“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 08 July 2016 00:00

Pensieri, all'ombra del 58° Parallelo Nord

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Per quanto il Napoli Teatro Festival Italia presenti i due giorni con altrettanti titoli – Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa e Corcovado – va scritto subito che si tratta di un progetto unico – 58° Parallelo Nord – basato, leggo dalla brochure, sulla “pratica dell'incontro e dello scambio” intesa come “motore principale della creazione”. In pratica: un performer – Lorenzo Glejeses –; una sequenza-base di alcuni minuti elaborata mesi prima con Michele Di Stefano di MK (“ricordo questa partitura, ripetuta sempre uguale anche nel ritmo, che immediatamente mi annoiò” afferma sorridendo Eugenio Barba sul palco di Galleria Toledo); il tentativo di modificarla live mostrando così metodi di (ri)composizione creativa e tutto ciò che la quotidianità del lavoro di sala generalmente comporta: fatica, sudore, incertezze ed equivoci, tentativi momentanei e improvvisi, suggestioni che nascono, vengono provate e scartate e poi variazioni, sottrazione o aggiunta di materiali, un nuovo modo di dire la stessa frase, una maniera diversa di compiere la stessa azione. Insomma: a Galleria Toledo dovrebbe apparire ciò che, generalmente, agli spettatori è negato e nascosto: il prima di uno spettacolo, l'informe di cui il personaggio che avanza in palcoscenico non è che l'ultima forma acquisita.

Leggo il progetto di 58° Parallelo Nord e mi soffermo su alcune frasi: “si lavorerà alla costruzione progressiva di un ambiente performativo, sulla base di suggestioni nate dalla natura stessa dell'incontro”; “i materiali creati verranno sottoposti al vaglio di alcuni indiscutibili maestri della scena internazionale” perché – questi maestri – intervengano “attivamente, da un punto di vista registico e drammaturgico sui frammenti precedentemente creati” operando “secondo la propria esperienza, la propria sensibilità, le proprie specificità poetiche e stilistiche”; l'obbiettivo da raggiungere (momentaneamente) sarà “una catena di azioni e reazioni, una sorta di domino dai risultati imprevisti, presumibilmente ben più ricco della somma dei fattori” che concorrono a produrlo. In parole povere: dovremmo vedere una breve sequenza – chiamata ora “pacco teatrale” ora “dono” dai protagonisti di 58° Parallelo Nord – che passa di mano in mano diventando qualcos'altro; dovremmo assistere alla realizzazione di “un meccanismo di trasformazione” d'una materia ancora grezza e indecisa, in attesa che questa diventi uno spettacolo: tra qualche mese; tra un anno; dopodomani o forse mai.
Ma davvero è ciò che avviene?


