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Wednesday, 26 July 2017 00:00

Belgio, istruzioni per l’(ab)uso

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Mi era capitato di incontrare Jan Fabre lo scorso settembre, mentre era di passaggio a Napoli, ritrovo un suo spettacolo al Politeama nel corso del Napoli Teatro Festival edizione 2017. Da quell’incontro conservo un’immagine mitigata dell’artista dissacrante che la vulgata dipinge, un’impressione che volge più verso l’idea un personaggio dall’inventiva talentuosa ma anche furbesca.

Talento e furbizia che mi pare di riscontrare anche in Belgian Rules, andato scena in anteprima mondiale al Napoli Teatro Festival e nel quale la genialità contraddittoria dell’artista anversese condensa quelle peculiarità ben riscontrabili – ad esempio – nei frammenti del Giornale notturno, in cui le punte acuminate del pensiero si mescolano al livello basale del basso corporeo, intridendosi le une dell’altro. Ecco, quel che la penna di Fabre era stata capace di assemblare nelle tessere di un mosaico lungo due volumi, appare ricomposto, mutatis mutandis, sulla scena in Belgian Rules.
Belgian Rules è uno dei due spettacoli – l’altro era stato Genesis 6, 6-7 di Angélica Lidell – che il cartellone ha proposto nella sezione internazionale; in particolare, Belgian Rules faceva il suo debutto proprio nella kermesse partenopea. Entrambi hanno dato la stura a considerazioni variabili, a reazioni divise, entrambi hanno insomma svolto quel ruolo tipologico che spetta a quel genere di spettacoli che lasciano sul tappeto un bel po’ di questioni – per lo più destinate a rimanere irrisolte e prive di una risposta univoca e definitiva – e uno strascico anche proficuo di discussioni che contribuiscono a tenere vivo un dibattito sul contemporaneo, su cosa sia, su cosa significhi e su quanto determinati artisti ne siano rappresentativi.
La domanda da cui mi piace partire è proprio questa: quanto Angélica Liddell e Jan Fabre sono rappresentanti significativi del teatro contemporaneo? E quanto – forse, non so, ipotizzo – rappresentano invece soltanto la propria idea di teatro o – in senso più estensivo – di arte?
Personalmente, tendo a propendere per questa seconda ipotesi; non ho visto Genesis 6, 6-7, ma avevo visto Las puertas de la carne nel corso di Misteri e Fuochi a Brindisi nel 2015 e ne conservo un’impressione di sostanza criptica, il cui valore evocativo, incasellato in un mastodontico piano spettacolare itinerante finiva disperso e smembrato, privo di un’unità di senso che riuscisse davvero a colpire lo spettatore trasmettendogli qualcosa di potente, com’era negli intenti. Discorso analogo, ancorché con i necessari e numerosi distinguo del caso, è quello che può riguardare la poetica di Jan Fabre e in particolar modo questo Belgian Rules, che nella spettacolarità colossale del suo impianto, pur manifestando una cifra stilistica personale, mi appare più rappresentativo di una visione individuale poetica (e, perché no, anche venata d’una componente onanistica), che vede il suo autore offrirci una sua particolare – e particolarmente frondosa – visione del mondo, e segnatamente del patrio microcosmo belga, non ascrivibile ad una categoria di genere ben precisa, se non ad una personalissima idea di teatro – o in senso più estensivo di arte – ovvero quella dell’autore stesso.
Il Belgio ed i suoi stereotipi diventano materia di trattazione ed assumono la forma colossale di uno spettacolo performativo e circense, che comincia fra spruzzi di birra e termina dopo aver distillato l’ultima goccia di sudore degli attori. La pioggia orizzontale, la bruttezza di un quartiere come Molenbeek, le patatine fritte, che sono tipiche belghe ma si chiamano French Fries, le biciclette che attraversano la scena, i fiamminghi e i valloni, le identità differenti, cui si mescola un’anima tedesca e che convivono accanto nei tre colori della bandiera – il nero vallone del carbone, il giallo fiammingo delle patate ed il rosso colorito dei crucchi – tutto ciò prende in scena la forma di un enorme apparato spettacolare, fatto di marce e balli, di corse e tamburi rullanti. Un rutilante carnevale in salsa (di birra, ovviamente) belga, con coriandoli e majorettes, è quello orchestrato su scena da uno stuolo di piccioni giganti (“smerdatetti” che costituiscono un’altra tipicità del Belgio), mentre negli interstizi performativi, un uomo/porcospino enuclea le sue considerazioni sul teatro e sulla crudeltà, nelle quali sembrerebbe condensarsi la “visione” artistica di Fabre stesso. Un visione, va detto, che qui pare ripiegarsi su se stessa, in un compiaciuto estetismo che tende a dilatarsi oltremisura, a sfiancare, a portare allo sfinimento come estrema prova di provocazione; ma è una provocazione che non provoca, che non possiede il nerbo squassante e spiazzante dell’opera memorabile: mentre gli occhi si appassionano alla visione, l’anima non sussulta.
Nella sua prima parte Belgian Rules è spettacolo che si fa apprezzare per l’efficacia evocativa delle immagini che costruisce, per quell’affresco simbolico e allusivo che restituisce del Belgio, per una sua cifra espressiva dai toni cadenzati e grotteschi. Ma alla lunga diviene un martellamento che estenua (attesto la mia soglia del dolore intorno alle due ore e venti, dopodiché comincio a provare un insofferente senso di fastidio per tutto ciò che viene ripetuto con salmodiante insistenza), una reiterazione stilosa e anche un po’ schematica.
Dall’inizio fino a poco oltre la sua metà lo spettacolo congegnato da Jan Fabre è una fantasmagoria debordante di suoni e colori, di immagini che si susseguono in un’associazione di idee che trasmette una visione del Belgio composita e dissacrante, fatta di consuetudini climatiche e birre artigianali, di finto buonismo e tolleranza apparente. La grande pittura fiamminga viene non solo evocata ma anche omaggiata – riconoscibile fra gli altri un tableau vivant del Ritratto dei Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck che suscita un impatto di forte suggestione visiva – e concorre ad affrescare quel quadro complessivo di un Belgio attanagliato fra le sue mille contraddizioni, piccolo Paese con grandi squilibri, per il quale Fabre declina un insistente catalogo di regole, fra l’assurdo e il non sense, che delineano con l’evidenza del paradosso un quadro che dissacra e non concilia, le cui pennellate sono affidate ad un ensemble performativo di alto livello, spremuto fino allo stremo, che vede gli attori a più riprese correre sul posto enunciando in un loop parossistico le “Belgian Rules”, regole posticce e palesemente ridicole e dissacranti che inchiodano il Belgio alle sue contraddittorietà endemiche. I performer le declamano all’unisono, correndo sul posto; ad un tratto avranno degli scheletri sul dorso, come ad evocare la morte incipiente di una società malata, società malata che è specchio anche del teatro,  sempre secondo la visione di Fabre, affidata al succitato attore/porcospino che ventilerà la necessità che il teatro venga distrutto, in una sorta di preconizzabile palingenesi necessaria.
Tutto ciò mentre lo spettacolo completa la sua interminabile parabola, concludendo con la più lapalissiana delle regole belghe: “È possibile essere Belgi”. È possibile che, per arrivare a tale conclusione, fosse superfluo debordare, furbescamente, oltre l’umana sopportazione.

