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Thursday, 03 April 2014 00:00

In una parola: Teatro

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L’impressione è che, questa volta, Fausto Paravidino abbia fatto del tema un pretesto e della forma il vero tema. Non conta ciò che viene detto dagli attori né ciò che davvero viene compiuto sul palco: conta il modo di dirlo e di farlo. Ma se ciò corrisponde al vero allora siamo in piena esaltazione del teatro attraverso l'esercizio del teatro. “L’estetica è pratica” dice Peter Brook, a cui ruberemo pertanto la frase per uno dei titoli dei capitoli di cui si compone la recensione e quello che deve fare chi scrive, trovatosi al cospetto di Exit, è semplicemente prendere nota dell’insieme di trucchi e di giochi (solitamente nascosti) che Paravidino utilizza, smascherandone l’utilizzo medesimo. Potremo così scrivere di un triangolo amoroso come pura scusa argomentativa, di una voluta banalità delle parole (e del loro vero utilizzo) e poi dilungarci sulla fattura visiva e testuale dell’opera. Proviamo.


La scusa del triangolo.
Fausto Paravidino (ri)scrive il più consueto dei triangoli amorosi: lei ama lui, che finisce per infatuarsi dell’altra; lei lo allontana dalla loro vita annoiata, lui vive un brivido momentaneo con l’altra ma comprende che ama ancora lei; l’altra non ama invece più lui che, quando torna ad interessarsi a lei, la trova ormai distaccata. La chiusura della storia? La telefonata dell’altra a lui, per annunciargli che sta per diventare padre.
Si aggiunga un quarto (l’altro) che funge da angelo tonto della trama − cui tocca rasserenare, tranquillizzare, pacificare e mettere in accordo, riavvicinare, riunire − ed avrete, apparentemente, Exit.
Assolto il dovere di riportare la trama occorre immediatamente sottolineare che la trama è soltanto una scusa: Paravidino infatti comprende che nulla di nuovo e di definitivo può dirsi sull’amore e, per questo, compone una vicenda il cui finale ha la funzione di apertura allusiva (un “Pronto” allo squillo, cala il buio, cominciano gli applausi: cosa accadrà domani a lei, lui, l’altra, l’altro?): come a dirci che dai garbugli del cuore, dalla strana matassa delle relazioni con chi ci sta accanto, non si diventa mai liberi: nessun addio è un addio, nessun distacco è possibile, nessun allontanamento è definitivo.
Io amo lei, ma mi piace anche un’altra mentre la mia lei è invaghita di un altro; l’altro incontra colei che mi piace parlando di me, mentre la mia lei comincia a parlarmi dell'altro: gioco di incastri molteplici, di identità plurime sfaccettate in più relazioni differenti, storia di dita intrecciate con altre dita che si intrecciano, a loro volta, con altre dita ancora.
Beata e inevitabile complessità, per la quale “le cose non sono mai semplici come minacciano di essere”.


La banalità delle parole.
A testimonianza ulteriore di quanto poco conti quel che si dice basta citare alcuni frammenti del testo.
“C’entra sempre la politica”; “C’entra sempre il sesso”; “Non si è mai capito se il sesso c’entri come causa o conseguenza”. Ovvietà.
”A cosa stai pensando?”; “A niente”. Ovvietà.
“Bel pigiamino”; “È sempre il solito”. Ovvietà.
“Dove vuoi arrivare?”; “Da nessuna parte”; “Mi pareva”. Ovvietà.
Ma anche: “Se chiudessero gli stadi i tifosi di calcio troverebbero un altro posto in cui picchiarsi”; “Mi ha parlato così tanto di te… mi sembra quasi di conoscerti”; “Il mio gusto preferito è il pistacchio e non è facile saperlo fare”. Ovvietà.
Paravidino costruisce il proprio testo accumulando discorsi consueti, banalità quotidiane, frasi dette che non dicono nulla: la scelta – evidente – è proprio di sottolineare con la (non) lingua contemporanea la (non) comunicazione odierna.
Associando la bassa verbalità di maniera tanto alle piccolezze di tema (il pralinone/gusto del gelato) quanto alle grandi questioni nazionali (lo sgombro di un campo Rom) o internazionali (l’Iraq e la sua indipendenza) mostra che non c'è più il collettivo ed esterno ma solo il personale e privato (gli "Affari Interni" sono le relazioni prossime; gli "Affari Esteri" sono la distanze tra le persone; il welfare dell'"Europa" si riduce ad un uomo che aiuta una donna incinta a portare la spesa); ma Paravidino − riempiendo la scena di così tante parole − mostra anche  il vuoto effettivo di queste stesse parole: nessuna che suoni davvero, che davvero significhi, che riesca in qualche modo ad avere una consistenza reale (ed infatti ciò che è importante, ovvero la bambina che sta per arrivare, viene spinto oltre-trama).
Non a caso le tre figure principali mentono agli altri, abituate come sono a mentire a se stesse (lei afferma di vedere un altro quando non lo ha ancora incontrato; lui afferma di non conoscere l’altra quando le ha appena dato il primo bacio; l’altra afferma di aver tentato il suicidio ma è uno scherzo) e lo fanno con la stessa disinvoltura – verrebbe da scrivere con la stessa superficiale sveltezza – con cui si chiacchiera di un Paese martoriato dalla guerra o di una comunità espulsa senza ragione. Bla bla bla voluto, che rende tutto il bla bla bla cui diamo fiato: ogni giorno, in quasi ogni occasione.
È questo, in qualche modo, il vero tema di Exit, a volerne necessariamente trovare uno. Ma, per chi scrive, lo spettacolo è anche e soprattutto la dimostrazione che, in teatro, l’estetica è pratica.


