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Tuesday, 25 February 2014 00:00

Una teatrale agonia

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La funzione che il teatro nel teatro assume in Escurial di Michel de Ghelderode ricorda, vagamente, quella assunta dalla medesima pratica ne l’Amleto di Shakespeare.
Proviamo a ragionare.

In entrambi i casi abbiamo un castello divenuto un porcile, una landa desolata e buia, fantasmatica, colma di voci notturne o di ululati tremendi fatti da spettri che tornano per vendetta o da cani che abbaiano alla morte. In entrambi i casi abbiamo una vicenda di tradimento, di sporcatura della memoria o del patto sancito col matrimonio, di oscenità compiacente, di voglia di sesso che tramuta il regno in uno stato lascivo, spergiuro ed ipocrita. In entrambi i casi abbiamo qualcuno che sa (Amleto in Amleto; il re in Escurial) e, questo qualcuno, ha l’esigenza di mettere il peccatore (Claudio in Amleto; il buffone in Escurial) al cospetto del proprio peccato. In entrambi i casi il mezzo utilizzato è il teatro. Amleto – che è il vero fool dell’Amleto, essendo il discendente ideale di Yorick – utilizza un’intera compagnia perché sia esposta la colpa dello zio; il re di Escurial investe sulla propria capacità da istrione e, per punire il buffone, sottrae al buffone il suo ruolo così da poter parlare liberamente, dichiarare ciò che è avvenuto, condannare chi va condannato.
In entrambi i casi – per concludere – abbiamo una figura regale (un principe; un sovrano) che prende per proprio un impegno teatrale ed utilizza la messinscena per dire e per dirsi la verità, finora mai pronunciata.
Il teatro come diceria di ciò che è segreto; il teatro come mezzo di confessione e di illustrazione di sospetti e certezze; il teatro come strumento attraverso il quale proclamare ciò che accaduto (il tradimento) e provocare ciò che deve accadere (la morte). Il teatro come gioco che gioca col gioco; come pratica che permette a chi osserva di osservarsi; come lucido strumento d’analisi e come raffinato mezzo di tortura.
Non è un caso che, in Escurial, tutto sia finzione dichiarata fin dal primo momento; che interpretare quest'opera significhi interpretare un’interpretazione; che, nel mezzo della trama che si recita, chi recita debba recitare qualcuno che recita; non è un caso – infine – che ad un punto debba comparire anche un piccolo specchio, allusione all’arte teatrale come riflesso, come rimando, come produttrice di (s)viste ed immagini.
Comprende tutto ciò Jean-Pierre Lozano che, nel mettere in scena Escurial, assume come punto di partenza proprio l’interno gioco teatrale (il re che fa il buffone, il buffone costretto a fare il re) rafforzandolo in maniera ulteriore.
Per questo entrambi i personaggi indossano abiti bianco-blu, a sottolineare una comunanza di scena che diventa comunanza cromatica.
Per questo il sovrano ha il volto pittato di bianco giacché, se il belletto è segno teatrale, esso deve appartenere anche alle guance, alla fronte, al mento, al naso e alla barba del re, che si appresta a mettere in scena se stesso e la propria vendetta.
Per questo si assiste a un’interpretazione contrappuntata da toni, sottotoni e sovrattoni, che – ora proterva e tonante; ora mangiucchiata e interrotta – ostenta finzione, alternando la voce che prorompe in tragedia alla voce che biascica in farsa.
Per questo, quando si tratta di darsi al teatro fatto in teatro, Jean-Pierre Lozano sottolinea il momento aggiungendo dei brevi prologhi introduttivi in cui – andando avanti e indietro frettolosamente – tanto il buffone quanto il re possono anticipare i contenuti della recita che ha da venire: “Un imbecille… Stracci… Una corona… Uno scettro… Un re…” mormora il buffone, tra grattacapi e illuminazioni improvvise; “Una regina… Un re… Un buffone” declama il re, ponendo il suo sguardo agli astanti; per questo viene offerta una gestualità volutamente calcata; per questo vengono tenute e rimarcate tutte le battute metateatrali.