 

 



 

Napoli Teatro Festival Italia
Belgian Rules
ideazione e regia
Jan Fabre
testo di Johan De Boose
con Annabelle Chambon, Cédric Charron, Tabitha Cholet, Anny Czupper, Conor Thomas Doherty, Stella Höttler, Ivana Jozic, Gustav Koenigs, Mariateresa Notarangelo, Çigdem Polat, Annabel Reid, Merel Severs, Ursel Tilk, Kasper Vandenberghe, Andrew James Van Ostade
musiche Raymond van het Groenewoud, Andrew Van Ostade
drammaturgia Miet Martens, Edith Cassiers (ass.)
costumi Kasia Mielczarek, Jonne Sikkema, Catherine Somers (cappelli carnevaleschi)
stagista costumi Monika Nyckowska
sartoria ateliers duthéâtre de Liège
capo tecnico Andre Schneider
direttore di produzione Sebastiaan Peeters
tecnico Wout Janssens
segue il processo di creazione nell’ambito di P.U.L.S. (Project for Upcoming Artists for the Large Stage) Timeau De Keyser
assistente alla regia Nina Certyn
direttore tecnico André Schneider
direttore di produzione Sebastiaan Peeters
tecnico Wout Janssens
foto di scena Wonge Bergmann
produzione Troubleyn/Jan Fabre (Antwerpen, BE)
coproduzione Impulstanz Vienna International Dance Festival (AT), Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Théâtre de Liège (BE), Concertgebouw Brugge (BE)
produzione e coordinamento in Italia Aldo Miguel Grompone
paese Belgio
lingua francese, inglese, italiano, tedesco
durata 3h 45’
Napoli, Teatro Politeama, 2 luglio 2017
in scena 1° e 2 luglio 2017

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