“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 24 March 2014 00:00

Da confessore a confessato

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L’antro cavo del Théâtre de Poche offre ribalta alla confessione. Confessione d’un confessore, vicenda di ordinarie realtà di parroci in trincea, uno dei quali prende tonaca e forma nella figura di Aldo Rapé. Partitura per voce bilingue – siciliana e napoletana – la drammaturgia di Giovanni Meola porta in scena una storia che ha tutti i crismi della convenzionalità, che è l’ordinario e già variamente frequentato tòpos del prete di frontiera che si oppone alla malavita, che connota il proprio impulso vocazionale di afflato civile.

Il giovane parroco cui Aldo Rapé insuffla veemente spirito vitale si delinea sulla scena come prodotto di un contesto sociale difficile, conosciuto dall’interno e da presso e che egli ha in animo di voler cambiare; il canale scelto è quello della tonaca, della via ecclesiastica, di una rivoluzione pacifica che confida nella parola con cui ricondurre all’ovile greggi di coscienze smarrite e votate al male. La sua partita si gioca su due campi difficili e successivi, quello siciliano e quello campano, due contesti nei quali il giovane parroco si scontrerà con realtà e dinamiche in tutto e per tutto simili, contesti nei quali tentare d'opporsi alla forza d’urto della sottocultura criminale è sfida dall'esito incerto e periglioso; un’eucaristia urlata ad inizio di monologo sembra programmaticamente dare il segno di quanto la voce del bene debba sforzarsi per farsi udire senza certezza di potersi dire ascoltata.
Solo sulla scena, prete confessore che per una volta ribalta il suo ruolo, da confessore a confessato, trova a raccogliere le sue parole, invisibile interlocutore, un giornalista, custode ma anche potenziale manipolatore di verità affidate alla parola.
Alla parola e alla scena. Due i cardini attorno a cui ruota la messinscena: l’idioma bilingue in cui il parroco espettora la sua confessione, le proprie verità, e la scena, scarna e semivuota, su cui variamente si compongono, tessere di un domino di memoria e presente, cassetti di legno spostati più e più volte; un pallone da calcio emblema di fanciullezza trascorsa, trasfigurato in testa di boss a segnare il passaggio dall’età dei giochi al mondo dei drammi adulti.
La parola. Il confessore che si confessa lo fa adoperando due lingue, due dialetti, due modi simili per due simili contesti in cui la sua voce, talvolta ridotta al silenzio con la violenza, possa arrivare percettibile alle coscienze cui si rivolge; eppure non basta, perché le lingue che egli parla, che si tratti dell’idioma natìo o del vernacolo appreso, non raggiungono la comprensione sperata, non riescono a far breccia nel pervicace e stratificato spessore che separa il male dal bene. Ed anche laddove vi si avvicina, anche allorquando sembra essere sul punto di portare a compimento un piccolo successo aprendo uno squarcio nella coscienza di un boss, ecco che questi muore ammazzato, frustrando nel giovane uomo di Dio la speranza di aprire alla parola una coscienza refrattaria.
La scena. Variamente disposti, i cassetti che fanno arredo di palco, sembrano essere madie della memoria, del passato dell’uomo, prete al presente, che in ribalta racconta reviviscenza del proprio vissuto, relazionandolo al momento contemporaneo: storia di una coscienza affrancata, che ha scelto una strada, quella della fede, per salvarsi e per salvare, per “ripulire” dai ricordi e dal futuro il sopruso e il malaffare (e significativamente ad un tratto prende a spolverare i cassetti con la tonaca per poi, successivamente, disporli a mo’ di baluardo davanti alla scena).
La confessione accorata ed accalorata del parroco di frontiera si muove su registri veementi, esacerbati dalle dicotomie del proprio ministero, dalle contraddizioni e dai dubbi che pure s’agitano nella coscienza di chi comprende in prima persona quanto possa divenire labile e sottile la linea di demarcazione fra bene e male e quanto sfumati possano essere i concetti di fede, amore e carità in un contesto che li rielabora sulla base del proprio sistema di valori, paradossalmente coniugando devozione e crimine. Non manca, nel monologo confessionale, l’invettiva contro le gerarchie ecclesiastiche, contro un sistema che dall’interno pare opporsi alle velleità di cambiamento che animano il parroco “militante”, il quale con mesto disincanto ammette a se stesso che anche il suo tentativo di cambiare le cose possa essere derubricato come peccato di vanità.
La recitazione di Aldo Rapé connota tutto ciò mantenendosi su un registro di costante compenetrazione emozionale, vibrando del medesimo fervore con entrambe le corde che la sua voce pizzica, in napoletano o in siciliano che essa s’esprima. La sua interpretazione d’un prete che si sveste della tonaca – via sin dalle prime battute – senza per questo abbandonare il proprio ministero, convince per tutta la durata dello spettacolo, senza cali né incertezze, animandosi di dolente passione civile. Dolente passione civile che è quella che, come detto, viene spesso frequentata e raccontata, con esiti alterni, dal cinema, dal teatro, dalla televisione (il più delle volte in orripilanti fiction che privilegiano la facile emozionalità) e che mostra sovente la corda del già visto, del già sentito; il rischio della retorica incombe pertanto come una festuca in cui incespicare, più per l’idea drammaturgica in sé che per limiti di messinscena. Fatto sta che, pur nella dignitosa partitura registica e pur avvalendosi di una interpretazione più che apprezzabile, Il confessore di Giovanni Meola non pare possedere freschezza tale da farne opera capace di lasciare un segno profondo, di incidere un solco nuovo nell’animo di chi vi assiste.
L’afflato civile resta encomiabile, ma pare abbisognare di uno spessore in più per costruirsi come entità scenica che non rischi di confondersi nell’indifferenziazione della riproduzione seriale.

 

 

 

 

 

 

 

Il confessore
testo e regia Giovanni Meola
con Aldo Rapé
costumi ed elementi di scena Annalisa Ciaramella
assistente alla regia Francesco D’Ambrosio
foto di scena Alessandro Pone
progetto grafico Irene Petagna
produzione Virus Teatrali e Prima Quinta
lingua napoletano e siciliano
durata 45’
Napoli, Théâtre de Poche, 21 marzo 2014
in scena dal 21 al 23 marzo 2014

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