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Monday, 14 January 2013 01:00

Ucciderò Roger Federer (parte 9)

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9. “Il mondo cambierà!”

Il tragitto che avrebbe condotto il piccolo signor F nella sua calda e modesta abitazione fu costellato da una serie di piccoli inconvenienti tipici di quando si torna a casa un po’ frastornati, di quando insomma, come si è soliti dire con un’immagine che mantiene intatta il suo fascino e la sua suggestione, si è alzato un po’ troppo il gomito.

Infatti fu proprio il gomito destro a dare un primo grande problema al nostro eroe, proprio perché nel momento stesso in cui aveva deciso di passare tra due motorini parcheggiati in maniera indubbiamente fantasiosa sul ciglio di quella strada in salita che lo avrebbe ricondotto nella sua tana – e aveva deciso di passare lì in mezzo per guadagnare il marciapiede e una salita più tranquilla senza motorini che gli scorazzavano intorno, insomma per concedersi una salita in tutta pace e, addirittura, in tutta serenità – proprio quando oramai con torsioni a dire il vero un po’ comiche a vedersi e dopo aver fatto anche un saltello all’improvviso per evitare di sporcarsi il pantalone di grasso sembrava essere riuscito nel suo arduo compito, una piegatura del suo giubbino ahi lui! si impigliò in una sporgenza di uno dei due motorini e visto che il piccolo signor F, come si è appena detto, stava compiendo un saltello, il risultato fu che uno dei motorini, il più piccolo e leggero, si accasciò su un lato producendo un fracasso inaudito anche se, a onor del vero, il piccolo signor F era riuscito con un’azione e un movimento degnissimo e istintivo a liberarsi e a non precipitare sul motorino, cosa che, se fosse accaduta, lo avrebbe sicuramente condotto in un tale stato di prostrazione morale da non permettergli di chiudere occhio quella fondamentale notte. Quando cominciò a sentire una voce gutturale alle sue spalle, voce comparsa da una pizzeria che lì vicino andava trasmettendo la partita di calcio del Napoli, momento di aggregazione umana e di disgregazione morale, voce che forse a ragione forse no sbraitava circa la stupidità del genere umano, dicendo che soltanto un imbecille (e qui usiamo una forma di censura verbale, le parole, e lo sa benissimo chi vive a Napoli, in queste circostanze riescono a essere ben più efficaci e, per così dire, variopinte) poteva fare una cosa del genere e che se il motorino si fosse in qualche modo danneggiato, gli stessi danni se non peggiori li avrebbe ottenuti sul suo corpo (preferiamo non specificare le parti del corpo citate dall’energumeno) colui che aveva causato l’incidente, che ci mancava soltanto questo in quella serata e che non bastava che il Napoli calcio stesse perdendo la terza partita di fila, insomma quando il piccolo signor F sentì tutto questo, cosa che lo scosse dal torpore alcoolico nel quale era ancora immerso, non trasalì come si potrebbe immaginare bensì ebbe un importante moto di orgoglio, quasi lo sentiva salirgli dal duodeno, rinforzarsi nello stomaco e, un po’ più evanescente, risalire fino alla zona del cervello deputata alla parola e al discorso razionale, che però si consolidò in un semplice: “S-scusi…”, espresso nella forma più timida possibile e con una voce resa stridula dall’alcool e dal fatto che non parlava da ore, uno “S-scusi…” che sembrava più un gridolino disperato che non un’espressione razionale.

Il piccolo signor F se la cavò però proprio bene, non solo perché il motorino non palesava danni rilevanti, almeno alla prima occhiata, ma soprattutto perché, quando l’energumeno già roteava convulsamente le grosse mani e si stava avvicinando in maniera piuttosto minacciosa al nostro eroe, il quale intanto era ripiombato in una sorta di stato catatonico dovuto forse alla mescolanza di adrenalina e alcool e sentiva pulsare il sangue veementemente nelle tempie, proprio in quel momento un enorme boato con conseguente rumore di stoviglie capovolte o addirittura fracassate a terra si era alzato dalla pizzeria e dai bassi nei dintorni, a segnalare che il Napoli calcio finalmente aveva fatto un gol, un grandissimo gol come già si sentiva commentare urlando, anzi “un Dio di gol”, espressione per nulla blasfema ma che anzi elevava la divinità a immagine iperbolica di una prosaica ma coinvolgente attività umana, tutto ciò, il gol il boato e il resto furono la ragione per la quale l’energumeno si era allontanato immediatamente gridando e ridendo e di corsa si era infilato in pizzeria a godersi le immagini e a ringraziare tutta una serie di santi e madonne per quanto era accaduto.

