“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 01 March 2014 00:00

Una triste mestizia

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Il tentativo di Pierpaolo Sepe, ponendo in scena il Sik-Sik nella versione del 1979 riportata all’ascolto da Giulio Baffi, è contraddistinto da due principi: universalizzazione tematica e finzione al quadrato.

Universalizzazione tematica.
Sepe cerca di rendere Sik-Sik non soltanto il prototipo di tutte le figure eduardiane o l’emblema volto-maschera del povero-furbo-che-per-sopravvivere-imbroglia-finendo-imbrogliato, bensì il simbolo di tutti i viandanti dell’arte che trascinano il loro sacco, o il loro carro, verso città differenti, percorrendo tragitti differenti, fermandosi in piazze differenti, guardati da pubblici differenti a cui si offre – tuttavia – sempre lo stesso gioco, compiuto sempre nella stessa maniera. Sepe, insomma, cerca di tramutare Sik-Sik, l’artefice magico in una rappresentazione sul mestiere di saltimbanco e di comico, di prestigiatore da spiccioli nel cappello, di commediante dal destino affamato. Nelle stoffe variopinte ma lise, scolorite, impolverate e rattoppate che indossano Benedetto Casillo e Aida Talliente dovremmo dunque intravedere tutti i rammendi compiuti nel tempo e tutte le strade battute, tutti gli approdi affaticati, tutti gli spettacoli improvvisati, tutti gli errori accumulati, tutti gli applausi mancati e tutte le sere senza paga che appartengono a tutti quei mestieranti che – fingendo di far sparire un colombo, falsificando il lucchetto con cui si chiude una cassa – cercano d’avere pane, vino ed un tetto, almeno per un giorno. Poi, domani, si vedrà.
Il processo di universalizzazione è affidato in particolare alla Giorgetta di Aida Talliente, cui si chiede di estremizzare le sue origini friulane perché la voce emetta uno stridore lamentevole in cui si confondano accenni linguistici da Nord-Est, farfugli mitteleuropei, brevi biascichi zingareschi, lamenti senza patria e – rarissima – qualche vocale larga e tonda del dialetto napoletano. A confermare questa ipotesi bastino due indizi ulteriori: la musica zigana che apre la scena-nella-scena (che compone la seconda parte di quest’atto unico che è Sik-Sik, l’artefice magico) e l’idioma finto-straniero, da vaga frontiera slava o polacca, che lo stesso Benedetto Casillo propone salendo sul piccolo palco adagiato sul palco reale, quando si tratta di recitare la sua recita, di truccare i suoi trucchi.
Alla stregua di qualche lercio fallito beckettiano o di certe maschere misere del simbolismo teatrale dovremmo quindi intendere questo Sik-Sik, che fugge dal corpus eduardiano e cerca di appartenere alla grande folla dei clown senza trucco, degli illusionisti che non illudono, degli artisti senza arte (teatrale) e senza parte (nella vita).
Finzione al quadrato.
Per accentuare la natura innaturale, quasi iconica o metafisica, di questo Sik-Sik, l’artefice magico Sepe ne calca l’ipocrisia offrendo (quando possibile) una menzogna più esplicita, evidente, ostentata. Gli sguardi diretti alla platea fin dall’inizio (quando Sik-Sik non ha un pubblico cui può rivolgersi); la reiterazione comico-ossessiva di alcuni giochi; l’interrelazione accelerata e manierata di battute e contro-battute; l’utilizzo del faro anteriore centrale per la messa-in-evidenza della frase “Se ne care ‘o triatro”; l’accompagnamento micro-mimato di alcuni passaggi (così lo “gnostia”/inchiostro prevede il breve movimento della mano, in atto di scrivere) e l’assenza d’ogni oggetto che viene indicato o nominato (l’accendino, il colombo, i catenacci vengono detti ma non sono visti giacché, in teatro, basta dire le cose perché le cose appaiano) ci suggeriscono un metateatro elevato al quadrato perché − dell’opera − ne sia palese la fattura bugiarda, inventata, furfantesca. 
Non è un caso che Sepe forzi l’interpretazione testuale facendo di Nicola un residuo da sceneggiata: camicia con colletto vecchia maniera, sguardi e pause da camorra di quartiere, la sigaretta fumata in piena scena svelano che, da un lato, il regista cerca di rendere in figura la prepotenza che contraddistingue il personaggio mentre, dall’altro, ricorda che siamo pur sempre davanti a un’esagerazione, a una mascherata, a una pantomima.