Uno dei libri meno conosciuti di Eugenio Barba è Il prossimo spettacolo; edito da una piccola casa editrice (Textus), si fa fatica a scovarlo ed è un peccato: ha, infatti, una prefazione intitolata L'ordine profondo chiamato turbolenza in cui Barba s'interroga sul processo creativo, sulla disciplina artistica, sul lungo viaggio compiuto da attori/danzatori/performer alla ricerca della propria meta insicura ed instabile, che coincide esattamente con la soglia varcata la quale ci si trova dinnanzi agli spettatori. Questa prefazione è molto bella: Barba scrive di “tecnica teatrale come esercizio continuo della rivolta, innanzitutto contro se stessi”, scrive di “pratica di disorientamento volontario e lucido” finalizzato alla “scoperta di nuovi punti di orientamento”; scrive di tempesta e meticolosità, di organico e disorganico, di catastrofe e densità, di Scilla (ordine) e Cariddi (disordine) e di “estrarre il difficile dal difficile”, di “essere fabbri della propria casualità”, di “creare un panorama caotico con tanti fiumi sotterranei” così generando “una molteplicità di linee, storie, direzioni” che rappresentano la condizione effettiva di libertà per chi crea: è in questo modo che l'attore/danzatore/performer “ricerca” definendo – progressivamente – il proprio intreccio narrativo, la propria “drammaturgia coerente”.
C'è, in queste pagine, l'alto valore delle giornate trascorse in uno spazio di prova: che sia un teatro in affitto, una delle sale di Hostelbro o un'aula universitaria in prestito, il garage dei propri genitori, la stanza di casa, l'ex padiglione di un ospedale psichiatrico occupato; c'è l'alto valore dell'incertezza, dell'errore, dello spreco, c'è il valore delle settimane, dei mesi – talora degli anni – passati a cercare di comprendere come dire e mostrare ciò che si vuole dire e mostrare. C'è la solitudine rispetto al mondo di fuori e l'isolamento (dovuto, voluto o subito) che richiede l'atto creativo e compositivo, c'è il dolore fisico e quello (u)morale, la messa in prova caratteriale e muscolare, c'è il confronto con sé e con gli altri, la scoperta e il superamento dei propri limiti e delle proprie incapacità, c'è l'inadeguatezza o la meraviglia delle proprie intuizioni, il logorio rispetto a una fissazione compositiva, il bisogno di un metodo, la stanchezza che ti prende a fine giornata per cui ti trascini all'esterno e poi fino a casa come se venissi da un altro mondo, da un sottosuolo di cui nessuno immagina l'esistenza. C'è, lontano da ogni retorica, il momento nel quale ci si perde d'animo, quello in cui ci si chiede il perché di questa insistenza artistica (ma chi me lo fa fare ancora?), c'è “questo lavoro che non solo stanca ma che a volte fa male”: quando non trovi la soluzione, quando non ti riconosci nella prestazione verso cui stai andando o nella messinscena per la quale sei stato scritturato, che hai accettato e alla quale appartieni. C'è – nella prefazione de Il prossimo spettacolo – il transito, il percorso, il cammino fatto prima che cali il buio, che si faccia silenzio, che si apra il sipario.
Così quando leggo nella scheda di 58° Parallelo Nord che “ogni maestro, data la specificità delle singole discipline, la stratificazione generazionale e la molteplicità degli approcci estetici e metodologici, non potrà fare altro che imprimere nuove e originali dinamiche di sviluppo al processo di lavoro, rapportandosi in maniera dialettica con i percorsi delineati da chi lo avrà preceduto” penso a queste pagine e immagino che Lorenzo Glejeses e i suoi maestri siano davvero in rapporto, che una giornata sia in qualche modo legata alla giornata successiva e che, fosse solo per un momento o per un frammento, vi sia quel “confronto creativo-compositivo” che 58° Parallelo Nord promette, fatto di “echi e riverberi” in accumulo. Invece Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa e Corcovado procedono qui a Napoli come esperienze distinte, diverse, senza alcuna relazione effettiva tra loro se si escludono – come già scritto – il nome ed il corpo del performer, la sequenza-base iniziale.
Nessuna continuità e nessun legame tra ciò che accade il 4 e il 5 luglio, dunque; nessun passaggio tra Barba e Luigi De Angelis: il primo agisce secondo il metodo del montaggio, che lo contraddistingue; il secondo mostra al pubblico la tecnica dell'eterodirezione (un microfono con cui dare ordini al danzatore che, fornito di auricolare, tenta di realizzarli così confrontandosi con il “momento presente” ed il “panico” del compito da eseguire all'istante).