Sorvolando su alcuni altri piccoli incidenti, come il fatto che il nostro eroe aveva immerso il piede in grosse e semiliquide feci di cane – quei due “maledetti” (questo era l’aggettivo che il piccolo signor F era solito usare quando li vedeva liberi e gioiosi scorazzare nei dintorni) Dogo di Bordeaux che erano la gioia dei loro padroni così come erano la causa di tanti litigi di quartiere – e il fatto che aveva preso una storta alla caviglia destra (un lato destro indubbiamente sfortunato in quella serata) nel tentativo di evitare di sporcarsi il pantalone di feci facendo un comune movimento, comune soprattutto per chi come il nostro eroe era brevilineo, cioè aveva gambe in proporzione al busto piuttosto corte, che può portare un piede, mettiamo quello destro, a sfiorare, e in questo caso a sporcare irrimediabilmente, la gamba sinistra del pantalone, specialmente quando questo è un po’ troppo largo, insomma sorvolando su questi piccoli incidenti, in definitiva più comuni di quanto si possa credere, l’ultima impresa che attendeva il nostro eroe era quella di aprire la porta di casa. In realtà la serratura dava sempre problemi, la chiave non soltanto faticava ad entrarvi a causa probabilmente di una leggera deformazione della fessura dovuta ai tentativi rudimentali di “aggiusto” compiuti dal padrone di casa con un grosso martello e con poca, indubbiamente poca, perizia, ma soprattutto, una volta entrata la chiave, bisognava con molto tatto e sensibilità, con leggeri tocchi della mano e con la prontezza giusta nel cogliere l’attimo, trovare la posizione giusta in cui era possibile far scattare la serratura e aprire finalmente quella “dannata” porta. Ora, quell’operazione riusciva con discreta facilità al piccolo signor F, a tal punto che, a chi non fosse a conoscenza degli enormi difetti di quella serratura, sarebbe sembrata né più né meno che una normalissima porta e dei normalissimi gesti, ma quella sera tutto ciò non fu così semplice. Il piccolo signor F provò decine di volte, a un tratto diede un pugno nella porta (con la mano destra) in segno di stizza, e lo diede proprio nel punto in cui si trovava la testa di uno spillo conficcata nel legno della porta a fare da supporto a eventuali decorazioni natalizie o di buon augurio, non sentì granché dolore (miracolo dell’alcool) e così, proprio perché non se ne era accorto, avrebbe poi sporcato quel pantalone che tanto coraggiosamente aveva difeso dalle macchie di feci, poi si sedette per alcuni minuti su un gradino, con la testa sprofondata nelle mani in una profonda meditazione più vicina al sonno che non alla veglia, infine scattò in piedi, infilò come se nulla fosse stato la chiave nella serratura, che immediatamente (e venendogli incontro, se la si volesse umanizzare) scattò e permise al nostro eroe di rifugiarsi nel suo covo.

Il piccolo signor F barcollava decisamente e dovette subito appoggiarsi alla parete che separava il minuscolo ingresso dalla piccola stanza che fungeva da salottino, studio personale e sala da pranzo. Difficile sarebbe ricostruire il tempo che il nostro eroe trascorse immobile in quella posizione, con il braccio piegato e appoggiato alla parete e la testa conficcata lì in mezzo. Gli occhi, sprofondati nell’angolo del gomito, si chiusero immediatamente senza però concedere il minimo riposo perché facevano roteare paurosamente tutti quei minuscoli schizzi di luce che si imprimono solitamente nel fondo della retina evitando così che gli uomini tutti possano fare esperienza del buio assoluto e facendo sì che, in quell’uomo particolare che va sotto il nome di piccolo signor F, quello che comunemente definiamo un giramento di testa fosse specularmente anche un giramento di stomaco.

