“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 19 March 2014 00:00

La nostra vita schifo

Written by 

“Se poi domani mi sveglio e non ho un lavoro,
non ho una casa e, tutto quello che volevo fare
nella vita, non l’ho fatto che importa?
Basta che siamo insieme”.
(Il nostro amore schifo)

 

Il nostro amore schifo ha la rara capacità di associare ironia generazionale e di coppia ad una teatralità strutturata e consapevole: da un lato ridiamo dei motti di spirito, dei siparietti, dei giochi realizzati intrecciando velocemente battute e contro-battute, micromimica e gesti plateali, urla brevi e smorfie silenziose; dall’altro ci accorgiamo – progressivamente – che lo spettacolo ha una partitura rigorosa, formata da alcuni dei più consueti e funzionali meccanismi della scena.
Così – mentre apprezziamo il racconto a due voci di un reciproco amore insofferente, insopportabile ma inevitabile – notiamo l’utilizzo di battute metateatrali; di indicazioni dirette alla regia; di allusioni esplicite agli astanti; apprezziamo l’uso dell’illuminazione denotativa (per cui il volto viene offerto, grottescamente, al pieno-luce), la funzione anti-illusiva delle canzoni; l’utilizzo significante dei rari oggetti (una lampadina, cinque sedie e un tavolo).
È questa palese consapevolezza teatrale che permette ai Maniaci d’Amore di reiterare una scena più volte, autocitando uno schiaffo da dare o da ricevere; che gli consente di usare i gradoni teatrali come il vero punto di partenza dello spettacolo; che li spinge a giocare col silenzio e con il buio; è questa consapevolezza teatrale che li porta ad interagire direttamente con il pubblico (ma senza mai slegare questa interrelazione da ciò che accade in mezzo al palco); che li spinge a giocare con l’assente; che gli fa annunciare l’uscita senza mai davvero uscire o che li motiva quando, l’inizio di un monologo, viene interrotto quattro volte.
È talmente evidente questa (giovane) maturità teatrale che, Il nostro amore schifo,mantiene l’immediatezza comica data dalle irrisioni e dagli scherzi senza che – il loro accumulo in sequenza – sia fine a se stesso: non assistiamo, quindi, ad un insieme di numeri dal valore momentaneo ma alla rivelazione di una trama che diventa spettacolo, svelando una meticolosità ideativa ed applicata: il ritorno ossessivo di una frase (“Siamo entrambi molto fortunati: io per lei e lei per me”); la realizzazione di una coreografia vocale (i saluti dati ai parenti come fossero l’uno accanto all’altro, pur non essendolo); certi accenni testuali (il desiderio di maternità) trovano un loro sviluppo successivo, dimostrando che ogni singola trovata non è un assolo autoreferenziale ma la parte di un copione più complesso.
Ne viene perciò anche la condivisione di una storia che – all’orizzontalità tipica del comico (l’allargamento dello spazio funzionale di una battuta, capace di fondere il palco alla platea) – aggiunge la verticalità della vicenda che si sviluppa, che dichiara il proprio tempo, che chiede o cerca la sua fine.
Conoscenza, primi imbarazzi, fidanzamento, desiderio di convivenza e/o di matrimonio, confessione familiare del progetto, difficoltà concrete dello stesso, frustrazioni personali e povertà o mancanze generazionali e poi la noia dell'abitudine, l’insoddisfazione lavorativa o culturale, l’urgenza delle liti e delle provocazioni, il bisogno di un dispetto o di una trasgressione (pur soltanto dichiarata) portano – chi recita e chi assiste – fino alla vecchiaia: definita da una battuta che si piega e si confonde (“In te c’è qualcosa che non va perché pensi che in me ci sia qualcosa che non va, per il fatto che cerco di aiutarti a vedere che ci deve essere in te qualcosa che non va, per il fatto che credi che in me ci sia qualcosa che non va”); realizzata (scenicamente) con la morte familiare; confermata (iconicamente) con l’utilizzo della farina che cade, bianca, rendendo canuti i volti e grigie le capigliature.