Ma nel suo essere teatro fatto in teatro, e nel suo proporre un cambio di ruolo, Escurial è anche un’analisi del compito che spetta al guitto, all’attore, all’artista rispetto al Potere.
Il sovrano domina la scala, su cui staziona, seduto sul trono (altro rimando shakespeariano: l’assunzione della corona è sempre una salita di gradini) mentre al saltimbanco tocca girare attorno, perlustrando l’intero spazio a disposizione. Nella contrapposizione di movimento il proprio destino: il Potere, divenuto Potere, se ne sta fisso, imperioso e centrale, finché qualcuno non ne provochi una caduta eclatante; il Teatro, in quanto Teatro, è arte da girovaghi, mestiere da viandanti. In scena ciò si traduce anche fisicamente: la stazza massiccia di chi detiene lo scettro; la piccolezza minuta, saltellante, vivace di colui cui toccano i lazzi, i trucchi ed i giochi.
Questa disparità ha, tuttavia, il contro-altare nella libertà espressiva di cui gode il pagliaccio, nella sua possibilità d’indicare, burlare ed irridere il Potere, esponendone colpe e peccati, limiti e vizi. “Vorrei anch’io ridere, comportarmi come un bruto” dice il re; “Dimenticate il protocollo” risponde il buffone: ad ognuno il proprio ruolo, la propria maschera, la propria funzione.
Ne siamo coscienti: il buffone che sa di essere un buffone, come insegna Jan Kott, non è un buffone davvero. Fa finta di esserlo, rendendo buffoni gli altri. Fa lo stolto ma è saggio, rendendo il saggio uno stolto; striscia al cospetto del grande, costringendo il grande a strisciare; si piega al più forte, inducendo il più forte a piegarsi. Ma quando manca al suo compito egli non diventa che una figura pallida e triste, inerte, larvale.
Il fool di Escurial manca al suo compito. Colpevole di aver giaciuto con la regina (che nel frattempo sconta la propria condanna oltre-scena, fatta avvelenare dal consorte), egli s’aggira con una rosa tra le dita, sospira nel vuoto, sente nel centro del petto la propria debolezza amorosa, la propria fragilità umana. Fiacco, curvo, languido, autunnale, malinconico, illividito nell’animo, egli non produce sberleffi, non genera virtuosismi, è incapace di ghigni e di bizze. Così si trascina o s’accascia; così chiede di essere risparmiato alla recita; così è costretto a prendere le sembianze del cane (anch’egli una bestia ormai addomesticata) e, quando gli viene imposto di produrre un qualsiasi motto di spirito o un’improvvisata satirica, reclama la fuga (“Mi lasciate salire nella mia soffitta? Vorrei dormire…”) o si lascia prendere da uno sconforto silente.
“Ecco settimane, settimane nere che sei apatico e fai smorfie per tuo conto! E brutte, per giunta, mentre il tuo mestiere è d’essere esilarante!” gli rinfaccia il re, conscio che questo umor scuro è – ad un tempo – la prova dell’adulterio ma anche la testimonianza che, chi poteva arrecargli danno, ormai è inoffensivo.
È vero a tal punto che il re può permettersi di fare l’elemosina al guitto, consentendogli un’ultima chance per graffiare (“Una farsa, inventala!”) ma, anche quest’occasione, finisce in una storiella monca ed inutile (“Evidentemente non hai una buona giornata! Non hai saputo sfruttare la tua farsa, eh… Dovevi strangolarmi, non sei stato l’uomo che credevo”).
Ci troviamo, pertanto, davanti a un demone ridottosi a un santo; davanti a un matto rinsavito e sciupato; davanti a un pazzoide incapace di fare la parte del pazzoide: in declino, egli non rappresenta più alcun pericolo.
Di contro abbiamo questo sovrano che si fa ipocrita, perfido e dissimulatore; che si prodiga in smancerie e soliloqui; che danza “come un vedovo, come un caprone del Sabba, come un satiro antico”. “Capisco l’arte dei commedianti” dice, e dice ancora: “Possiedo un’anima da buffone, soprattutto stasera”; “Recitiamo”; “Voglio, con i miei lazzi, dissipare i vostri dolenti pensieri”. Le parti, insomma, si sono invertite.
