“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 20 March 2014 05:07

Il grande sogno di un clown...

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Immagina di varcare una soglia, una magica porta che ti conduce in un mondo astrale, inverosimile, in un piccolo paradiso fiabesco dove il tempo si interrompe per i bambini, si riavvolge per gli adulti. Ti ritrovi ad un tratto in un'isola che non c'è, sotto un cielo notturno costellato ovunque da piccoli puntini luminosi, astri splendenti. Stelle, pianeti, satelliti che dall'alto riflettono fasci di luce calda sulle tue mani, sul tuo volto, illuminano gli occhi di speranza e di stupore, quello che si prova difronte a qualcosa di immenso e sterminato.

Ritrovare la propria infanzia a volte consente di ritornare su quella strada dove si è perso il senso della semplicità, la capacità stessa di rendere speciali ed uniche quelle cose che si nascondono in un timido guscio di normalità.
Quando entri in un teatro accade anche questo. Ci si sente minuscoli, si prova un improvviso amore per la grandezza della vita e per la sua inestimabile bellezza. A permetterlo è soprattutto la profonda sensibilità e genialità di quegli artisti più umili e fedeli alla propria visione del mondo e dell'uomo; a permetterlo sono spettacoli come quelli ideati da Slava Polunin.
Considerato dalla critica il più grande clown esistente, affascinato dalla filosofia pantomimica di Marcel Marceau, intraprese da giovanissimo la carriera del mimo dopo aver studiato all'Istituto di Cultura Sovietica di San Pietroburgo (all'epoca Leningrado) e negli anni '70 rivoluzionò l'arte clownesca estrapolandola dal contesto circense per diffonderla con tutte le sue forze sulle scene. Eterno sognatore col sogno di far sognare centinaia di platee, è un Santa Claus dei Clown: a vent'anni dalla prima sovietica continua a regalare sorrisi ed emozioni nei teatri di tutto il mondo con Slava's Snowshow, il suo spettacolo di maggior successo.
Protagonista dello show è Asisyai, buffo e triste pagliaccio divenuto un'icona per la sua mise in pigiamone giallo e babbucce rosse, piacevole guida che ci accompagna in un onirico viaggio attraverso luoghi misteriosi e paesaggi polari, scenari innevati e indefiniti in cui puoi riassaporare quelle sensazioni ingenue ed infantili assopite nel corso della vita adulta.
Seduti sulle vellutate poltrone del Bellini, siamo in una rumorosa stazione, illuminati dalle luci della notte, in attesa che il nostro treno parta. Echeggia il rumore del fischio ed istantaneamente la locomotiva inizia a muoversi. La macchina teatrale sta per offrirci la meraviglia della sua potenza, tutta la sua velocità, in ogni sua forma.
Il nostro Asisyai inizialmente soffre terribilmente la solitudine, porta con amarezza un cappio alla gola. Prova ad arrotolare comicamente la fune, che interminabile si rivela però essere un legame con uno strano personaggio: un clown in abito verde con un grande cappello orecchiuto, uno dei tanti abitanti di chissà quale villaggio surreale, che irrompono sul palcoscenico. I due dopo una serie di esilaranti slapstick alla Charlie Chaplin sembrano diventare amici per la pelle ed iniziano a renderci partecipi in prima persona della loro avventura. La scena inizia già ad ipnotizzarci con una miriade di bolle di sapone che contornano una comica azione canora degli attori, offuscando per alcuni attimi persino le scenografie di fondo (pannelli mobili ricoperti da tessuto turchese e brillante, uno di questi circoscrive una luna luminosa).
Ma tale immagine iniziale è solo un piccolo preavviso del magnetismo che riservano le trovate decisamente rapide ed interattive di Polunin.
