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Sunday, 26 January 2014 00:00

Il passato, al presente

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Possiamo chiudere con il passato, ma il passato non chiude con noi.
                                                               (William Shakespeare)

 

Le casse da trasporto-bibita con su scritto “Staro”, “Effeti”, “Lattebusche”, “Delta Lat”, “Sorgente Alba”. Due piani di legno reclinato che saranno – di volta in volta – tavolo da gioco, binari di una stazione, insegna di un negozio, pedana su cui sedersi, tombe ed esplicita indicazione al pubblico delle parole “Fame” e “Fine”. Sacchetti di polenta istantanea. Pile di cioccolatini Boero. Carte dei cioccolatini Boero, lasciate cadere per terra. E questo dialetto veneto che graffia l’italiano di base, i riferimenti crona-localistici, le allusioni al Nord-Est ed all’effimero imbroglio dell’illusione economica compiute da un fratello e da una sorella, da un "fallito professionista" e da un’aspirante anoressica, da un suicida che non ha il coraggio davvero di suicidarsi e da una suicida che non ha il coraggio davvero di suicidarsi. Questo ed altro in Mio figlio era come un padre per me.

Questo ed altro: l’odio generazionale per chi è venuto prima, il senso di inutilità di chi è venuto adesso; l’apatia e l’ignavia che si confonde con la stanchezza; certa cinica capacità di leggere il declassamento veneto, la crisi italiana, il cedimento europeo. Questo ed altro: il fastidio verso i genitori, il fastidio verso chi ci ha preceduto ed ha creato creandoci, il fastidio verso chi ha fatto e forse non lascia più fare. Questo ed altro: una partitura teatrale composta da monologhi fusi in dialoghi, che si sviluppa per alternanza (parla lui, parla lei) per intrecciarsi poi in un confronto ed in un reciproco accompagnamento in cui – di volta in volta – l’uno è la spalla dell’altra e viceversa. E lo sguardo diretto sul pubblico, i cambi di scena fatti a vista, l’assenza di vere finzioni, se si esclude questa finzione evidente di proporre in ribalta due fantocci eccessivi, due figure digrossate e grottesche nei tratti ma – proprio per questo – tremendamente reali (come ci insegnano cinquant’anni di letteratura dialettale).
Questo ed altro. Questo, altro ma − soprattutto − due spettri.
Sì, due spettri, due ombre, due fantasmi, una doppia sagoma buia fusa e segreta nel buio di retro-scena. A chi scrive, infatti, sembra che il vero protagonista di Mio figlio era come un padre per me non sia questo giovane Lui che lavora “per lavorare” (“Il fine giustifica il fine”) colmando di Spritz le pance vuote degli operai della grande fabbrica paterna; né che sia questa Lei che rinuncia al cibo che fa nutrimento (conquista alimentare ottenuta attraverso la crescita e l’affermazione economico-familiare) per riempirsi, invece, di zuccheri effimeri (perciò i bonbon col liquore: simbolo dell’eccedenza e dello sperpero, allusione a ciò che riempie senza far crescere, a ciò che colma senza produrre sviluppo, a ciò che placa la fame senza produrre salute). No, non sono loro due – non sono i figli – i protagonisti di questo spettacolo ma sono gli altri, gli altri due, quei due che non vediamo ma che pure occupano il palco con un’ossessività preoccupante; sono quei due di cui non conosciamo la voce ma di cui, pure, ci giungono le parole; sono quei due che sono spariti, che adesso hanno lo stesso peso dell’aria, la stessa consistenza del niente, ma che pure costringono questi due – questi giovani due che perdono tempo a pensare come uccidersi per uccidere chi li ha messi al mondo – a darsi da fare, ad agire, a pensare, a mettere in pratica, a trovare una fine.
Sono i genitori i veri protagonisti di Mio figlio era come un padre per me; sono i genitori – ovvero la generazione che “ha lavorato, ha risparmiato, ha sfondato” – ad occupare davvero la scena, quasi confermando che il mondo di oggi appartiene a chi lo ha occupato l’altro ieri; a chi lo ha fatto proprio per primo; a chi lo ha deformato a propria immagine, col proprio sforzo, secondo il proprio bisogno.
