“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 12 November 2012 11:17

I dettagli dei giorni

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"Quanto tutto ciò è lontano, quanto è vivido, quanto è immutato dall’eternità, quanto è deturpato dal tempo!".
Le briciole perse nel letto, assieme ad un pezzetto di buccia d’arancia; gli scricchiolii, i passi cauti, il ronzio in un orecchio nel mentre l’occhio perde la scena che ha tanto cercato: ecco un distinto ricordo parziale. Parziale quanto parziale è la figura d’un vecchio conosciuto oltre frontiera: il mento rasato, le occhiate improvvise e quella seduta da romanzo russo ponderoso, con la mano tozza sul grifone del bracciolo della poltrona, accompagnato dall’unica vera chiarezza tangibile: "una scatola d’argento simile a una tabacchiera, ma che in realtà conteneva una piccola quantità di pasticche o, meglio, di pasticchine per la tosse color lilla, verde e, se ricordo bene, corallo". La stanza con la carta parati rallegrata da grandi farfalle; gli scaffali di legno bianco con sopra i volumi di Keats, Yeats, Coleridge, Blake e di quattro poeti russi ormai senza nome; una gigantesca saponetta alla lavanda ed una deliziosa pasta dentifricia.

Ed ancora: "la nuca pelosa di un uomo in piedi vicino alla finestra, le mani intrecciate dietro la schiena"; la ciclica spuma del mare che sopraggiunge con moto lento e burlesco; il rumore che fa un granello di grandine quando colpisce un barattolo. Una bocca lievemente imbronciata; l’incavo tra l’ultima costola e l’inizio dei fianchi; l’ombreggiatura di una piccola parte del collo: frammenti, avanzi dello spazio e del tempo, fragili barlumi rimasti di visioni altrimenti destinate a sbiadire del tutto e di cui, invece, rimane la flagranza d’un suono, il tono di un colore vivace, una e una sola sensazione ancora vivibile.
"Quando si legge – scrive Vladimir Nabokov nel disperso Lezioni di letteratura – bisogna cogliere e accarezzare i particolari. Non c’è niente di male nel chiarore lunare della generalizzazione, se viene dopo che si sono amorevolmente colte le solari inezie del libro".
Questa legge scolpita ad inchiostro – che ci permette di ridere di chi tratta Madame Bovary  "con l’idea preconcetta che sia una denuncia della borghesia" senza comprenderne invece che il valore è nelle lunghe ciglia curve di Emma, nei suoi denti madreperlacei, nei suoi capelli d’ebano e in quelle sue unghie brillanti "come l’avorio di Dieppe" quando è colto in pieno da un raggio – vale tanto per la scrittura quanto per la vita vissuta: anche d’essa, infatti, non restano che i particolari ovvero "le solari inezie" che hanno resistito all’accumulo plumbeo dei giorni.
Nella presente memoria – intitolata Guarda gli arlecchini! – Nabokov intreccia, a guisa di monogramma, mogli inesistenti e libri realmente già scritti (tant’è che è uno spasso nello spasso riconoscere la reinvenzione della sua bibliografia; gli accenni di trame già date; le maniere di baloccarsi con l’ossessione Lolita), componendo, in apparenza immediata, la vicenda d’un autore che passa dalla fuga giovanile ad una letale caduta sclerotica passando per carezze femminee, émigré russi, trionfi letterari tra letterarie invidie mediocri: l’opera si direbbe un romanzo con quel tanto di autobiografia mal celata.
Ed invece Guarda gli arlecchini! ha, come le monete, il proprio valore in filigrana: composizione obliqua ("obliqua in quanto, più che narrare avvenimenti prosaici, descrive miraggi di natura romantica o letteraria"), accerta il passato come riviviscenza di descrizioni d’eventi, "reali o più o meno immaginari", in forma di distinzione ormai logora. Latenze tattili, accenni pittorici, rimanenze di chiacchiere compongono immagini verbali, le immagini verbali compongono la nostra storia personale: "Noi pensiamo per immagini e non per parole, e fin qui siamo d’accordo; però quando, a mezzanotte, componiamo, richiamiamo alla memoria o riformuliamo mentalmente qualcosa che vogliamo dire nel sermone di domani, o che in un sogno recente abbiamo detto a Dolly, o che desidereremmo aver detto a quell’insolente ispettore del college vent’anni fa, pensiamo naturalmente per immagini verbali, finanche udibili se siamo soli e vecchi. Di solito non pensiamo per parole in quanto la vita è un mimodramma, ma è indubbio che, se necessario, immaginiamo delle parole, proprio come immaginiamo tutto ciò che è percepibile in questo mondo, o in un mondo ancora più improbabile".  
Immaginiamo (o ricordiamo, immaginando) tutto ciò che è percepibile in questo mondo: la natura granulosa del talco di cui ci si cospargeva allo specchio; l’immensità di una vasca da bagno modesta; il suono della voce di un parente perduto. Gli occhi rossi di un pianto, la maniera d’abbandonare una storia, gli ultimi passi compiuti nella strada natia. Una lampada dall’incerto colore, un tonfo proveniente da chissà quale stanza, l’attimo in cui avremmo voluto dire e non abbiamo poi detto. Dettagli galleggiano tra lacune e lacune, li afferriamo, li asciughiamo col fiato, li sistemiamo alla meglio: con essi improntiamo la recita dei momenti annegati per sempre.
"Smettila di tenere il broncio! Look at the harlequins! Guarda gli arlecchini!". "Quali arlecchini? Dove?". "Oh, dappertutto. Tutt’intorno a te. Gli alberi sono degli arlecchini, le parole sono degli arlecchini; anche le situazioni e le addizioni. Metti insieme due cose – due arguzie, due immagini – ed eccoti un arlecchino triplo. Avanti dunque! Gioca! Inventa il mondo! Inventa la realtà!". Così un’anziana prozia incitava il giovane Vladimir. Forse.
Forse, perché il vecchio Vladimir suggella l’immagine verbale così: "Lo feci. Per Giove, se lo feci. Inventai una prozia in onore delle mie prime fantasticherie, ed eccola scendere lentamente, in obliquo, in obliquo, i gradini marmorei del porticato del ricordo, gracile dama zoppa, toccando il bordo di ogni gradino con la punta di gomma del bastone da passeggio nero".
Della stessa sostanza di cui è fatta Emma Bovary, forse, è la prozia di Nabokov.
Della stessa sostanza, forse, è ogni nostra verità ricordata: quel luogo, quel giorno, quel viso e quella parola che abbiamo detto o che abbiamo trattenuto per sempre.


Vladimir Nabokov
Guarda gli arlecchini!

Traduzione a cura di Franca Pace
Adelphi, Milano, 2012
pp. 293

                                                                                                                             

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