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa. La necessità di bere dell'acqua, data la sete. Lo straccio con il quale asciugare il palcoscenico, bagnato dal sudore e perciò scivoloso. L'affanno e il suono che produce nelle pause. “Quando una ripetizione non è più ripetizione e diventa qualcosa?”. Il cambio di scarpe; il cambio della maglietta; il pantalone della tuta, indossato sui pantaloncini. La ripresa della sequenza, la ripresa soltanto del suo inizio o della sua fine, il “ridammi i quadrati di luce” detto a Mirto Baliani, che sta alla console. “Ricorda che se fai troppo muori, che se fai poco muori”. Osserva e ripeti, facendo l'equivalente. Fa come se la luce prodotta dal faro fosse fuoco: sopporta questa fiamma, tienila per un istante, conta fino a quatto – anzi conta le prime lettere dell'alfabeto greco: alfa, beta, gamma, delta – poi muta il tuo movimento, passando all'azione successiva. Ancora il sudore, che cola dalla fronte bagnando la maglia all'altezza del petto. Le ginocchiere, sporche di polvere. Il fiatone, seguito da un “andiamo avanti”.
Ancora.
“Ti sto dando adesso come compito...”: corri verso il fondo, sentiti respinto dalla tua stessa ombra, retrocedi spalle al pubblico fino ad arrivare al proscenio, dando la sensazione di poter cadere in platea. “Mi dai, per favore, le quattro corde?”. Non stazionare più nel rettangolo di luce ma costeggialo, trova “quattro modi diversi” di entrarvi, inventa “quattro ragioni” per uscirne. “Cancella questa parte del testo, perché non funziona”. Fa che lo spazio sia un tuo partner, che sia una tua partner la musica. “Scelgo io il punto in cui mi sento di bruciare?”. La schiena, l'avambraccio, il collo, la nuca, il piede sinistro. Brucia, sopporta, ricomincia. “Fino a che ora possiamo lavorare?”, “Fin quando vuole, Maestro”. La verticalità del corpo, piegata in una posa orizzontale, come se “la tua schiena fosse spezzata, come se tu fossi un uomo umiliato”. Non stai facendo ciò che ti ho chiesto, non muoverti in questo modo, “sei troppo spesso al centro e non sfrutti la periferia”. Posizioni: Cristo legato alla colonna; Romeo che abbraccia Giulietta; i discepoli che baciano i piedi del Salvatore. “Devo muovermi o rimanere fermo?”. Reagisci alle note, sta venendo fuori “un sacco di roba”, “per oggi fermiamoci”.
Non importa, non adesso, la metaforizzazione di una giornata qualunque di un danzatore, né importa che la suggestione testuale sia La metamorfosi di Kafka (un uomo che diventa qualcos'altro al risveglio, diventando esso stesso metafora di ciò che era la sera prima). Non importano la musica campionata, i neon in proscenio, il pannello bianco che fa da parete di fondo, le quattro corde con altrettanti pesi che servono a definire e delimitare una stanza; non importa la coreografia eseguita di continuo (l'ossessività dell'artista che ripete oltre il tempo di prova) né importano i frammenti del testo kafkiano, l'uso del sonoro e degli oggetti di scena. Ciò che invece importa è che per due ore Eugenio Barba mostra al pubblico il suo metodo, usando Lorenzo Gleijeses come creta molle e viva; che per due ore Lorenzo Gleijeses mostra al pubblico il proprio impegno atletico e artistico, usando Eugenio Barba come “primo spettatore” della sua proposta iniziale.
Si tratta del metodo del montaggio che ormai contraddistingue la teatralità di Barba, che di solito riceve un tema da un attore – “Eugenio, posso farti vedere questa cosa?” – a partire dal quale inizia un quotidiano lavoro di ridefinizione, per cui si procede per tentativi, (dis)orientamenti, mutamenti di stato e composizione progressiva di ritmi e dinamismi che diventeranno poi eventi, avvenimenti, trama, personaggio. È la fase delle prove, durante la quale “i miei attori seguono solamente il filo personale delle loro partiture, sconvolgendo, distruggendo, intrecciando o sovrapponendo ciò che hanno fatto e che fanno” fino a che non giunge il momento di tenere ciò che serve e fissarlo perché faccia parte di quel tessuto più ampio, fatto di altri fili personali, che sarà lo spettacolo prodotto dall'Odin. Si tratta della metodologia di Eugenio Barba, nota e storicizzata oramai (se ne trova già nei volumi degli anni Settanta o nei primi saggi che vi dedicò Franco Quadri) e che io stesso ho potuto osservare durante un training di sette giorni – due anni fa – quando questo lavoro logorante e continuo non veniva offerto al pubblico ma restava invece segreto nel sottosuolo di una chiesa di Gallipoli. Queste due ore sono la parte più interessante della tappa di 58° Parallelo Nord al Napoli Teatro Festival Italia: lo sono per chi non ha mai visto Eugenio Barba all'opera – e dunque può spiare il modo d'essere, d'agire, di osservare, cercare, interrompere, intervenire e comporre di uno degli uomini che hanno segnato la storia del teatro del Novecento – ed è interessante per chi di Eugenio Barba ha letto o visto tutto, giacché consente un approfondimento ulteriore, una conferma in tempo reale.

