quella del progetto, della prassi interna e laboratoriale, del lavoro teatrale di comunità. D’altronde basta aver letto gli studi di Massimo Castri o Cesare Cases (per fare due nomi tra i tanti) o aver spulciato una delle molte biografie dedicate a Brecht (mettiamo quella di Ewen) per rendersi conto che, in un capitolo, vi sono i drammi didattici e, in un altro, si parla invece de La madre che, sempre non a caso, manca anche nell’edizione dei Drammi didattici pubblicata in Italia da Einaudi.
La Madre è un’altra cosa: testo “scritto alla maniera dei drammi didattici“ (quindi: semplicità visiva, chiarezza del dettato, evidenziazione immediata ed esplicita del tema e della sua messa in discussione, importanza data all’epicità di fattura) “esige degli attori”: è opera perciò rivolta al pubblico, perché sia il pubblico ad esserne influenzato ideologicamente.
Carlo Cerciello non cade nel tranello e comprende la diversità realizzando pertanto uno spettacolo vero e proprio, che sembra avere la finalità di rispettare Brecht e la sua forma-teatro continuando a rivolgere lo sguardo a una platea inevitabilmente contemporanea perché, la platea, continui ad essere investita dell’opera.

La scenografia è una grande carcassa che, nella parte inferiore, costituisce da ambiente plurimo: costituita da pannelli, gradoni, blocchi squadrati e volutamente incolori, si adatta, per neutralità, ad essere un salotto di casa, l’interno di una macelleria, la piazza in cui si festeggia il Primo Maggio. Nella parte superiore, invece, presenta la nuda compattezza ferrosa di una fabbrica: ganci, trespoli, barre orizzontali, reti laterali compatte ci dicono che, per quanto saremo altrove in alcuni momenti dell’opera, la fabbrica rimane il centro, il fulcro, l’ossessione o il totem, il golem, la grande immagine ineliminabile de La madre. Ci spingiamo così a scrivere che la scenografia – nella sua semplicità poderosa, com’è giusto con Brecht – contempla tanto le esigenze teatrali (uno spazio che funga da luogo di scena modificabile, che sia facile da plasmare di volta in volta, addobbato soltanto da pochi oggetti che sono segno, simbolo o icona) quanto svolge una dichiarazione d’avvertenza politica: qui si mette in scena una fabbrica, gli attori che vedrete rappresentano degli operai, state per assistere ad uno spettacolo a cui sta a cuore parlare di operai, dei diritti degli operai, delle condizioni degli operai all’interno di una fabbrica. Che sia chiaro.
Rispettata la propensione brechtiana a usare mezzi primari e specifici perché la scena sia “a dimensione dell’uomo” (se “il destino dell’uomo è l’uomo” anche la scenografia teatrale sarà a sua misura: convinzione, ad esempio, che differenzia Brecht da Piscator), Cerciello veste i suoi attori di scuro, infagottandoli tutti in abiti e soprabiti notturni. Perché? Azzardiamo un’ipotesi, con alta possibilità di errore: perché nella dodicesima scena Pelagia Vlassova – all’operaio che non vuol più saperne di lotte sindacali e di verità politica – dice (rivolgendosi in realtà al pubblico): “State attenti, tutto il mondo annega in un mare di tenebre”.
Ecco: i costumi sembrano queste tenebre che adesso hanno la dimensione concreta della stoffa. Se così fosse avrebbe un senso ulteriore notare un gioco cromatico che – sempre attraverso i costumi – Cerciello forse intende proporre: se le tenebre della condizione operaia sono gli abiti neri, man mano che i costumi si schiariscono ci troviamo dinnanzi a figure meno prossime al mondo operaio. Così il maestro, intimamente marxista ma non ancora apertamente schieratosi, indossa il grigio scuro; così i crumiri indossano abiti beige; così la padrona di casa della decima scena ha sulle spalle un velo nero (richiamo della sua condizione di donna che ha perso il lavoro) ma indossa anche una camicia bianco splendente (emblema della sua condizione di padrona di una stanza, da cui può sfrattare l’inquilina povera). Cromatismo situazionale, che serve a dichiarare appartenenza: più i vestiti sono scuri, più la condizione della singola figura è prossima, vicina, simile o identica a quella degli operai de La madre.
In aggiunta il belletto. Perché così viene esaltato il nero delle vesti. Perché in fondo questi volti appartengono a uomini e donne che vivono serrati all’interno (di case, di fabbriche) senza mai vedere il sole e perché, questo non vedere il sole, significa distanza da un avvenire felice. Perché – in ultimo – il belletto è uno strumento da palco e sottolinea, quindi, che non siamo al cospetto di veri operai ma di attori che recitano operai. Siamo in teatro – dice il belletto – poiché il teatro è il luogo ed il mezzo che Brecht ha scelto per parlare delle fabbriche.