Si fa notte fonda, la Luna è incandescente e tutti i clown (chi più alto chi più basso, sembrano i celebri sette nani) iniziano a camminare lentamente e con una maestria invidiabile eseguono movimenti in slow-motion; Asisyai, come se avesse eseguito un incantesimo, inizia a far levitare una sfera di colore rosso vivo. L'effetto congelante ed a-temporale è impeccabile, straordinario.
L'aria si fa monotona, i due simpatici amici si annoiano tra una beffa e l'altra, è tempo quindi di lasciare il villaggio e salpare in mare su una zattera fatta con un letto. La nebbia è talmente fitta che ricopre persino le scalette del proscenio. L'imbarcazione sembra galleggiare su un'enorme nuvola più che sull'acqua, anche se a ricordarcelo è la pinna di un insolito squalo che la accerchia, a cavallo di uno skateboard!
La capacità mimica degli interpreti, fatta di semplici passi, espressioni e gestualità accompagnate da pochi ed essenziali effetti sonori (rumori d'acqua, versi di uccelli) è tale da leggere in modo chiaro qualsiasi situazione narrativa. I due poveri protagonisti approdano così su una spiaggia sconosciuta, vicino ad una caverna abitata da inquietanti creature alate che aleggiano nell'ombra dell'ignoto accrescendo la suspance. Incombe in questo luogo oscuro una presenza spaventosa: un gigantesco ragno che sul finire del primo tempo tesse una ragnatela di enormi proporzioni che come in un realistico incubo è destinata ad espandersi lentamente su tutti noi della platea.
Ma nell'intervallo, l'animazione dello Snowshow non si interrompe di certo e lo Slava regista continua a prendere alla sprovvista gli astanti con delle gag tipiche come il numero della bottiglia e dell'ombrello roteante, che ovviamente bagna un gran numero di spettatori.
Il secondo tempo presenta lo sketch di debutto che rese famoso per la prima volta il Clown di Polunin, andato in onda nella trasmissione Light Blue Flame della serata di Capodanno del 1980-81.
Asisyai intrattiene un dialogo con se stesso, in una lunga e combattuta chiacchierata al telefono (due telefoni gonfiabili, uno rosso e uno giallo, come a richiamare appunto il suo personaggio). Usando due diversi toni vocali, in un linguaggio comico, incoprensibile dal punto di vista dialettico ma al tempo stesso chiarissimo grazie ai registri interpretativi e comunicativi del movimento, ci racconta dell'amore, del desiderio di affetto e comprensione di cui ogni individuo necessita, della gioia dell'attesa, della felicità di un incontro, della solitudine e delle aspettive che ciascuno di noi riserva negli altri.
Questo secondo atto è profondamente toccante, sentimentale, ha tinte poetiche e sfiora il romanzesco. Evidenzia le difficoltà che riserva la maschera del pagliaccio a chi accetta l'ardua sfida di indossarla, responsabilità che richiede oltre ad una grande preparazione artistica, anche un esercizio meticoloso di tipo fisico – alcuni movimenti sono impossibili da eseguire per ordinari “danzattori” – un secondo atto in cui non ci si rende conto, ma un performer goffo vestito con abbigliamento inverosimile, buffonesco, è capace di provocare una lacrima.
La scena più squisita di tutto lo show (una scena in cui Polunin stesso afferma di rivedersi in prima persona) è quando Asisyai decide di partire nuovamente, questa volta da solo, per affrontare il proprio destino ed abbracciare il proprio futuro. Volteggia con una valigia enorme al centro della scena preparandosi ad affrontare probabilmente la sua paura più grande che è anche il suo amore più grande, che solo alla fine si scoprirà essere un elemento continuamente presente in scena e nella storia: la neve.