L’estetica è pratica.
Per chi scrive lo spettacolo di Paravidino è una suggestione estetica che si traduce in una dimostrazione pratica. Paravidino definisce quattro sagome sceniche, a cui non si cura di dare né nome (sono A, B, C, D, secondo un uso già beckettiano o da pinteresque) né consistenza di caratteri/personaggi; posiziona queste quattro sagome in uno spazio dichiaratamente finto (l’altezza minuta delle quinte, la policromia pastello delle pareti, le due entrate laterali prive di porte, il fondo-velario); sormonta in questo spazio una fila di icone che serviranno a fare ambiente (il marchio Feltrinelli, la scritta “Bar”, una lampada da ristorante cinese, l’iscrizione “Pizzeria”, un lampadario da interno a tre luci, il simbolo di un gelato).
Inoltre: smaschera la teatralità del luogo di recita imponendo a vista i cambi scenografici e inducendo più volte gli attrezzisti a farsi visibili; impone in alto le scritte che servono a fare da accompagnamento al testo o da sua semplificazione visiva (si pensi al neon “Affari Esteri” sotto il quale vanno a sedersi le figure espulse, momentaneamente, dalla vita degli altri) e – in questo teatro che viene ostentato come teatro – si serve di quattro attori che sono e saranno sempre e soltanto degli attori: per questo, all’ingresso, guadagnano la ribalta per indurre all’applauso la platea; per questo interrompono la citazione di una battuta per farne analisi, commento, esegesi; per questo possono permettersi il richiamo del tempo trascorso (il teatro come arte che coniuga al presente il passato); per questo interloquiscono (apparentemente) con il pubblico; per questo dettano ai tecnici la musica che si deve ascoltare; per questo interagiscono con gli stessi servi di scena, dandogli indicazioni o passandogli lo spinello previsto dalla trama.
Si aggiungano: l’illuminazione della platea (perché non vi sia quarta parete in oscurità o in penombra ma assenza di distacco attraverso il chiarore in comune); il doubling marcato e risibile (l’altra che fa da cameriera nel ristorante); la contemporaneità di più luoghi in assito.
Si aggiungano ancora: la reiterazione di una scena che non può più essere ripetuta (la festa ed il ballo: in apparenza è il felice passato che non ritorna ma, invece, è innanzitutto uno scampolo teatrale che non si replica); la burla improvvisa per definire un anticlimax interno (le cinque magliette che l’altra ha addosso e che prolungano ironicamente la sua svestizione); la duplice coreografia di un’attesa (per cui lui e l’altro agiscono alla stessa maniera, contemporaneamente, in due stanze diverse ma posizionate accanto: mani ai fianchi, sguardo d’intorno, ricerca di un posto a cui sedere senza sedersi davvero).
Si aggiungano infine: le finte-passeggiate in ribalta; il ruolo di osservatore, di spettatore e di commentatore interno che tocca agli attori; le interrelazioni tra personaggi che dovrebbero abitare stanze lontane (smascheramento della presunta separazione spaziale) e la trasformazione del racconto di un dialogo in un dialogo vero e proprio (giacché il dialogo è una forma prettamente teatrale mentre il racconto è una forma prettamente narrativa) e si comprende così quanto lavoro Paravidino abbia compiuto sul come di Exit, convinto evidentemente che non è tempo – o non era questa l’occasione – per ingannare gli spettatori con finte certezze, reviviscenze presunte, costruzioni pseudo-veritiere.