Corcovado
. Una lampada in proscenio, uno scopettino, un ventilatore di lato. Il resto è spazio vuoto, se si esclude il (già usato) pannello bianco sul fondo.
Punto di partenza: la coreografia elaborata con Michele Di Stefano. Punto di arrivo: una nuova coreografia, riplasmata adesso da Luigi De Angelis. Performance basata sulla re-incastrata sequenza di singoli movimenti che compongono i pezzi della partitura (ne conto quarantatré, appositamente elencati in ordine alfabetico: da “aggiusta maglietta”, “anelli”, “appari”, “aspetta”, “bacio avambraccio” a “scapola piccola”, “snike”, “terra”, “testata in ginocchio”, “tocca scapola”) che somigliano alle tessere di un puzzle che viene mostrato, messo in discussione, smontato per poi essere rimontato diversamente: diventando quest'altra cosa. Tappeto sonoro il Corcovado della bossa nova brasiliana, in versione elettronica degli Everything But the Girl; in scena Gleijeses col copricapo piumato carioca.
Mi viene da scrivere che tanto è stata aperta la dimostrazione del 4 luglio quanto sembra chiusa questa firmata Fanny & Alexander del giorno successivo. Ciò cui assito, infatti, non è che una prova autoreferenziale, che considero afona o muta perché non in grado di parlare al pubblico né di trasmettergli altro che il suo divenire formale. Tecnica che mostra e condivide solo la tecnica, insomma; fredda sperimentazione in vitro, che tramuta il calore umano che almeno contraddistingueva il rapporto dialogante Barba-interprete in una mediata relazione tecnologica, per cui Gleijeses – pupazzo/manichino/burattino senza fili/marionetta/oleogramma carnale – diventa l'avatar di un giocatore extra-scenico, che se ne sta seduto in prima fila, davanti al pc.

Sia chiaro: non mi sfugge che il susseguirsi delle dimostrazioni accentuano la verticalità nel rapporto tra regista ed interprete, né mi sfuggono il valore dell'hic et nunc dell'esecuzione, la progressiva tecnologizzazione generazionale dei mezzi impiegati e la sua capacità, per dirla con la Valentini, di smaterializzare i corpi in apparenze e simulacri e di agire in maniera ambivalente "tra virtuale e sensoriale, fra imbalsamazione e resuscitazione, amputazione ed estensione delle facoltà cognitive"; non mi sfugge il voluto passaggio dal Terzo Teatro di Barba all'(a)teatralità della performance d'epoca digitale  per cui l'attore “diventa” – uso le parole di Marco De Marinis − “figura o meglio anti-attore”, rifiutando i canoni Novecenteschi dell'attore inteso come “corpo-mente, soggetto creatore e presenza espressiva”; non mi sfugge che il tentativo di Gleijeses è quello di partecipare all'agita riflessione su cosa stia diventando il Teatro ed il suo interprete negli anni videosocial Duemila, non mi sfugge che 58° Parallelo Nord rientra nel novero della "Nuova Teatralogia" che − cito ancora De Marinis − "considera le opere, siano testi o spettacoli, dal punto di vista processuale" ponendo perciò l'accento sul fatto "che consistano di relazioni", che "siano eventi o pratiche di flusso" e che vivano "la dimensione di ostentazione, di materialità autosignificante, di rinvio a sé, oltre e prima che di rinvio ad altro da sé"; non mi fugge infine che 58° Parallelo Nord sia anche un tentativo di proporre – cito per l'ultima volta De Marinis − “nuove identità possibili” per chi il teatro lo pensa e lo vive facendolo: “identità polimorfiche, mutanti e mutevoli”, sempre più dotate di virtualità anche quando di consistenza muscolare. E tuttavia ho il dovere di scrivere del forte sentimento di noia che mi prende durante quest'ora dimostrativa, in cui ciò tutto ciò che accade non fa accadere nulla che mi resti davvero alla fine della performance. Cosa ho visto in definitiva con Corcovado? Direi – con severità voluta – un procedimento applicato, buono per mandare in estasi (a giudicare dagli applausi finali) qualche docente o assistente cattedratico ma che, mi sembra, poco o nulla possa interessare, coinvolgere, stupire, provocare uno spettatore che non sia anche un critico, un addetto ai lavori, un saggista di volumi puramente accademici: di quelli presentati, discussi, commentati, elogiati, scambiati o spediti inter nos, tra un dipartimento universitario ed un altro.

L'ultima riflessione è per il Festival. Accennato che – per l'ennesima volta – si ha l'impressione che si tratti una stagione concentrata, con decine di prime e di repliche date in un mese, e che proprio la dimensione dello “spettacolo” sembra quella dominante, con produzioni (alcune vecchie o vecchissime) che vengono riallestite per un paio di giorni prima di sparire nuovamente, ho colto 58° Parallelo Nord come una potenziale buona occasione per offrire altro.
Penso ogni tanto, infatti, a un festival in grado anche a Napoli – finalmente – di farsi occasione viva e vera per stage, workshop, laboratori permanenti, prove aperte; a un festival che s'impegni nella formazione di nuovo pubblico (e nella necessaria rialfabetizzazione teatrale degli spettatori) e, nel contempo, che sia in grado di offrire ai teatranti napoletani e non napoletani la possibilità del confronto formativo coi grandi registi, drammaturghi ed interpreti del Novecento e dei primi anni Duemila: una possibilità negata strutturalmente agli artisti di questa città, in particolare. Qualche messinscena in meno e più opportunità per frequentare, conoscere, perlustrare, risiedere, confrontarsi con le diverse sapienze del teatro è infatti nelle possibilità di un Napoli Teatro Festival che costa quasi sei milioni e mezzo di euro e che, dunque, può permettersi di definire – sul piano economico e su quello poetico – la propria direzione puntando non sull'accidentalità del cumulo di recite (italiane e straniere) ma sulla profondità spazio-temporale e contenutistica della condivisione di saperi e competenze. Non l'ennesimo spettacolo del famoso regista X, ad esempio, ma – perché no? – una ventina tra attori ed attrici, danzatori e danzatrici, in laboratorio col regista X ed annessa possibilità per gli studenti universitari, per i frequentanti delle scuole teatrali locali, per il pubblico nel senso più esteso e comune del termine di frequentare, osservare, incuriosirsi, provare a conoscere, comprendere, apprezzare o disprezzare. Insomma, spettacoli certo ma anche teatro nella sua fattura artigianale, nella sua pratica umile e quotidiana, nella sua potenzialità iniziale, creativa e primaria.
Forse andava (e andrà) in questa direzione l'esperienza ideata da Lorenzo Gleijeses ed accolta e ospitata da Franco Dragone ma (tenendo sempre presente i sei milioni e mezzo di euro pubblici e pagato dunque il cachet a chi è stato impegnato in questa due giorni sperimentale) perché è stato previsto un biglietto d'ingresso per 58° Parallelo Nord? Cosa ha impedito che l'esposizione di un doppio metodo in un non-spettacolo dichiarato avesse accesso libero, aperto ("Cantiere teatrale aperto" viene infatti definito, giova ricordarlo), che fosse cioè una reale opportunità d'osservazione e di studio e non l'ennesimo “prodotto” in aggiunta agli altri “prodotti” posti in rassegna? E ancora: verrà il tempo per cui anche a Napoli – anche al Napoli Teatro Festival Italia – si ragioni i termini di strategica restituzione di risorse al territorio non come mancia lavorativa o spoil system accomodante ma in forma di opportunità di crescita culturale condivisa, professionalizzazione perdurante e nuove forme di abitabilità dello spazio collettivo?
A noi, cittadini critici ed amanti in diverso modo del teatro, il compito di tenere gli occhi aperti.

 

Leggi anche: 
Alessandro Toppi Sette giorni con Eugenio Barba (Il Pickwick, 6 ottobre 2014)

 




Napoli Teatro Festival Italia
58° Parallelo Nord. Cantiere teatrale aperto.
un progetto di Lorenzo Gleijeses
prodotto da Nordisk Teaterlaboratorium, Gitiesse Artisti Riuniti


Una giornata qualsiasi del danzatore Gregorio Samsa
dimostrazione spettacolo di e con Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses, Julia Varley
musiche originali Mirto Baliani
paese Italia
durata 2h 45'


Corcovado #1
performance di Luigi De Angelis, Lorenzo Gleijeses
da un progetto coreografico di Michele Di Stefano
rielaborato da Biagio Caravano
oggetti coreografici Michele Di Stefano
con Lorenzo Gleijeses
e la direzione in tempo reale di Luigi De Angelis
interventi musicali Mirto Baliani
paese Italia
durata 1h

Napoli, Galleria Toledo, 4 e 5 luglio 2016
in scena 4 e 5 luglio 2016

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