“Come sei romantica; hai sempre avuto una vena di romanticismo” è la frase che ci permette di comprendere: quel verbo improvvisamente al passato – in sostituzione del presente/tempo del teatro (“Se tu accetterai il mio modo di amarti per ora, sarai felice per ora”) e del futuro/tempo dell’invenzione (“Speriamo duri per sempre”) – ci dice che gli anni sono trascorsi, che gli eventi sono accaduti, che ciò che si pensava potesse succedere (purtroppo) è successo: “Ti Amo”; “Anche io”; “Anche i ragazzi ti vogliono bene”; “Alla loro maniera”.
Ma se Il nostro amore schifo è un elogio e una smentita dello stare assieme, si dimostra anche una messa-in-scena amara di due percorsi individuali che – per osmosi, per vicinanza, per convivenza – mutano reciprocamente fino a rendersi irriconoscibili a se stessi.
Lui desidera il suicidio, rifiuta la responsabilità di un figlio, certifica la propria vocazione alla Poesia ma finisce per sopravvivere, per diventare il genitore più amato della coppia ed un professionista dello stornello commerciale. Lei, che costruisce con l’immaginazione una casa, una famiglia, una rendita economica, si svela incapace di vivere la casa, la famiglia, la propria rendita economica. Mutato il modo in cui si pensa, in cui si parla, in cui si agisce, cambiato il proprio aspetto; accortisi di essere diversi e non migliori, divenuto chiaro che si è mancato in tutto o quasi tutto e che – di ciò che abbiamo detto, giurato, professato – non resta nulla, occorre decidere se accettare o rifiutare il proprio fallimento, la propria diserzione: continuare a sopportare continuando a sopportarsi o compiere il gesto, dire basta e lasciarsi andare?
Lui farnetica, progetta, allestisce con la chiacchiera una casa di campagna, un piccolo giardino, file di pomodori da coltivare e – nel frattempo – si allontana verso destra, fuori palco, oltre la tenda che fa da uscita. Lei rimane fissa al centro, si prende un attimo poi sale sulla tavola, fa un ultimo tentativo per sorridere (hai visto mai che ci si riesca ancora ad ingannare?) ma – fallita questa smorfia – batte un piede e s’ode un tonfo. La lampadina, ridotta a frammenti, servirà a trovarsi al buio, a uccidere o ad uccidersi, a dirsi addio.
Il nostro amore schifo gioca, al presente, con il futuro tramutando il futuro nel passato: incornicia la storia di una coppia (ovvero di due solitudini associate) tra due compleanni, dando partenza e arrivo alla vicenda; definisce (con profondità leggera e sostenibile) uno sviluppo psicologico dei personaggi e rende l’evoluzione del destino, sancendo il termine delle chimere irrealizzabili.
Noi ridiamo, colpiti e attratti dallo sberleffo, dall’ironia e dall’esagerazione parodistica, ma quel che resta infine è un sapore oscuro, agro in fondo e veritiero: non saremo ciò che pensavamo di poter essere e ce ne accorgeremo soltanto quando già saremo stati.

 

 

 


Elenco fonti immagini a corredo dell'articolo:
Angelo Maggio
http://teatrosocialegualtieri.tumblr.com/
http://www.ctbteatrostabile.it/content/attivita-sul-territorio-e-collaborazioni
Luca Lombardi

 

 

 

Il nostro amore schifo
drammaturgia Francesco d'Amore e Luciana Maniaci
regia Roberto Tarasco
con Francesco d'Amore e Luciana Maniaci
allestimento Lucia Giorgio
produzione Nidodiragno
foto a corredo dell'articolo Angelo Maggio,
durata 1h
Napoli, Start Teatro/Interno 5, 16 marzo 2014
in scena 15 e 16 marzo 2014

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook