“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 17 March 2014 00:00

Le dicotomie di un'artista

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Louise Bourgeois è già all’ingresso della sala del Nuovo Teatro Sanità, sulla porta che separa l’atrio dalla navata dell’antica chiesa sconsacrata. Lo spettatore distratto non la vede, ma la noterà quando uscirà e capirà che le foto sul portone di legno sono le opere che hanno segnato la vita dell’artista parigina, vissuta in America, che sono oggetto della messa in scena nel monologo di Margherita Di Rauso. I 98 anni e mezzo di vita d’artista sono lì, in quelle foto di quelle opere che consegna all’arte ed all’eternità, intrise della sua storia e del suo dolore.

A sipario chiuso l’attrice si presenta sul palco con una gonna scura, un camice grigio, scarpette comode ed un basco sulla testa. Indossa una maschera di gomma che la rende simile alla Louise Bourgeois che abbiamo visto nelle foto. Il suo ingresso è preceduto da una canzone francese, poi si susseguono e si accavallano varie voci in inglese, spagnolo, tedesco, italiano, francese che la raccontano come una delle più grandi artiste del secolo scorso. Lei, prima in francese poi in inglese, interagisce con l’ironica voce fuori campo della traduttrice in italiano, ricordando che ha lavorato quarant’anni prima di diventare famosa, che vorrebbe essere lasciata in pace, che le opere parlano per lei. Poi si ascoltano le stesse voci di prima dei vari telegiornali del 2010 che ne annunciano la morte. Realizzando che la sua vita è conclusa, che il suo tempo è finto, si toglie la maschera che ormai non le appartiene più e la Di Rauso scosta il sipario, che si aprirà, e si andrà a sedere al centro del palco dove si trova una sedia ricoperta di velluto rosso. A destra vi è un leggio. Ora la sua vita può iniziare a scorrere nel monologo dell’attrice che incarna con mille sfumature della sua voce e della sua presenza scenica un personaggio così complesso, così anticonvenzionale come la Bourgeois.
I motivi dominanti della sua arte scultorea come i falli, i ragni e le ghigliottine che l’hanno resa celebre non sono atti provocatori, sappiamo subito che sono il frutto della sua paura di bambina e di adulta. Le sue paure sono state per lei come delle pepite d’oro sprofondate dentro di sé. Non ha lasciato che le facessero del male, le ha tirate fuori e ne ha fatto delle opere d’arte. “Fare arte non è una terapia, è un atto di sopravvivenza. Una garanzia di salute mentale, la certezza che non ti farai del male e che non ucciderai qualcuno”.
La paura di non essere amata, compresa, accettata da un padre che si aspettava il figlio maschio ed invece era arrivata lei, la seconda femmina, che l’ha trattata come tale portandosela dietro nei bordelli, un padre che ha imposto in famiglia per ben dieci anni la presenza della sua amante come insegnante di inglese per i figli. L’esternazione dell’essere abbandonata si concretizza nell’azione scenica di scrivere su fogli bianchi il grido “Non mi abbandonare” che l’attrice consegna personalmente al pubblico sforando l’eterea parete che divide il suo dramma dal nostro, rendendoci compartecipi. Ecco perché la sua opera La distruzione del padre è così violenta nel racconto della sua genesi. Anche la casa scolpita nel marmo sovrastata da una grande ghigliottina racconta delle innumerevoli morti che si vivono nelle belle famiglie borghesi, al chiuso di quattro mura. L’unica consolazione di affetto forte sotto cui trova calore e protezione la giovane Louise è la madre, che sa tutto, che ha capito tutto, ma continua a lavorare nel laboratorio di famiglia di restauro di tessuti, paziente e laboriosa come un ragno a “riparare le tele delle loro vite”.
“Il ragno è un’iperbole che sorregge l’universo, ma si poggia su punti di spilli”.
Quindi le opere della Bourgeois hanno radici e si comprendono nella sua infanzia. Anche le donne-coltello non sono aggressive, come qualcuno interpretò, ma si difendono perché inermi dalla paura. La creazione è un atto doloroso, di forza fisica che permetterà all’artista di emozionarsi e, quindi, di salvarsi.
La storia dell’artista Bourgeois si presta alla messa in scena perché è teatrale la sua creatività, la sua depressione che la porterà a tentare il suicidio alla morte della madre, è teatrale nella sua continua dicotomia tra essere, sempre, donna, vecchia, bambina, artista. I momenti più intensi sono quando Margherita Di Rauso, illuminata dal solo occhio di bue, prende il microfono e dà voce ai pensieri di Louise Bourgeois spiegando le opere, descrivendo le scelte fatte per cui quelli che sembrano oggetti eccentrici e provocatori della sua arte diventano dopo del tutto naturali. Non poteva scolpire diversamente da come aveva fatto. Questa naturalezza, unità ad una intensità interpretativa che è un tratto distintivo di Margherita di Rauso, porta alla riflessione esistenziale finale sull’importanza del viaggio, non della meta. I Perché universali di ogni tempo e spazio sulla rabbia, sul dolore, sulla gioia, sull’amore non trovano risposte nella lunga vita di Louise Bourgeois.
Ha amato il suo cammino, ma alla fine della vita nulla ha più importanza.

 

 

NB. L'immagine di copertina è condivisa da Dismappa.it

 

 

Louise Bourgeois. Falli, ragni e ghigliottine (98 anni e mezzo di vita d’artista)
di
Luca De Bei 
regia Luca Di Bei
con Margherita Di Rauso
produzione Ma.di.ra
durata 50’
Napoli, Nuovo Teatro Sanità, 14 marzo 2014 
in scena
dal 14 al 16 marzo 2014

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