Dopo essere stato in quella posizione un bel po’, il piccolo signor F si riebbe (lo stomaco intanto resisteva tenacemente a ogni sforzo di rigetto) e si avviò macchinalmente verso il computer, pigiando il tasto d’accensione e incantandosi, lì in piedi, dinanzi a tutte quelle immagini che si producono sullo schermo quando il computer dà avvio al caricamento del sistema operativo. Furono momenti interminabili, una dilatazione insopportabile per il nostro eroe che ebbe anche un piccolo gesto di stizza riguardo alla lentezza con cui quelle operazioni venivano svolte dal suo computer.

Intanto il piccolo signor F ingannò l’attesa andando a prendersi un bel bicchiere d’acqua, ma, accorgendosi che non bastava, decise di riempire una bottiglia di plastica, che non aveva ancora accartocciato per buttarla nel recipiente della differenziata, per portarsela vicino alla sua postazione.

Quasi automaticamente il nostro eroe avviò il suo motore di ricerca preferito e prima che potesse dedicarsi ai suoi siti d’informazione (aveva visto l’ora, erano appena le dieci e poteva dunque darsi alla sua attività preferita, almeno per una mezzoretta, prima di doversi costringere a dormire in vista del concorsone del giorno successivo), appoggiò nuovamente la testa tra le braccia chiudendo nuovamente gli occhi e sprofondando in uno stato di profonda meditazione, quella in cui i pensieri diventano immagini e le immagini a volte si trasformano in parole e discorsi.

Si trovò così all’improvviso all’interno di una enorme sala, una sala di cui non riusciva a scorgere la fine ma nemmeno definire con precisione dove iniziasse, la sala era arredata con un numero infinito di postazioni, che consistevano in una minuscola scrivania che a tratti aveva la fisionomia arrugginita e sporca dei banchetti del suo vecchio liceo, un libro dall’aspetto antico, con rilegatura preziosa e con alcune parole incise in oro che dava l’idea di pesare parecchi, forse troppi, chili, alcuni fogli bianchicci con strani segni conficcati sopra come in sovraimpressione e un numero imprecisato di penne di cui una per così dire “classica”, vera piuma di chissà quale uccello con anche un piccolo calamaio a forma di tigre con due piccoli punti rossi, gli occhi della tigre, che lo attiravano morbosamente. Se all’inizio ciò che aveva provato era stato un profondo senso di abbandono e solitudine – sentiva infatti un vociare a volte accalorato di persone ma non riusciva a scorgerne neanche una – e quasi come un sentimento di disperazione che gli gonfiava gli occhi indolenziti dalla luce forte che ora sembrava emanare dalle lontanissime pareti che pur dovevano esservi in quella gigantesca sala, quando poi si trovò seduto nella sua postazione si accorse che dinanzi a lui, alle sue spalle, a destra e a sinistra, tutti quei banchetti, che ora davano l’idea di una postazione da falegname, rigurgitavano di persone a tal punto che in alcuni posti sedevano due tre e a volte quattro persone che gli sorridevano e gli rivolgevano la parola chiedendogli in continuazione “ed allora?”.

Poi la sala assunse un aspetto più ordinato e comparvero una serie di personaggi dall’aspetto indefinibile che, libro alla mano – libro straordinariamente grande a tal punto che doveva essere retto da circa quattro cinque persone, cominciarono a spiegare tutta una serie di importantissimi dettagli necessari al perfetto svolgimento della prova. In primo luogo si spiegava come andava posizionata la “x” della risposta ritenuta esatta all’interno del quadratino deputato (cosa che fece capire al piccolo signor F di trovarsi già al concorsone), poi, in ordine, come loro non avrebbero dovuto produrre alcuna sbavatura all’infuori di suddetto quadratino, il fatto che l’angolo che i bracci della crocetta dovevano formare tra di loro, affinché la risposta fosse accettata come valida dal computerone che le avrebbe analizzate, doveva essere calcolato attraverso una semplicissima equazione (“oohh”: grido di stupore della massa intera), il fatto che, purtroppo, era necessario che l’angolo fosse esattamente quello anche se c’era comunque la possibilità di “gioco” di un paio di gradi, pena l’esclusione senza possibilità di ricorso, del fatto che le risposte proposte per ogni domanda fossero a seconda della complessità e dell’argomento da quattro, le più facili, a sedici, le più difficili (scroscio di applausi), che quando le risposte erano in un numero maggiore di dieci vuol dire che quella esatta era percentualmente quella che equidistava da tutte le altre (“oohh”: grido di stupore della massa intera) e che, comunque, il regolamento prevedeva fino a quindici risposte esatte, per cui a volte, a discrezione del candidato, poteva essere segnata anche soltanto quella non esatta, ma che per farlo era necessario, cosa che era stata pensata per venire loro incontro, inscrivere una crocetta con un angolo dei bracci di circa dieci gradi maggiore (scroscio di applausi), che il tempo per ogni risposta era calcolabile nell’ordine dei venti secondi e non di più, che d’altronde, ancora per aiutarli, la risposta qualora non venisse data nel tempo consentito scompariva dal foglio insieme alla domanda (“oohh”: grido di stupore della massa intera), che loro avevano dinanzi i fogli con le 360 domande, un po’ come se fossero una per ogni giorno dell’anno (“eheh”: risate di qualcuno nell’angolo in fondo a destra), il fatto che bisognava ritrovare sul librone che avevano sulla postazione, librone che, consigliava l’uomo che parlava e che vestiva una sorta di divisa color kaki, sebbene ricoprisse ben più della superficie piana della scrivania poteva essere tranquillamente appoggiato sulle gambe in maniera tale che l’angolo così creato lasciasse un po’ di spazio libero per lavorare con penna e foglio alle risposte, le domande insomma andavano cercate su quel librone attraverso l’utilizzo di un semplice algoritmo che sarebbe stato consegnato loro non appena il tutto sarebbe stato per cominciare (scroscio di applausi), che non poteva essere concesso loro di andare in bagno perché bisognava che il tutto si svolgesse nella massima serietà e senza alcuna possibilità di aiuti dall’esterno (“bene!” si sentì gridare da qualche parte) e che, per evitare inconvenienti legati all’alto grado di tensione che ogni esame porta con sé, avevano in dotazione un catetere a testa che poteva essere facilmente estratto da una piccola apertura sul lato sinistro della postazione (scroscio di applausi) e che lui avrebbe atteso che tutti, proprio tutti, lo infilassero, pena l’esclusione dal concorso (il piccolo signor F, inorridito e ansimante, maneggiava il tubo cercando di capirne il funzionamento e guardando a destra e a sinistra cercava di capire come fare a inserirlo e fissava la ragazza che alla sua destra, senza alcuna vergogna, aveva tirato su la gonnellina e aveva spostato gli slippini di Hello Kitty e con un volto serio e compunto si dava da fare per il completamento dell’operazione e l’uomo che alla sua sinistra, aperta la patta dei pantaloni, maneggiava il suo membro in maniera tale da rendere più semplice l’inserimento), che per quanto riguarda le feci, che spesso, come sosteneva l’uomo che dava le istruzioni e che ora vestiva alla marinaresca, in situazioni del genere sono liquide (“eheh”: risate di qualcuno nell’angolo in fondo a sinistra), bastava abbassarsi i pantaloni e/o alzarsi le gonnelline (il piccolo signor F notava che tutte le donne, sia le ragazzine sia alcune straordinariamente mature, vestivano dei gonnellini pieghettati color arancione e che tutti gli uomini, lui compreso e soltanto ora se ne rendeva conto, vestivano una sorta di divisa color fango), premere un pulsante color ocra sull’angolo della sedia in maniera tale da far scattare un’apertura all’altezza grossomodo dell’ano per permettere l’evacuazione anche senza doversi alzare dalla postazione e soprattutto senza perdere tempo prezioso per le risposte (“bene!” si sentì gridare da più parti), che si trattava di un sistema di smaltimento di rifiuti organici all’avanguardia in Europa, che tutto quello che avrebbero prodotto a causa della tensione di quella prova sarebbe finito attraverso un sistema idrico ipermoderno in un luogo deputato alla trasformazione di tali residui in ottimo concimante per le terre più disagiate del Sud del Mondo e che in un certo senso, essendo tutta questa procedura veramente la più innovativa che si potesse pensare, era necessario sottolineare nuovamente che “il mondo ci sta osservando” e non si può fare cattiva figura (“oohh”: grido di stupore della massa intera), che si sarebbe dovuto soltanto attendere l’arrivo del Super-Commissario per gli affari costituzionali e concorsuali per dare avvio alla prova e che nell’attesa era consentito consumare qualcosa da mangiare, qualora se ne sentisse realmente la necessità, e che i cibi consentiti erano in vendita in alcune macchinette poste ai quattro lati della sala, e che, infine, qualora qualcuno fosse sorpreso a mangiare o bere qualcosa durante la prova, sarebbe stato immediatamente espulso dalla sala e cacciato via in malo modo (scroscio di applausi, gridolini di gioia, piccole scene di isteria collettiva).