Vediamo quindi questo Lui e questa Lei impegnati a pensare a come far fuori i loro procreatori (“Uccidiamoli con un coltello, con un martello, con un cacciavite o un fucile da caccia”; “Il modo migliore di uccidere un genitore, senza lasciare tracce, s’è lasciarlo marcire nei sensi di colpa”; “Nel nostro caso il modo migliore è che uno tra mi e ti mora suicida”) mentre – i loro procreatori – si fanno fuori da soli: sopraffatti dai conti, col fallimento negli occhi ed, alle calcagna, le richieste di credito e la vergogna ormai prossima. “Imprenditore vicentino, sopraffatto dai debiti, si getta sotto un treno”.
I due figli hanno ottenuto cosa desideravano? Per un attimo credono davvero di avercela fatta e festeggiano come si festeggia la vincita di una scommessa con gli amici: “Bevilo, bevilo, bevilo, bevilo, bevilo, bevilo tutto d’un sorso!”. Ma la vera risposta è “No”. Non hanno ottenuto quello che neanche riescono ad immaginare (libertà, indipendenza, affermazione di sé; gestione autonoma delle proprie azioni, del proprio tempo, delle proprie risorse) perché i genitori rimangono: rimane il loro testamento e − dunque − rimane la loro volontà, rimane la loro versione dei fatti, rimane la loro abitudine a dare ordini, a mettere in chiaro, ad imporre, indicare, far fare.
I genitori rimangono e, perciò, sono i veri protagonisti di quest’opera.
Rimangono. Ed infatti Lui vede nei tratti del proprio volto i tratti paterni; Lei ripete le stesse parole che le disse la madre; Lui porta il cognome di suo padre; Lei indossa ed interpreta la smania estetica di sua madre.
Rimangono. E così fuori-scena si ascoltano frasi che hanno la funzione di reprimende, esortazioni, mormorii paterni e si ascoltano come s’ascolta una voce che cala dall’aldilà, dall’alto, dall’altrove, dalla memoria, dal ricordo e che adesso funziona come ossessione, come tormento, come insistente permanenza sonora: “Sveglia, devi lavorare, spezzare la schiena dei giorni feriali”; “Mangia, ti prego mangia qualcosa: sei pelle e ossa”.
Rimangono. E perciò viene raccontata la loro storia, il loro destino, la loro avventura: la nascita della ditta, l’affermazione, la crescita, l’espansione commerciale; il fascino, il prestigio, la vittoria ad un concorso di bellezza e la carriera e gli acquisti, il possesso e l’agiatezza, la felicità e l’infelicità, il successo e la caduta.
Rimangono i due genitori. Rimangono come rimangono le parole di Cesare, rimangono come rimane lo spettro di Amleto. E non è un caso, quindi, che tornino – nel mezzo di tanto veneto linguistico/tematico (la polenta, "i Boeri", il “noce del Brenta”, il mais marano e i riferimenti agli uffici, alle fiere e ai capannoni da distretto industriale) – anche rare e “sporche” allusioni shakespeariane alle uccisioni dei padri da parte di figli, ai desideri di vendetta dei padri per conto dei figli. Ecco il Giulio Cesare di Cesare e Bruto; ecco l’Amleto di Amleto padre, Amleto figlio, di Ofelia, di Fortebraccio.
Questo perché Shakespeare – più di ogni altro uomo mai apparso sulla Terra – comprese che la Storia è una successione di teste diverse sotto la stessa corona, è un sanguinario passaggio di consegne ed è un destino che si trasmette di padre in figlio come fosse un virus o una malattia: tu che uccidi me, sarai ucciso a tua volta.
Ma Shakespeare – più di ogni altro uomo mai apparso sulla Terra – comprese anche che, ad un punto, c’è un figlio che sa di dover agire ma che non riesce ad agire, che è torto dai propri pensieri, che è vittima della propria flemma, che – dal destino – risulta schiacciato. È il caso, ad esempio, del principe di Danimarca, al quale l’obbligo di giustizia e vendetta viene imposto dal fantasma, al chiaro di luna, in una notte trascorsa a passeggiare sulle mura di cinta di un castello che pure abita, ma che non gli appartiene. Amleto non definisce la propria situazione, non la crea, non la cerca, non la determina: è la situazione che crea, cerca, determina Amleto facendone un Amleto.
