“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Paola Spedaliere

La vita sospesa di una donna che spera

Un cinguettio allegro sembra riempire la sala del Teatro Nuovo mentre gli spettatori entrano in platea per assistere a Ombretta Calco di Peppino Mazzotta, testo che sembra cucito addosso a Milvia Marigliano dall’autore Sergio Pierattini.

L’odissea tragicomica di due donne di malaffare

Il palco del Teatro Nuovo è stato trasformato nella tolda di una nave che solcava i mari degli anni ’30, il gran pavese disegna in alto un triangolo di bandierine, poi ecco una postazione sulla destra, dove una donna vestita da capitano annuncia i vari capitoli della saga tragicomica delle due protagoniste. Completano il quadro due grossi bauli, due leggii al centro palco. Le luci verdi e rosse accompagnano l’ingresso in scena di Poppina, un Enzo Moscato vestito di nero, con un cappello di paglia e una stola sulle spalle, senza scarpe e con i soliti calzini che sono un tratto distintivo del suo aspetto scenico.

Che cos'è il governare?

Dieci attori sulla scena di cui tre donne. Assente il sipario. Entrando in platea alcuni degli interpreti già sono sul palco, disposti e illuminati da gruppi di tre fasci di luce come se fossero in un quadro di Caravaggio.
Il primo gruppo a sinistra è composto da due donne ed un uomo; stanno seduti su delle sedie, disposte diversamente tra loro, e guardano in direzioni diverse. Al centro, seduti su un alto gradino scuro posto in fondo al palcoscenico, siedono un uomo e una donna, a destra siede l’ultimo gruppo, composto interamente da uomini vestiti di nero. Attori che si apprestano alla recita. Di cosa? Sin dalle prime battute è chiaro il focus politico della lettura che l’Angiulli dà di Misura per misura di Shakespeare: “Che cos’è il governare?” ed “il potere cambia l’anima?”.

Batman e due dei sette nani

La Compagnia Il misterioso collettivo del Nano Egidio ha messo in scena al Teatro Civico 14 di Caserta uno spettacolo definito "comico" che ha bisogno solo di tre attori, alcuni pupazzi e nani da giardino, un piccolo teatrino con le tendine come quello dei burattini ed un sapiente gioco di luci che illuminano i personaggi in azione sapendo dosare buio inchiostrale per i cambi di scena e tagli diretti e obliqui di luce sui protagonisti.

La bugia salva dalla monotonia

Le quinte coperte da pannelli di legno consunto e stinto portano lo sguardo dello spettatore verso il fondale dove è dipinto uno squarcio di Venezia, si vede la laguna, una cupola che si staglia sul cielo azzurrino e le nuvole leggere come nei dipinti di Tintoretto. Sulla scena vi sono solo delle semplici sedie di legno che completano tutta la scenografia.

Un quadro, uno specchio e la realtà

Sul palcoscenico si presenta a sipario aperto un letto matrimoniale essenziale, con due cuscini poggiati con noncuranza, dietro di esso di erge tutta la scenografia che è composta da una serie di grandi parallelepipedi messi uno accanto all’altro su cui vi sono una serie di linee oblique, verticali ed orizzontali che si intersecano.

Ritratto di giacobina napoletana

Lo spazio scenico ristretto come quello del Ridotto del Teatro Mercadante permette solo scelte registiche essenziali e funzionali. Sara Sole Notarbartolo, la regista dello spettacolo della prima parte del trittico Inizio, sviluppo, fine di donna Lionora tratto dal romanzo di Enzo Striano Il resto di niente, incentrato sulla figura della giovane giacobina Eleonora Pimentel Fonseca, compie un lavoro ulteriore sulla messa in scena: la rende evocativa attraverso le ombre cinesi.

Molière, il grande assente

Scenografia, assente. Solo due grossi fari sul palco che cambiano colore ed altre luci dalla cabina di regia. Solo tre attori sul palco che giocano a mettere in scena un Don Giovanni di Molière visto in chiave moderna, che non produce gli effetti sperati.

Un poco tranquillo weekend di follia

Un vecchio televisore catodico poggiato su alcuni libri dalle copertine in brossura si trova al centro del proscenio, fuori dal sipario chiuso. Quando questo si apre, colpisce l’assito che pende verso la platea, come se la scena stesse scivolando verso il pubblico, in bilico tra realtà e rappresentazione. Un piccolo tavolino con due sedie si trova alla sinistra del palco illuminato da una lampada a piantana. Sul tavolino campeggia un posacenere kitsch a forma di un’inquietante testa umana sovrastata da una palla che, premuta, fa sparire le cicche. Sulla destra ci sono: un divano a tre sedute, un tavolino basso, alle spalle un mobile bar con giradischi, molti libri, qualche bottiglia di liquore. In posizione quasi laterale, ma incombente con le sue dimensioni, vi è un grosso balcone che affaccia su una trafficatissima strada romana, al piano terra.

Il lupo cattivo che è dentro di noi

La scenografia di Chi ha paura di Virginia Woolf? è già una lettura del testo che spiega la dinamica principale che muove i personaggi sul palco. Questo è occupato nella parte finale da una pedana su cui si fronteggiano a destra e a sinistra due divani beige, ravvivati da un grosso cuscino rosso che richiama nella tinta una parte del quadro moderno di non facile interpretazione posto sul lato sinistro, in posizione non centrale, ma nemmeno periferica.

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il Pickwick

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