“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 06 March 2014 00:00

Una città a prova di bomba

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Lo spazio domestico di un salone si regala al teatro e gremisce i propri posti a sedere; la quarta parete è velo di sfoglia sottile che cede ad un contatto quasi tattile fra scena e platea. Occupa la parte di sala riattata a ribalta una donna (Federica Aiello) la cui loquela dichiara quand’ancora è fuori scena il proprio status di straniera; status che, una volta fatta la sua comparsa, si arricchirà di altre significative prerogative: straniera, di religione islamica, pasionaria della jihad.

Il nero è la tinta dominante che ne nasconde le fattezze all’esterno: nero il niqab che tutta la vela, nero perfino l’ombretto che le contorna gli occhi. La sua è una voce che cantilena quell’idioma franco che è la lingua comune della gran parte dei parlanti arabi quando abborracciano l’italiano. Ma la sua lingua non ha pretesa di verismo integrale: difatti, il monologo della donna, scheggia terrorista di una cellula che aspetta il via libera per agire, si connota sin da subito come iperbole comica, in cui l’italiano dall’accento arabeggiante si frammischia ad espressioni idiomatiche tipicamente e perfettamente napoletane che la protagonista viene a pronunciare in quella parte di salone che definiremmo proscenio.
Teatralmente lo svelamento della sua figura, il ribaltamento dell’apparenza, la rivelazione della sua missione si compiono in tre momenti significativi e concatenati: dopo aver svolto il ruolo apparente della donna di casa islamica sì, ma conformata agli usi occidentali, che ha fatto una normalissima spesa al supermercato, procede alla sua svestizione (svelamento): via il velo nero, via la lunga veste d’identico colore, si mostra una donna procace – come un’islamica integralista mai si mostrerebbe ad una platea promiscua! – che indossa abiti succinti e colorati e, mettendosi a nudo come se davvero fosse sola in casa, comincia a palesare i propri intenti: tutto ciò che ella ha acquistato, sparpagliato sul tavolo di casa, viene scaraventato violentemente in terra (ribaltamento simbolico di quanto fino ad allora apparso), mentre da altri sacchetti di carta estrae tutto il kit del perfetto terrorista: bombe, pistole kalashnikov, mine, cartucce, mirini laser e tutto il necessario al compimento di missioni omicide (definitiva rivelazione), compresa una cintura di ordigni che le pende alla vita.
Svelata la sua identità, manifesta anche la sua missione: Mira – questo il suo nome – è a Napoli per compiere un non meglio specificato attentato; per farlo è acquartierata in un appartamento e s’è dovuta calare nella realtà partenopea, con tutto quello che ciò comporta: le avances di un “omm’ azzeccuso” da fronteggiare, il citofono che trilla ed il telefono che squilla in continuazione interrompendone le preghiere rituali e facendola sobbalzare in attesa della telefonata in codice che le segnali che è giunta l’ora fatidica in cui compiere il proprio compito terroristico; ma l’ora fatidica non giunge mai, perché – ed è questa l’iperbole grottesca di fondo – non c’è città più difficile di Napoli in cui compiere un attentato: compierlo diventa impresa titanica, che si scontra coi cronici disservizi, con le imprescindibili abitudini di una città che si svuota per la partita di pallone ed in cui non puoi posteggiare un'autobomba senza fare necessariamente i conti col parcheggiatore abusivo.
I disegni dinamitardi della povera Mira sono pertanto destinati a fallire, ella se ne renderà conto solo alla fine del suo monologo, quando accerchiata da forze dell’ordine insolitamente solerti, finirà per manifestare il proprio fallimento ammanettandosi da sola, segnale di resa verso una città che è riuscita a mortificare l’onesta professionalità di una terrorista scrupolosa che aveva tentato di compiere il suo lavoro “a mestiere”, ma che si è dovuta scontrare con i classici disservizi e le ataviche contraddizioni di un contesto impermeabile a qualunque trasformazione, anche violenta. Insomma, come compiere un attentato terroristico in una città che già di suo è kamikaze di se stessa?
La partitura teatrale scritta da Antonella Platì funziona per fluidità scenica e si avvale di un’interprete capace di conferire un’anima al proprio personaggio, ancorché caricaturale e grottesco; l’intento comico raggiunge il risultato del sorriso e il lavoro messo in scena risulta nel complesso dignitoso e godibile. Riscontriamo qualche limite, nell’uso ormai classico dello stereotipo a fini satirici, che ha perduto gran parte della sua vis comica proprio a causa di certo inflazionamento; stereotipo che si ravvisa tanto nello stuolo di luoghi comuni che contraddistinguono oleograficamente la napoletanità – e che si fondano, beninteso, su un sostrato reale, che però ci pare abbia esaurito gran parte del suo senso profondamente umoristico – quanto nella connotazione dell’idioma di tutti i palanti di madrelingua araba, caricature sempre molto simili tra loro, ma molto spesso sostanzialmente divergenti dal parlato reale di costoro.
Eppure, nella sua semplicità, Un’onesta lavoratrice è lavoro che si lascia apprezzare per una certa genuinità d’intento e per la misura discreta e complessivamente apprezzabile di una scrittura dignitosamente portata in scena e ottimamente recitata.
Un onesto lavoro che è riuscito a compiersi, questo sì, a Napoli. Dove evidentemente fare teatro è più facile che fare un attentato.

 

 

Il Teatro cerca Casa
Un’onesta lavoratrice
di Antonella Platì
regia Nello Mascia
con Federica Aiello
foto di scena Cesare Abbate
durata 45’
Napoli, Interno privato, 3 marzo 2014
in scena 3 e 16 marzo 2014

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