Così questo Lui che vediamo in Mio figlio era come un padre per me ricorda una sorta di Amleto finito in una tragedia di cognome e denaro: un ozioso, un inetto, un fallito che non sa che compiere la vendetta verso il proprio stesso genitore se non mettendo in scena un “rito-tabù” grottesco e ridicolo. Accanto a lui – ad usare il teatro come va usato il teatro – una specie di Ofelia, non più amante ma sbiadita a sorella: tuttavia anch’ella oca, querula, vanitosa, fragile, stupida, incapace di dire la cosa giusta, di capire quand’è il momento di capire davvero.
Naturalmente la suggestione non deve confondere: trattasi, forse, di un'ipotesi che appartiene soltanto a chi scrive in questo momento. Ma la vaga venatura shakespeariana è qualcosa che ci sembra stia sotto, dentro, tra le pieghe di questo spettacolo davvero interessante, capace – ad un tempo – di alludere al tema della successione generazionale (“Io ti ho fatta mamma e io ti disfo”) quanto alla storia del Nord-Est, che si credeva luogo dei balocchi e s’è scoperto, anch’esso, un parco giochi in via di chiusura (“Nel giro di un quarto d’ora siamo passati da essere la locomotiva d’Italia… a passarle sotto”). Shakespeare sta sotto tutto questo locale, tutto questo personale, tutto questo veritiero ed immediato; sta sotto perché se – a prima vista – si offre una declinazione teatrale del tema dell’eredità, il vero tema profondo è l’ereditarietà ovvero: non il passaggio di una cosa dalle mani anziane alle mani più giovani, ma l’imposizione di una condizione a chi è più giovane, da parte di chi è più anziano.
Amleto, Ofelia, Fortebraccio hanno una vita decisa in partenza, in cui non vale neanche la pena rischiare, in cui si trovano implicati loro malgrado. Amleto, Ofelia, Fortebraccio sono vittime sacrificali della permanenza dei padri, delle loro azioni, delle loro scelte, dei loro scopi e dei loro maneggi. Compiono ciò che hanno da compiere e ciò che hanno da compiere e tutto quello che devono compiere. Non v’è possibilità di correzione ad una trama già scritta; non vi possibilità di fuga, di nascondiglio, di sottrazione di sé.
Così questi due giovani veneti sono costretti a prendere atto del loro fallimento – condizione che segue al fallimento genitoriale; così come la loro agiatezza era la conseguenza dell’agiatezza genitoriale – e se pure cercano di lottare contro padri e madri che restano – in forma di spettri o di voce sonante – non possono far altro che celebrare un funerale da farsa (in cui provano a uccidere anche se stessi o quella parte di se stessi che coincide coi genitori), inscenandolo con atteggiamenti da pantomima e concludendolo con una rabbia da rivolta retorica e che vale pochi spiccioli.
Resti carnali di corpi defunti; sono avanzi, residui, rimanenze, sono briciole d’un pasto che si è già consumato, sono le orme lasciate da chi ha già percorso il suo giro. Sono eccedenze che sopravvivono in nome e per conto e per colpa di chi è già vissuto: stanno in scena, occupano spazio, compiono gesti, parlano, progettano, si confrontano, azzardano, ridono e fanno ridere, s’infuriano, insultano, battono i piedi, assumono pose magniloquenti o si rodono, si torcono, si piegano su se stessi ma ogni loro atto – ogni loro pensiero – sembra essere inutile, puerile, ininfluente: perciò lui lavora soltanto per lavorare, perciò lei mangia soltanto per mangiare. 
Loro non contano, contano i genitori. Il presente non conta, a contare è il passato.

 

 

 

 

 

Mio figlio era come un padre per me
di e con Marta Dalla Via, Diego Dalla Via
aiuto regia Veronica Schiavone
partitura fisica Annalisa Ferlini
datore audio e luci Roberto Di Fresco
scene Diego Dalla Via
costumi Marta Dalla Via
foto di scena Sara Rizzo
lingua italiano, dialetto veneto
durata 55'
Napoli, Start Teatro/Interno 5, 24 gennaio 2014
in scena 24 e 25 gennaio 2014

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