Perché sia doverosamente brechtiana l’opera necessita non di immedesimazione assoluta (o di una falsa immedesimazione ostentata) ma di una palese re-citazione attoriale. Intendiamoci: non significa proporre in assito sagome bidimensionali, prive di spessore o carattere, incapaci di sentire il valore di una battuta; significa piuttosto che l’interprete dichiara che sta interpretando e lo dichiara facendo, nel contempo, testimonianza della propria stessa interpretazione. Come – per dirla ancora con Brecht – “avesse accanto un altro se stesso”, capace di sottolineare, evidenziare, confessare pubblicamente ciò che ha appena detto.
Cerciello rispetta anche questo associando – ai cori (che servono proprio per accumulare consapevolezza, non permettendo allo spettatore di sprofondare nella contemplazione) – un intelligente gioco di a-parte continui, svolti in piena luce, sovente in uno dei due angoli anteriori in ribalta. Faro, luce in pieno volto, figura distaccata dalle altre figure: dichiarazione. Così viene realizzata la prima scena (che serve a Imma Villa/Pelagia Vlassova per informare chi assiste su dove siamo, chi abbiamo in palco, qual è il tema e quale sarà il suo intreccio), così vengono realizzati lembi delle scene successive: Pavel, Smilgin, il maestro, la moglie del macellaio. Tutti hanno il loro momento confessionale, tutti hanno la possibilità di uscire di scena pur rimanendo in scena, di (ri)sottolineare la propria parte, di tornare di nuovo nella recita (nel frattempo bloccatasi) facendola così proseguire.
Non si tratta soltanto di un artifizio metateatrale, sia chiaro. Cerciello comprende che La madre è un’opera sulla conversione, che ciò che realizza e mette a disposizione di chi guarda è innanzitutto la conversione costante di più persone a una causa comune. Ciò che è già avvenuto con Pavel, prima che l’opera abbia inizio, si ripete in palcoscenico, più volte: con Pelagia Vlassova; con Smilgin; con il maestro; con la moglie del macellaio, con la donna povera. Si tratta di uno schema interno che ritorna, continuamente: l’individuo, altro dal gruppo, diffida del gruppo; lentamente vi si avvicina (l’avvicinamento è inevitabile, data la comunanza di condizione e destino), mette in discussione le proprie e le altrui convinzioni (così che il pubblico assista e comprenda, diventi consapevole e scelga), infine accede al gruppo medesimo. Tanto è vero che, per fare un esempio, il ragionamento sulla proprietà di cui Pelagia Vlassova è allieva nella quarta scena torna, pressoché identico, nella decima, in cui ella svolge il ruolo di dimostratrice o insegnante.
Chi era fuori entra dentro, chi è dentro collabora a far entrare dentro chi è ancora fuori.
In questo senso la vera ultima scena de La madre non è la quattordicesima ma la tredicesima, in cui Brecht accenna a una conversione ulteriore: “Che cosa devo fare?” chiede la servetta a Pelagia Vlassova, che risponde: “Da sola non puoi fare niente” per poi aggiungere: “Vieni stasera. Ci sarà a parlare un operaio delle officine Putilov, e potremo spiegarti quello che devi fare”.
La prima conversione (Pavel) è antecedente l’inizio de La madre perché ne è la premessa; l’ultima conversione (la servetta) sarà posteriore alla fine de La madre perché, si spera, sia la conseguenza della messa in scena dell’opera. Nel mezzo le conversioni che abbiamo elencato e che Cerciello rende nella maniera che abbiamo descritto.

Proprio perché La madre è un’opera sulla conversione dell’individuo a una causa comune (o, se si preferisce: una conversione di se stessi alla causa della classe di appartenenza) si nota che vive dello sbilanciamento tra il singolo e il gruppo, tra alcuni e tutti gli altri. Pelagia e gli amici del figlio; Smilgin e la maggioranza degli operai favorevoli allo sciopero; il maestro e gli operai/studenti che si ritrova in casa e via di seguito.
Cerciello rende ciò organizzando un continuo susseguirsi di coreografie, tese a evidenziare aggregazioni e distanze, prossimità e adiacenze, avvicinamenti o contrasti. Otto in ribalta, tre in mezzo scena. Cinque da un lato, cinque dall’altro e una figura sola nel mezzo. Dieci a fare da coro lineare e un personaggio in fondo o in retropalco.
Plastica dimostrazione fisica degli equilibri su cui si regge La madre, l’intuizione di montare-smontare-rimontare gruppi d’attori s’aggiunge ad altre intuizioni visibili: il blocco-immagine; la reiterazione meccanica dei gesti (ad un tempo rimando all’”ordine naturale” brechtiano e allusione alla ripetitività del lavoro di fabbrica); la realizzazione a vista degli ambienti (il riposizionamento di un blocco, un cartello in piena luce, un solo oggetto tipico) o l’utilizzo delle ombre sul fondo, sfruttando un grosso faro posizionato in retroscena (produce icone visive; basti pensare al momento in cui Pavel torna dal carcere e si accinge a bussare alla porta: lo fa tenendo il pugno chiuso e ben alto avvalorando, già per posa, ciò che verrà poi dichiarato esplicitamente: la madre è comunista, la madre è diventata l’anima del movimento).
Si aggiungano particolari più squisitamente metateatrali come l’impiego di barbe posticce; la recita di una recita (l’ingresso della Pelagia alla fabbrica; il colloquio carcerario tra la stessa e suo figlio); la sonora allusione agli eventi (si pensi al divano strappato o alla distruzione di uno specchio, che avvengono per rumore fuori-scena); l’ostentazione di grugni mascherali o l’utilizzo di oggetti pluri-significativi (un lenzuolo, ad esempio, diventa parete che fa sorgere una cucina ma anche emblema di un letto lì dove, poco prima, v’erano soltanto dei gradini) e si comprenderà quanto Cerciello abbia lavorato per rispettare la forma de La madre, pur riformandola personalmente.
In tal senso l’immagine della Vlassova colpita da un crocifisso non sembra essere un inutile orpello registico o un’aggiunta gratuita e ideologica, ma il frutto di una più attenta aderenza al testo medesimo, nel tentativo di renderne alcune sfumature nascoste: a colpire la madre è quella stessa proprietaria che tiene stretta la Bibbia, che alla battuta “i suoi ragionamenti” (alludendo alla Vlassova), in scena fa il segno delle corna e che pronuncia la frase “un bolscevico è un diavolo”. Ecco il perché del crocifisso.
Così come è anche giusto soffermarsi sull’ultima immagine de La madre di Cerciello: colui che ha interpretato il custode della fabbrica entra da destra e, mentre Pelagia Vlassova s’appoggia alla bandiera rossa così come chi è stanco s’appoggia alla propria stampella per rimanere in piedi, egli serra l’ingresso alla fabbrica con due catene: ne viene un intreccio a cui appendere il cartello “Chiuso”.
Diventa difficile pensare che questa scena significhi irrilevanza data agli ideali e agli argomenti appena esposti sul palco. Piuttosto chi scrive osserva un particolare: gli attori/operai rimangono a mezzo palco, all’interno della fabbrica; le luci sui loro caschi sono accese, il loro sguardo è ancora fiero, diretto; la loro posa risulta ferma, unita, compatta. E se fosse un rimando agli operai di oggi, costretti a presidiare o occupare le fabbriche per far rispettare i propri diritti? Se è così allora il cartello “Chiuso” indicherebbe non l’abbandono di certe idee ma la confermata aderenza a queste stesse idee. Si pensi, in tal senso, alle note dell’Internazionale, all’accenno puramente chitarristico di Bella ciao, a L’Avvelenata di Guccini. Si pensi al coro detto guadagnando i gradoni laterali, mentre la platea viene investita dalle luci di scena e dalla voce degli interpreti. Si pensi alla sottolineatura di battute quali “Siamo alle soglie di una delle più gravi crisi economiche che il nostro Paese abbia mai attraversato” o “È o non è una guerra di liberazione?” e si comprende che si tratta di una serie di scelte che servono a dire proprio che – in fondo e nonostante tutto – ciò che Brecht ha raccontato ha una sua veridicità contemporanea.