Il signor F aveva gli occhi sgranati, si girava ad ogni lato e vedeva figure (più o meno) umane con i volti trasfigurati (“un po’ come le immagini dei santi in estasi” rifletteva) e non riusciva a rendersi conto dell’euforia che tutta quella gente poteva provare nel partecipare a un concorso in cui venivano violati i più elementari diritti umani. Ma mentre rifletteva su tutto ciò la sala aveva anche cambiato aspetto, ora al fianco di ogni postazione si trovava un soldatino che si sarebbe detto una copia gigante di quei piccoli soldatini di piombo che si usavano il secolo scorso come giocattoli per bambini, soldatini che respiravano e che ogni tanto mormoravano una qualche preghiera subito dopo aver appoggiato una grossa baionetta e il fucile di ordinanza a terra, il piccolo signor F si chiedeva addirittura se quegli uomini in divisa fossero realmente uomini, perché così come erano, tutti esattamente uguali gli uni agli altri, davano realmente l’idea di essere stati acquistati in blocco all’Ikea.

Il piccolo signor F ebbe allora un’idea fulminante, il suo volto si contrasse, il sopracciglio si arcuò, le sue mani nervosamente manipolavano il calamaio con gli occhi della tigre. Nella sua mente cominciarono a sovrapporsi immagini di antichi combattimenti per la libertà e gli ritornavano in mente le parole di quel tizio strano che si era spacciato per suo vecchio amico, quel tizio che aveva incontrato al bar e che ora era seduto nella postazione al suo fianco gemendo dal dolore per il catetere estremamente grosso che aveva infilato, e così ricordava espressioni come “Uccidere Roger Federer è l’unica cosa che conta per me, chiaro?” o “Uccidere Roger Federer è l’unica, forse l’ultima, possibilità che abbiamo” e “non ti piace il caldo fragore e i corpi a brandelli?”. Fu tutto un intreccio di pensieri nell’animo del nostro piccolo eroe, fu tutto un intreccio di ricordi e mescolamento di scene di vita vissuta, dal taglio mentre si faceva la barba nella sua modesta abitazione e al conseguente combattimento con il sangue che lento ne sgorgava, fino a quella giusta giustissima ubriacatura in quel locale dove quell’uomo, quel suo amico, quella sorta di messaggero gli aveva preparato il cammino, che si trattava in poche parole di prendere la vita nelle proprie mani e di lavorare in vista di se stessi e di tutti, di non lasciarsi vivere, di non lasciarsi dominare da quelle patetiche figure che dominano la realtà, da quei viscidi serpenti e dalle loro azienducole, dalla loro musica per frastornare, dallo sfruttamento e dal rimpianto, di non lasciarsi dominare da tutto e tutti per poi rimpiangere la propria esistenza chiacchierando con il proprio miglior amico, il signor Risentimento, in poche parole tutto si componeva nella mente del nostro eroe come una sorta di filo del destino, tutto quello che aveva vissuto in quella che oramai considerava una giornata straordinaria, tutto aveva avuto un senso, che tutte le vite erano come collegate da un filo sottile e di come le esperienze che aveva fatto altro non fossero che una sorta di messaggio, un tentativo di fargli prendere coscienza, che lui, infine avrebbe potuto divenire l’uomo che il destino attendeva da tempo. Tutto questo pensava il nostro eroe e tutto si svelava nella sua cruda verità, tutto assumeva un senso, la sua vita era ora la cosa più importante che il mondo avesse prodotto.