Non è un caso – ancora – che Sepe allestisca un palco sul palco, con la bella trovata di porre una fila di lampadine anteriori, alla maniera dei consunti varietà di provincia, lasciando che tra le venti luci funzionanti ve ne sia una ventunesima assente: emblema di miseria e povertà materiale. Con questo palco sul palco egli traduce il rapporto tra prima (preparazione, progetto, prova dello spettacolo) e dopo (realizzazione, conclusione, fallimento dello spettacolo), che è del Sik-Sik, in un contrasto tra sotto e sopra; tra ribalta effettiva e ribalta ulteriore, tra assito di partenza ed assito d’approdo.
È osservando la struttura scenica nella sua dimensione effettiva e ponendo, questa, in rapporto agli attori ed a noi spettatori che ci viene la suggestione più forte della messinscena: ad un punto, infatti, abbiamo uno spazio perfettamente tripartito in cui Sik-Sik e Giorgetta sono nel teatrino; Nicola e Rafele (spettatori del teatrino) sono in teatro (ovvero sul palco effettivo) mentre la platea funge davvero da platea: del teatro di Nicola e Rafele; del teatrino di Giorgetta e Sik-Sik. Per questo i due complici (che ad un tempo sono attori e spettatori, ovvero sono attori che recitano il ruolo di spettatori, ma sono anche spettatori di altri attori) siedono lateralmente: perché, centrale, vi sia lo sguardo diretto tra chi è sul piccolo palco e chi assiste nella grande – e vera – platea.
Potremmo scrivere che si genera un rapporto romboidale tra interpreti e pubblico in cui Sik-Sik e Giorgetta sono il vertice alto, Nicola e Rafele i due estremi laterali, il pubblico il punto inferiore. Ed ecco che lo sguardo va proprio ai rombi disegnati sul fondo del piccolo teatro che è stato allestito in teatro.
Se questa suggestiva organizzazione dello sguardo reciproco tra chi osserva e chi è osservato funziona, altro non funziona di questo Sik-Sik, l’artefice magico.
Non funziona – innanzitutto – il rapporto tra testo di partenza e sua resa effettiva, tanto da poter scrivere che si assiste innanzitutto alla messa in pratica di una contraddizione tra l’attenzione filologica al copione (in fondo questo Sik-Sik è innanzitutto la conseguenza pubblica di un ritrovamento privato) e la forzata manomissione scenico-registica dello stesso.
Non funziona la figura di Giorgetta poiché se – come abbiamo sottolineato – il tentativo è quello di universalizzare la vicenda poi, la vicenda medesima, la si (con)ferma comunque a Napoli: napoletano rimane Sik-Sik; napoletani rimangono Rafele e Nicola; napoletana rimane l’ambientazione; napoletano rimane il resto del dettato; napoletane rimangono certe allusioni, certe suggestioni, certe indicazioni (il teatro Fiorentini, ad esempio).
Non funziona la trovata del pollastro di plastica poiché, dopo aver giocato con l’invisibile-visibile-per-suggestione, d’improvviso si offre il visibile-davvero-visibile-per-ostentazione, per quanto lo si faccia in forma giocosa e fasulla. Sottolineatura, forse, della diversa (in)consistenza tra le illusioni magiche di Sik-Sik ed i raffazzonati rimedi che allestisce chi non è un mago né tale si dichiara (Rafele), produce comunque uno scarto gratuito, incongruente ed evitabile.
Non funziona l’ultimo frammento della recita, nel quale dovrebbe intuirsi – e soltanto intuirsi – “il singhiozzo di Sik-Sik” che la tela, “pietosa”, nasconde mentre Sepe non fa calare alcun sipario costringendo Sik-Sik e Giorgetta ad un continuo ripetersi d’inchini, di smorfie addolorate, di lacrime piene.
Non funziona la declamazione poetica finale (ad un tempo oltre-spettacolo ma spettacolo ancora) di Io vulesse truvà pace che – pur essendo un richiamo ed una sottolineatura del non-detto emotivo che appartiene alla drammaturgia di Sik-Sik, l’artefice magico (il desiderio di “Na pace senza morte”, “Pè campà”, “Senza scennere cchiù a patto c’ ‘a coscienza e ‘a dignità”) – assume il valore di un’aggiunta pletorica, quasi a voler ulteriormente spiegare il senso del pianto appena inscenato e del dolore silenzioso, della malinconia sotterranea, della triste mestizia che appartiene a Sik-Sik, che appartiene alla trama, che appartiene a Eduardo.
Che, sovente, appartiene al Teatro.  

 

 

 

I Giorni e le Notti: l'Arte di Eduardo. Atto Secondo. Eduardo con gli attori: forme della messinscena
Sik-Sik, l'artefice magico
di Eduardo De Filippo
nella versione messa in scena nel 1979
pubblicata da Guida Editori (2013)
a cura di Gulio Baffi
regia Pierpaolo Sepe
con Benedetto Casillo, Aida Talliente, Roberto Del Gaudio, Marco Manchisi
scene Francesco Ghisu
costumi Annapaola Brancia D'Apricena
trucco Vincenzo Cucchiara
aiuto regia Luisa Corcione
assistente alle scene Valeria Mangiò
foto di scena Peppe Russo
durata 50'
Fisciano (SA), Teatro d'Ateneo, 26 febbraio 2014
in scena 26 febbraio 2014 (data unica)

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