L’abilità di scrittura.
Alla capacità di immaginare e realizzare un voluto virtuosismo della scena (tra teatro in teatro ed epicità drammaturgica) concorre la consueta abilità di scrittura.
Paravidino assottiglia fino ad annullare ogni possibile specificità individualizzante per cui le quattro figure che (e di cui) sentiamo parlare potremmo essere noi quanto i quattro seduti nella fila davanti o i quattro seduti alle nostre spalle: facendo di A, B, C e D dei qualcuno qualsiasi Paravidino li rende altrettanti nessuno e – questi nessuno – possono perciò rappresentare chiunque. Si tratta, per dirla banalmente, della vecchia legge del teatro per cui – alla semplificazione dei segni – corrisponde un ingigantimento degli effetti.
Ma questa capacità di saper scrivere per il palco – acclarata da ben altri critici (basterebbe ricordare le parole di Franco Quadri) – si nota anche in altre minuzie testuali: le parole che funzionano da aggancio, consentendo ad un attore di proseguire il discorso che un collega ha interrotto; l’utilizzo del leit-motiv (il tema dei calzini a righe: scopriremo che si tratta di un regalo sbagliato); le battute che scardinano l’andamento cronologico della visione (“Quando ci siamo conosciuti era diverso”; “Due anni dopo era già così”).
Ma si pensi anche agli incisi che servono per indicare un ruolo (“È mia moglie”); per richiamare in scena chi è oltre-quinta (“Cosa stai facendo?”; “Niente”; “E allora perché non vieni di qua”); per anticipare gli eventi che seguono (“Mi odi?”; “No, ma ho paura che ci manchi poco”).
Questi incisi vanno uniti – è chiaro – alle battute palesemente metateatrali, di cui offriamo due testimonianze: “Quanto male inutile che ci siamo fatti per affermare delle personalità” (ovvero quanto finto male abbiamo messo in scena per raccontare ciò che dovevamo raccontare) e “Tutto questo teatrino senza pubblico” (che smentisce ciò che afferma: si tratta, infatti, sì di teatrino ma fatto al cospetto del pubblico).


In ultimo: una battuta.
Servono questa scrittura quattro attori capaci di entrare-e-uscire di continuo dalla propria parte: simili a strumenti musicali che interrompono il loro concerto da camera – interruzione dell’esecuzione, pausa momentanea, riassesto della posizione, ripresa dell’esecuzione – i quattro alternano, come si deve, lembi fisico-interpretativi (un abbraccio, l’accenno di lacrime, una mano che trema, la caviglia sinistra che si muove fanciullescamente) e piena consapevolezza della propria funzione (sottolineata, oltre che dal testo, anche attraverso fari bianchi che inondano il palco o vi disegnano riquadri lineari).
In una battuta pronunciata da Sara Bertelà – “Dovresti essere un po’ meno noioso se ci tieni tanto a farmi ridere, ecco. Pausa. Punto” – in qualche modo si condensa tutto ciò di cui abbiamo scritto: c’è il suo contenuto allusivo che viene recitato; c’è un’indicazione attoriale che viene esposta; c’è “Ecco. Pausa. Punto” che dà la sensazione che si faccia riferimento direttamente al copione e, quindi, alla battuta nella sua dimensione cartacea.
Invertendo l'ordine: testo nella sua dimensione cartacea, (re)citazione attoriale del testo, allusione dovuta alla recitazione.
In una parola: Teatro.

 

 

 

 

 

Nb. Le foto a corredo dell'articolo sono di Mario D'Angelo (come indicato nelle gerenze);
fonte, invece, dell'ultima foto:  http://instagr.am/p/Ke-sEnlNBJ/

 

 

Exit
di Fausto Paravidino
regia Fausto Paravidino
con Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Iris Fusetti, Davide Lorino
scene Laura Benzi
costumi Sandra Cardini
musiche Giorgio Mirto
luci Lorenzo Carlucci
foto di scena Mario D'Angelo
produzione Teatro Stabile di Bolzano
durata 1h 35'
Napoli, Piccolo Bellini, 1° Aprile 2014
in scena dal 1° al 6 Aprile 2014

 

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