Estratti dal bagaglio un soprabito ed un cappellino, che il piccolo clown adiagia su un appendiabiti, inizia a simulare un commovente addio, un tenero abbraccio ad una figura materna, inserendo un braccio all'interno di una manica del lungo indumento. Il braccio sembra davvero aver un'anima propria ed addirittura inserisce nella tasca dell'uomo una lettera. Le note che accompagnano questa breve parentesi sono quelle dolci e malinconice di Le petite fille de la mer – La piccola figlia del mare (con riferimento assonantico non casuale a mère – madre) del compositore di musica New Age Vangelis.
Il treno fischia di nuovo. La locomotiva sta per ri-partire (simulata dallo stesso protagonista che indossa durante il viaggio un cilindro fumante). Pochi secondi e la destinazione è raggiunta.
I pannelli scenici sul fundo del palco ruotano magicamente e cambiano aspetto... ora somigliano non più ad un orizzonte stellato ma ad una parete rocciosa, una superfice irregolare ricoperta di ghiaccio, come se Asisyai si trovasse ai piedi di una montagna. Bellissimo l'effetto luminoso proiettato su questa parete di pannelli mobili; grazie al loro movimento infatti la luce turchese crea una sinuosità ondeggiante e soffermando a lungo lo sguardo rimaniamo incantati da una sorta di iridescenza.
Asisyai immobile sotto la montagna prende dalla tasca la lettera. La legge, è amareggiato, la strappa. Contemporaneamente alla caduta dei piccoli pezzi di carta al suolo, inizia a nevicare dolcemente, prima nella scena, poi sull'intera platea, come d'incanto. L'intensità della neve aumenta... quella neve aveva un sapore dolce, era calda fino a quando il ricordo di quella figura non mutasse in peggio a causa di quelle frasi scritte in quella lettera che non conosceremo mai. Ora la neve fa paura, è brusca, è sempre più fitta.
Ed è l'irruenza di Apocalyptica dei Carmina Burana (Carl Orff) che scaraventa via in una tempesta di nebbia, vento e ghiaccio quei pannelli, accecando tutto il teatro con una luce fortissima, ricoprendo di bianco noi spettatori costretti a ripararci il viso con le mani.
La bufera di neve, la paura piu grande di quell'ometto coraggioso che rimane lì immobile contrastando quella forza della natura uscendone illeso e vittorioso. Slava, figlio del gelo, russo nell' animo ha affermato: "la neve è per me un'immagine bellissima, come un abito da sposa, come un foglio bianco quando un pittore comincia a disegnare. Ma mi riempie anche di paura e di orrore, di freddo e di morte".
Il meraviglioso spettacolo dei clown termina così con la forza d'animo come vera protagonista, una forza che va contro l'angoscia emotiva dell'ignoto, che ti costringe a rimanere in piedi, a non cedere.
Ma Slava ha ancora una sorpresa per tutti noi...
Quei pannelli magicici si aprono nuovamente, come uno scrigno incantato, e proiettano in un istante, verso di noi, degli enormi globi in un'esplosione di luci, colori e coriandoli. Sono quelle stesse stelle, pianeti, satelliti che prima ci salutavano dall'alto solo con i loro bagliori, astri splendenti mete di chissà quali speranze.
Ora il sogno si è avverato. Vengono verso di noi come meteore passegere, lasciandosi sfiorare con le dita, emozionandoci più dei bambini.
Il teatro di Slava sembra proprio un sogno – forse il suo, chi può dirlo con certezza – sembra nascere dai racconti delle favole, ma siamo noi i protagonisti, come in un grande libro pop-up. Quando il suo teatro si accende, quasi prende vita dai singoli sogni delle persone che lo vivono, e quando le luci si spengono, continua a vivere nei loro sogni.

 

 

 

Slava's Snowshow
creazione e messa in scena
Slava Polunin
con Scott Derek, Artem Zhimolokhov, Jef Johnson, Vanya Polunin, Yury Musatov, Tatiana Karamysheva, Francesco Bifano
scene Viktor Plotkinov, Slava Polunin
produzione Slava, Gwenael Allan
organizzazione tournée italiana ATER – Associazione Teatrale Emilia Romagna
Napoli, Teatro Bellini, 18 marzo 2014
in scena dal 14 al 23 marzo 2014

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