Una nota va fatta in merito all’ironia presunta o effettiva contenuta da La madre. “Non potreste scrivere in maniera un po’ più divertente il vostro giornale?” chiede il maestro ed è un’esplicita dichiarazione d’intenti giacché Brecht tenne sempre in gran conto l’espressione piacevole di contenuti spiacevoli. “Così rappresentammo il dramma” scrive lo stesso Brecht e “non fu meno meno gioioso e gaio” di quanto fu “misurato nelle cose tristi”. Cerciello comprende che la gaiezza cui allude l’autore appartiene quasi interamente alla parte centrale dell’opera e, precisamente, alle scene che hanno per co-protagonista il maestro: l’ostentazione e la sparizione del ritratto imperiale; la rumorosità fastidiosa della stamperia casalinga o battute quali “Da quando in qua la mia biancheria parla mentre è stesa ad asciugare e da quando in qua le mie camicie bevono tè?” fanno di questa figura il portatore (anche) del divertimento di trama. Per questo la regia aggiunge divertimento alla scena dell’istruzione casalinga facendo del gruppo di allievi/operai una combriccola discola, parzialmente disattenta, segretamente vivace: “No, questo chiediglielo tu” o “Lo stai facendo arrabbiare” sono aggiunte testuali dette sottovoce proprio per acuire la parziale ilarità momentanea.

In ultimo gli interpreti. Per comprendere la qualità recitativa de La madre basta fissare gli occhi sgranati di Imma Villa quand’è intenta a parlare alla platea. Non si facesse caso agli occhi si noti allora la curvatura della schiena, con cui stanca e deforma la figura materna. Se anche questo dovesse sfuggire allora non resta che affidarsi alle micro-movenze delle dita, che riescono a trasmettere – ad esempio – insopportabilità (una mano che stringe ossessivamente l'altra mano) mentre il poliziotto rovista e rovina la casa o il senso di disagio (i pizzichi dati alla stoffa del cesto porta-vivande) quando è indotta al confronto argomentativo con Smilgin. Segue Imma Villa un gruppo d’interpreti che rivela – con sfumature differenti, dati i ruoli differenti – una compatta omogeneità recitativa, compartecipando con meticolosa precisione alla scientifica organizzazione della resa teatrale. Ne viene una presenza collettiva calibrata al millimetro, attenta a non aggiungere inutilità gestuali, schiva di mosse superflue o puramente decorative. Costruttivismo recitativo, potremmo scrivere, in ossequio agli anni Trenta russi e tedeschi, tra singole capacità ritmometriche e attenzione al lavoro d’insieme.
Gli applausi finali ne sono il premio. Meritato.

 

 

 

 

NB. A corredo dell'articolo immagini che fanno riferimento ad alcune delle messinscene precedenti, i cui fotografi di scena sono stati: Max Capodanno, Pino Finizio, Andrea Falasconi, Costantino Mauro. Tutti regolarmente citati dalla testata, nelle gerenze e nei tag d'articolo, essendo impossibile spesso risalire agli autori dei singoli scatti.

 

 

 

La madre
di Bertolt Brecht
regia Carlo Cerciello
con Imma Villa, Antonio Agerola, Cinzia Cordella, Roberta Di Palma, Marco Di Prima, Annalisa Direttore, Valeria Frallicciardi, Michele Iazzetta, Cecilia Lupoli, Aniello Mallardo, Giulia Musciacco, Antonio Piccolo
scena Roberto Crea
musiche originali Hanns Eisler
drammaturgia musicale Paolo Coletta
costumi Anna Ciotti, Anna Verde
trucco Gennaro Patrone, Imma Ferrari
fotografi di scena Max Capodanno, Pino Finizio, Andrea Falasconi, Costantino Mauro
produzione Teatro Elicantropo, Anonima Romanzi, Prospet
durata 1h 30'
Napoli, Sala Assoli, 9 Aprile 2014
in scena dall'8 al 13 Aprile 2014



 

 

 

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