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Wednesday, 29 January 2014 00:00

Verso Itaca (ma anche no)…

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C’era una volta. Chissà dove, chissà quando. È stata la volta di una storia di uomini, diversi e vicini, innocenti e colpevoli, signori e servi, sottomessi e ribelli, figli e genitori di una stessa natura, di uno stesso stato di esistenza: il destino. Destino che dice di individualità che, costrette da un giogo beffardo ed alienante, si ritrovano a coesistere in nome di una ‘fame’ incancrenita, di una ragione così schiacciata dall’oblìo dell’insana abitudine che non sa più trovare altro rifugio che la follia.

È stata, ed è, appunto, una storia di semiordinaria follia: quella di quattro uomini, disperati prigionieri a bordo di una nave a largo chissà da quanto, uniti dalla sola speranza di tornare a vedere la luce della terraferma, ferma come la ragione.
Dondola la speranza, come le botti cave che ruotano in scena: a riempirle i corpi, e le spesse voci, di quattro vite in cerca di una possibile salvezza. Tutto parte da un mattino qualunque, come di innumerevoli ne sono già trascorsi, e tutto si presenta secondo il solito quotidiano rituale. La luce si dispiega e trova quattro superstiti alle prese con il dovere di resistere, chi più chi meno, ad un’altra giornata uguale, dove tutto avrà il diritto di ripetersi senza lo scampo di una diversa fuga. Fuggire se involontaria è la dimensione del viaggio intrapreso, involontaria se il viaggio nasconde un inspiegabile e triste esilio.
C’era una volta la storia grottesca di un altrettanto esilio. Quello di suor Veronica, buffa, irrisolta, metodica ed ossessionata vittima di una strana maniera di concepire la volontà di Dio (“direttamente in collegamento con il Padreterno”) al punto da credere di portarne in grembo il Figlio. Quello di Totore, suo fratello, vittima (solo ora consapevole) della natura infausta del suo matrimonio con Titina. Esule è anche questa donna, fuori di sé, abbandonata al ricordo della piccola Annina, forse tragicamente finita dalla forza del mare, all’ombra del folle silenzio complice del padre e della zia. Esule, ragioniere di fatture, è poi lo zio Peppe: nella misera fame, non conosce altro espediente per (non) dire di no al Male.
Quattro diverse esperienze di ostinazione, di solitudine dall’altro e da sé, in un groviglio di pensieri ed azioni, di parole e gesti, in un vuoto di disperata incomprensione.
Santini sparsi, preghiere a ripetizione, polveri da contro-fattura: penserà a tutto un fantomatico ‘San Gioacchino’, come se la Fede non prevedesse la cosciente responsabilità dell’uomo.
“Ma è ‘na galera 'stu passagg'”, sussurra Totore, sotto l’onta di  un tempo che scorre con troppa lentezza. Già, una galera di follia. Intanto la nave va, “s’allucca, s’abball', se schiatt'” ma nessuno saprà mai perché.
Nave galera, nave rifugio: otre dei venti di una verità da custodire e non rivelare, galeotta la vita stessa.
Le ultime fiamme di candele sparse fanno luce sulle vele stanche, ora vessilli di speranza ora croci della fragilità umana.
La nave dei folli prosegue il suo viaggio, forse alla ricerca di Itaca, forse di un Brant divertito e compiaciuto alla scoperta degli istrioni di un certo Teatro di Legno.
C’era una volta, e forse c’è ancora. Non importa se la meta è lontana, tantomeno se questa non è altro che utopia. Conterebbe riconoscere d’aver perduto la ragione di noi e di esserne ancora alla ricerca. E se lo scoprissimo, che certezza avremmo di essere uomini?
“Stammc' zitt’”.
Cronaca semiseria di una sera in cui ben si recita a Sciapò: in alto il pollice o, meglio, il cappello!
Verso Itaca (ma anche no)…

 

 

 

 

 

La nave dei folli
drammaturgia e regia
Luigi Imperato, Silvana Pirone
con Annamaria Palomba, Silvana Pirone, Domenico Santo, Salvatore Veneruso
produzione Teatro di Legno
costumi e scene Luigi Imperato, Silvana Pirone
disegno luci Paco Summonte
Caserta, Teatro Civico 14, 26 gennaio 2014
in scena 26 gennaio 2014 (data unica)

 

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