E così accadde tutto in un attimo, il piccolo signor F con un gesto della mano destra sfilò il catetere dal membro, con la mano sinistra afferrò il fucile che intanto il soldatino aveva appoggiato sul lato della sua postazione, fece saltare la testa a quell’omino di piombo con due tre colpi di fila, cervella e sangue bagnavano il suo viso, il suo corpo e la sua postazione, una pozza di sangue atro si allargava sempre più ai suoi piedi, sentiva di sentire una gioia immensa, le sue mani non tremavano e il suo pensiero diveniva duro e potente, la sua decisione così come il suo membro era in erezione, c’erano grida ovunque, grida miste di piacere e orrore, cioè grida perfettamente umane, riusciva a saltare da una postazione all’altra con un’agilità di cui non credeva di essere capace, si stupiva il nostro eroe della prontezza con cui riusciva a evitare i colpi che gli altri soldatini gli sparavano contro, lui invece non mancava un colpo, a ogni testa che riusciva a far saltare gridava “viva la rivoluzione!”, a ogni cervello marcio (sì! erano cervelli marci e ricoperti di muffa secolare) che imbrattava la sua divisa ripeteva “il futuro è nostro”, a ogni nuovo candidato che inforcava il fucile ripeteva “il mondo cambierà!”, molti candidati oramai avevano deciso di combattere, strappavano i fucili ai soldatini, era tutto un sibilare di colpi nell’aria, la sala era immensa e si conquistavano sempre più postazioni, certo qualcuno stava cadendo, non tutti i colpi dei soldatini potevano andare a vuoto, c’era qualche candidato che perdeva fiducia nell’azione, c’era qualcuno nascosto al di sotto delle postazioni che codardo sperava di non essere visto né dagli uni né dagli altri, ma intanto si riusciva ad avanzare, il piccolo signor F era il capo indiscusso di questa rivolta popolare e poteva ascoltare – perché intanto una radio in filodiffusione raccontava la rivoluzione in ogni dettaglio – che anche in altre zone del mondo i guerriglieri stavano prendendo il potere e che Roger Federer stava per essere fatto fuori, che commando di rivoluzionari oramai stavano prendendo il sopravvento in molte città e che già si costituivano i governi provvisori, ma il momento decisivo che avrebbe posto fine a tutto quel mondo e che avrebbe regalato una realtà migliore, il momento decisivo, la “palingenesi”, la rinascita, la possibilità di una realtà perfetta e di una bellezza mozzafiato si giocava a Napoli, durante le prove del concorsone, lì bisognava uccidere Roger Federer e che a capo di quella rivolta si era messo un giovane uomo dal coraggio immenso, capace di far saltare teste e arringare folle contemporaneamente, la sala intanto si era ancora una volta trasformata, nel senso che cominciavano a comparire porte e altre sale e ancora porte e poi corridoi e infine ancora altre sale, il piccolo signor F avanzava, a volte si trovava solo, a volte aveva al suo fianco la barista un po’ troppo attempata per lavorare ancora a serata, a volte si scambiavano baci appassionati, più spesso combattevano, infine con un calcio il piccolo signor F sfonda una porta e dinanzi a lui si ritrova Roger Federer in persona e mentre alza il fucile per prendere la mira e compiere ciò che andava compiuto, Roger Federer comincia a sorridere e dalla sua bocca emana un odore di gomma bruciata ma soprattutto un suono, prima un fruscio sempre più forte, poi un rumore come di un piccolo motore, infine di una ventola di un computer vecchio e affaticato e così, come se nulla fosse stato, tutto svanendo e lasciando acido in bocca, il membro in erezione, un mal di testa feroce, nessun ricordo del sogno, il piccolo signor F si ritrovò seduto dinanzi al suo computer e un po’ macchinalmente digitò sul motore di ricerca la frase “Ucciderò Roger Federer”.

E non avrebbe mai pensato di trovarsi dinanzi a questa notizia: “C’è una clamorosa svolta positiva sulle minacce ricevute a Shanghai da Roger Federer. “Blue Cat”, l’anonimo frequentatore di Internet che ieri in un sito aveva scritto “il 6 ottobre ucciderò Roger Federer”, è tornato in Rete, ma questa volta per le scuse: “Sono Guru Blue Cat. Sono terribilmente dispiaciuto. Stavo litigando con i tifosi di Federer e allora ho scritto qualcosa di stupido… Spero che gli organizzatori possano capirmi, perdonatemi e se possibile inviate le mie scuse a Federer e alla sua famiglia”.

