“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 04 February 2014 00:00

Appunti d'attore sulla palingenesi

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A teatro, dove tutto è già stato fatto, visto ed applaudito, dove nulla s’inventa e non sempre tutto funziona, può capitare di imbattersi in costruzioni d’immagini e parole che, che riempiono gli occhi riempiendosi di contenuti. È quanto accade in questo diluvio con un uomo al centro, provvisorio nel titolo, conchiuso nella sua forma teatrale, che porta in scena Valerio Malorni. Incentrato su un uso della metateatralità fondamentale nell’economia del testo, L’uomo nel diluvio vede un attore solo su di una scena semivuota, sul cui fondale campeggia un blocco di muratura messo lì ad evocare una vasca da bagno, il cui profilo stilizzato ricorda vagamente una barca; la “b” iniziale potremmo anche ometterla.

Epigono laico e contemporaneo di un Noè disincantato, Valerio Malorni – in collaborazione con Simone Amendola – congegna in forma teatrale una riflessione sul tempo e sull’uomo nel suo tempo; un orologio poggiato in terra capovolto viene imbracciato per mostrare il semplice procedere delle lancette che scandiscono il tempo, sia esso il tempo presente e progressivo, sia quello osservato da una prospettiva diacronica.
La voce roca di Bob Dylan sparata a palla gareggia in decibel con quella di Malorni, che comincia a dichiarare il suo intento di far esperienza da patriarca di se stesso e della propria vita: egli non ha un’intera fauna da salvare, non ha nemmeno un Dio a cui ubbidire, solo un lunario da sbarcare ed una famiglia fatta di moglie e figlia a cui provvedere. In comune con Noè, un diluvio, mutatis mutandis, da affrontare. Il diluvio è quello della deriva contemporanea, di una e di tutte le vite in cerca di un approdo sicuro, dell’essere risolti e realizzati.
Cavallo di Troia per appropinquarsi all’imbarco della sua personale arca è la lettura di un libro: Tutti a Berlino – Guida pratica per italiani in fuga, vademecum che pare sia andato a ruba, schiudendo ai propri lettori orizzonti inaspettati circa le modalità migliori per inserirsi nella vita berlinese. Lettura preannunciata da Malorni come fosse un regista in scena che legge ad alta voce le proprie note.
Berlino nuovo Ararat, terra promessa di speranze fulgide, approdo à la page e low cost per improvvisare prove tecniche di palingenesi per anime disperate. Lo spettacolo nel suo divenire racconta se stesso indulgendo ancora alla metateatralità: “Adesso ci sarà la musica”, e  un attimo dopo parte la voce di Domenico Modugno con Amara terra mia, canto dolente d'emigrazione.
Dall’universale si passa al particolare, dalla guida pratica per italiani a Berlino, alla guida pratica per un uomo solo in una vasca: Noè e la sua arca stanno al diluvio come Malorni e la vasca in cui è immerso stanno al microcosmo contemporaneo. È il tempo la vera componente essenziale di questo testo che si presenta come uno studio, ma che se studio è, può dirsi in fase avanzata, se non compiuta, ammesso che sia per esso prevista compiutezza. Il corso del tempo nella sua duplice veste contemporanea e diacronica, trova il proprio corrispettivo scenico nella metateatralità, metronomo di un tempo dislocato su due piani: il contemporaneo ed il tempo storico corrispondono rispettivamente alla recitazione ed al racconto che della recitazione avviene in scena.
L’arca/vasca diviene poi schermo su cui passano proiettate sequenze di immagini di Berlino, la porta di Brandeburgo, il muro caduto coi suoi spuntoni da vendere ai turisti, le sue strade, i suoi palazzi, la sua vita: Barlino emblema, città che più d’ogni altra vive il senso del tempo recente alla luce di un passaggio fra un prima ed un dopo, fra un crollo – quello del muro, appunto – ed una nuova vita. Il Noè del ventesimo secolo non ha costruito un’arca, ha preso a picconate un manufatto di cemento. Per cui Berlino diviene anche per l’attore possibilità intravista di una propria palingenesi, che passa attraverso uno spettacolo da fare, da offrire in visione all’Istituto di Cultura Italiana a Berlino. La metateatralità varca la frontiera (che più frontiera non è) per confrontarsi con una barriera, quella linguistica, che barriera di fatto non è; Malorni racconta al pubblico, ancora giocando al teatro nel teatro,  come farebbe – o come lo ha fatto – lo spettacolo per i “crucchi”. Ed è qui che risiede un altro fondamentale senso intrinseco a questo spettacolo, che lo fa piacere, ed anche tanto, ovvero il senso del linguaggio e della comprensione extra-verbale: gli spettatori tedeschi non capiscono quel che egli dice, comprendono solo che un uomo è stato lasciato in mutande (perché è così che si mostra dopo l’iniziale vestizione). Ma qual è il senso profondo di un attore in mutande che si rivolge ad un pubblico che non comprende il suo idioma? Il senso ultimo risiede nella presa di posizione contro un teatro di maniera, statico, che pur parlando non dice nulla; il senso ultimo risiede nella ricerca di un linguaggio e di una forma che siano in grado di comunicare ancora qualcosa, travalicando il senso verbale, che può anche sfuggire alla comprensione immediata, ma che assolve ad una parte del suo compito realizzando un incanto. “Nessuno capisce niente, verrebbe da dire. Ma non è così”, ammonisce Malorni dalla scena. Il teatro è arte comunicativa fine, destinata, quand’è teatro davvero, a lasciar sedimento di sé, traccia palese o anche segno intangibile sottotraccia, assolvendo così ad altra parte del suo compito.
E così ci si può commuovere per l’articolo di un critico di Der Spiegel, un critico che non avrà capito una parola, ma avrà compreso il senso più profondo di quell’essere sulla scena; così ci si può commuovere per quell’articolo che se non ci fosse stato avrebbe dovuto esserci, con ciò legittimando anche il ruolo testimoniale per il teatro di chi racconta quel che la scena produce.
Un attore, novello patriarca, sulla scena racconta quel che è possibile salvare grazie al proprio mestiere, alla propria arte, che permette di affiggere su un brogliaccio appunti per una palingenesi possibile. Fuori piove, dappertutto per l’uomo contemporaneo diluvia, sulla parete di un’arca improvvisata Gene Kelly danza cantando sotto la pioggia.
L’epilogo è diluvio di applausi.

 

 

 

L’uomo nel diluvio #studio n°2
drammaturgia e regia
Simone Amendola, Valerio Malorni
con Valerio Malorni
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Teatro Start/Interno 5, 1° febbraio 2014
in scena 31 gennaio e 1° febbraio 2014

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