“Il mio mestiere è colpire” sancisce il sovrano, divenuto buffone, al buffone, ridotto in sovrano. Ecco: l’Arte che non colpisce il Potere, dal Potere viene colpita. Domata, resa prona e servile, se ne sta muta, attendendo la fine. Manchevole al proprio dovere, incapace nella propria mansione, si condanna al patibolo: capo basso, labbra chiuse.
Lozano rispetta anche questo sotto-tema dell’opera, portandolo in scena attraverso un compiuto gioco di contrappesi reciproci e di sottolineature visive. Si pensi, ad esempio, all’urlo che il sovrano emette facendo cascare il giullare dal trono. Si pensi alla scena finale in cui, strangolato, l’artista è disteso alla base della scala: immerso in una luce rossa sanguigna.
In alto il Potere è rimasto Potere; in basso l’Arte non è che una carcassa: priva di coraggio, finisce priva di vita.
In ultimo la crudeltà.
Il palco è stretto, minuto, spoglio e annerito. Nessun orpello, nessun decoro. Al centro c’è il trono, sul fondo un largo panno nero, che nasconde il retro-palco. Si tratta di una scelta. La didascalia iniziale prevede, infatti, “tendaggi opachi perpetuamente agitati da soffi d’aria”, “tappeti sforacchiati”, “chiarore sotterraneo”.
Ci piace, invece, questa mancanza di mezzi, quest’assenza di arredi che fa dello spazio un rettangolo misero, una nicchia priva di connotazioni evidenti. Sala di un palazzo, forse, o forse prigione interrata o, ancora, ultima camera di un corridoio infinito o segreta in cima a una torre, avamposto in cui si fa requisitoria e condanna, luogo di tortura e di morte. Ecco: forse luogo di tortura e di morte poiché, Escurial di Michel de Ghelderode, è un esempio di teatro della crudeltà ma di una crudeltà che non strepita inutilmente, mostrando schizzi di sangue e spasmi scomposti, ma che si propone nel suo stesso disegno, nella suo darsi come trama e spettacolo. A dircelo è, paradossalmente, ciò che non vediamo: l’uccisione della regina. Annunciata nelle prime battute, la lenta fine della donna certifica subito la consapevolezza del sovrano: egli sa del tradimento, per questo ha ordinato l’omicidio. Ma se sa del tradimento, sa anche del ruolo, avuto in esso, dal buffone. Per cui quest’ultimo, fin dal primo istante, è un condannato.
Il buffone è un morto, costretto a rimanere in vita per il divertimento del suo sovrano. Pupazzo, burattino, figura-giocattolo e quisquiglia, attrezzucolo, passatempo d’ossa e di carne che – terminato il sollazzo feroce – diventerà un cadavere da aggiungere agli altri cadaveri: ecco cos’è questo fool cui si ordina di saltare, di recitare, di fare il guascone; di tessere un elogio, di produrre un inchino, di mostrare riverenza; cui si chiede di attendere un attimo, di attendere ancora, prima che gli sia dato il colpo di grazia.
Così l’Escurial di Lozano si assume la responsabilità teatrale di rallentare il ritmo, aggiungendo qualche pausa e qualche breve momento di silenzio, frenando perché – chi osserva – osservi per bene. È una messa in evidenza questa flemma cronologica, inconsueta nel caso del teatro di de Ghelderode (messo in scena, troppo spesso, con “l’impeto e la furia” di cui parla Gianni Nicoletti in un suo breve saggio). In questa lentezza, in questa necessità di calma apparentemente accademica ma in realtà necessaria a porre in rilievo la durezza del testo, vi è un merito ulteriore della regia di Lozano, capace di fare di Escurial  ciò che è davvero: una teatrale agonia, “lunga quanto un atto di tragedia”.

 

 

 

 

 

 

Escurial
di Michel de Ghelderode
tradotto da Jean-Pierre Lozano
regia e adattamento Jean-Pierre Lozano
con Jean-Pierre Lozano, Edo Pampuro
disegno luci e suoni Angela Zinno, Luca Pagani
produzione Teatro della Potenza
foto di scena Antonella Bonelli
durata 1h
Napoli, Sala Ichòs, 22 febbraio 2014
in scena il 22 e 23 febbraio 2014

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