Fu così che il nostro piccolo eroe ebbe l’ultimo sussulto della giornata, sarà stato l’alcool, sarà stata la stanchezza, ma il piccolo signor F accettò quella notizia così come aveva accettato qualsiasi altra cosa nella sua vita, con pacata rassegnazione e silenziosa necessità di proseguire nel suo cammino, certo un po’ ci aveva puntato su quell’espressione, “Ucciderò Roger Federer”, un po’ aveva sperato che a partire da quella che, evidentemente a torto, gli era sembrata una verità, lui avrebbe potuto cambiare qualcosa perlomeno nella sua vita. Questo non era accaduto e visto che il nostro eroe era in fondo in fondo un sentimentale, soprattutto quando beveva un po’ di più, si ritrovò a svestirsi nella sua camera da letto in maniera automatica come preso da una quieta disperazione che gli metteva in disordine le passioni e le sensazioni, si trovò poi dinanzi allo specchio del bagno a guardare i suoi occhi che tendevano a gonfiarsi di grosse lacrime, restò a guardarli un po’ come se appartenessero a un altro, come se sentisse l’obbligo di partecipare alle emozioni che andava provando un altro, restò immobile ancora qualche secondo mentre lasciava crescere contemporaneamente la dimensione sentimentale della sua esistenza, quella che faceva di lui un personaggio toccante, quella sulla quale lui giocava quando voleva ricevere affetto da qualcuno, e quella ironica, quella che faceva di lui un personaggio di intelligenza inaspettata, quella con la quale lui giocava nel tentativo di sopravvivere in quei tempi veramente duri per chi come lui altri non era se non un normalissimo e tranquillissimo piccolo borghese. Si trovò anche a riflettere in maniera disordinata sulla sua vita, gli episodi si accalcavano e restavano pigiati, se non schiacciati, come gli spettatori di un grande e importante concerto che si svolge però in una piccola e semichiusa piazza, il tutto si determinava come una specie di resa dei conti contemporaneamente con se stesso e con un altro, e a innervosirlo era soprattutto quell’altro che nello specchio si disperava e non riusciva (o non voleva più) combattere, immaginò (come gli capitava spesso nelle sue fantasticherie) la possibilità di un suicidio, cosa che in linea teorica poteva anche attrarlo come potenza significante del gesto ma che poi, nel momento in cui andava pensata la realizzazione pratica, si disperdeva automaticamente, ciò che lo affascinava in particolar modo del suicidio era immaginare il dolore e la disperazione degli altri al momento della sua dipartita, la morbosità di questa costruzione mentale spesso lo aveva anche turbato ma in certe occasioni non ne poteva proprio fare a meno, sorrise infine allo specchio mentre usciva dal bagno, un sorriso che lui conosceva molto bene così come conosceva fin troppo bene, osservandole in maniera distaccata, tutte le sue espressioni, e in quel sorriso, così efficace e denso, qualcuno avrebbe potuto scorgere tutta l’amara ironia e tutto lo spirito del nostro tempo, nel sorriso di quello che altri non è se non un comunissimo piccolo uomo degli anni ‘10 di questo nuovo secolo, secolo mai così avaro di aspettative e di possibilità, c’era tutto il senso di questa nostra epoca che sa troppo di muffa per poter essere vissuta pienamente.

Il piccolo signor F si addormentò subito e dormì come un sasso.

 

Questa sarebbe potuta essere – e nelle intenzioni della prim’ora lo era – la conclusione di questa storia, sicuramente poco esaltante e sicuramente avara di fatti ed eventi (un po’ come è poco esaltante e avara di eventi la vita di questo decennio e di questo secolo), c’è però la possibilità di aggiungere un’Appendice – e noi raccoglieremo questa possibilità – la quale, per nostra decisione, andrà sotto il titolo più che adatto di “Conclusione”, nella quale si racconterà ma per il puro gusto cronachistico, in maniera diretta e senza fronzoli, alcune cose che siamo venuti a sapere di recente riguardo il piccolo signor F e che, forse, potranno incuriosire il lettore. Ovviamente “Conclusione” è un titolo come altri, puramente di modo o se si preferisce di metodo, è chiaro che ogni cosa nella nostra esistenza non concluda – è perfino una banalità a dirsi – ed è ancora più chiaro che una storia che racconta l’inconcludenza del nostro decennio e del nostro secolo non possa concludersi con una “Conclusione”. Insomma al di là dei giochi di parole noi scriveremo quest’ultima parte così come verrà, e il lettore, se vorrà, la dovrà leggere con lo stesso spirito di chi l’andrà a scrivere, cioè così come verrà, fermo restando che questi piccoli episodi che verranno narrati non aggiungeranno e non toglieranno nulla al senso di questa piccola, disarticolata, sicuramente non ben riuscita, narrazione degli anni ‘10 del XXI secolo. 

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