“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 25 June 2014 00:00

Appunti sul Vanja di Tuminas

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(primo appunto)
Rimas Tuminas comprende che in Čechov chi parla parla mentre chi ascolta non ascolta. Comprende che ogni frase è destinata a evaporare, a sfumare, a ridursi in un pulviscolo verbale. Comprende che mentre Vanja blatera Sof’ja non presta attenzione; che mentre Astrov disserta Elena pensa ad altro; che mentre Marija ciancica tutti gli altri sbuffano, sognano, vagheggiano illudendosi coi giochi o giocando con le illusioni. Per questo genera, in dialoghi fittizi, dei monologhi effettivi.

Sia chiaro: non importa ciò che la singola figura deve dire, quel che conta è che lo dica solo a se stessa, non essendoci un interlocutore. Così Astrov racconta, con pathos quasi tragico, della morte di un paziente mentre la balia scherza con le perle della collana; così Vanja denuncia l’ignoranza del professore mentre Telegin beve il tè e Astrov sonnecchia su una sedia; così Sof’ja declama i propri sacrifici mentre Serebrjakov sbaciucchia Elena, distendendosi al divano.
Si tratta – per intenderci – non soltanto dell’opportuna resa dei soliloqui čechoviani, che testimoniano quanto convivere significhi stare da soli anche se in compagnia: è, piuttosto, una maniera con cui il regista alleggerisce il dramma tramutandolo in commedia. “Oh, come mi sono ingannato” afferma Vanja e dovrebbe essere un momento triste, da tenere il fiato, se non fosse che, a sinistra, si vedono i piedi di Elena che oramai giace addormentata.
I personaggi di Zio Vanja abitano la stessa casa, mangiano alla stessa tavola, usano gli stessi oggetti ma non si (ri)conoscono: “Scusate, signora… Non Ivan Ivanyč, ma Il’ja Il’ič, signora… Io ora vivo qui da voi, in questa tenuta, signora… Se vi siete degnata di notarlo, ogni giorno pranzo con voi” precisa Telegin ad Elena ed è l’esempio più evidente di quanto ognuno viva accanto agli altri senza vivere davvero insieme agli altri. Ma tutta questa assenza di comunicazione e questa incapacità d'incontrarsi veramente condividendo i propri stati d’animo, assume con Tuminas non l’algida freddezza di certe messinscene da interno rancido e borghese né la natura ammorbata del Čechov fatto da chi non conosce Čechov: diventa, invece, ragione di burle e giochi da vaudeville.
Astrov copre il volto di Sof’ja con un cappello, per nasconderne la bruttezza e – ancor di più – per evitare un bacio e l’imminente confessione sentimentale mentre Elena – all’autoproclamazione di vecchiaia fatta dal marito – se ne sta immobile a centro scena, compiendo piccoli scatti col ginocchio sinistro: somiglia, così, a una bambolina a molle, incantata, ingolfata e tramortita.

(secondo appunto)
Rimas Tuminas sa che esiste un altro Čechov, che quest’altro Čechov vive in pieno Novecento, che fa un teatro chiamato (banalmente) ‘teatro dell’assurdo’.
Quest’altro Čechov immagina ampi spazi da cui non si può fuggire; immagina un tempo che ristagna e che porta alla contemplazione del passato; immagina figure che sanno di stare in scena e che ci stanno facendo seguire − agli sketch − sketch ulteriori.
Quest’altro Čechov scrive di giorni che un tempo erano felici, scrive di partite già finite prima che cominci lo spettacolo, scrive di attese che restano attese perché, chi si fa attendere, si farà attendere per sempre. È irlandese quest’altro Čechov, scrive in francese quest’altro Čechov, si chiama Beckett quest’altro Čechov.
Questo Čechov chiamato Beckett spinge sull’assito strambi clown senza il trucco, miseri pagliacci che non hanno il naso rosso, attori vagabondi che hanno smesso di recitare ruoli e parti per cui non gli resta che recitar se stessi; spinge sull’assito figure gravate da una montagna di valigie; figure che vestono pantaloni a righe, gilet grigio, bombetta nera; figure a cui cadono i calzoni.
Nello Zio Vanja di Tuminas Astrov, ad un certo punto, è gravato da una montagna di valigie; Telegin indossa pantalone a righe, gilet grigio, bombetta nera mentre a Vanja cascherebbero i pantaloni se Elena non s’adoperasse – in tutta fretta – ad infilare nell’asola il bottone. Questo per dire che – contrariamente ad altri registi che hanno associato (erroneamente) Vanja ad Amleto e Zio Vanja alla tragedia – Tuminas ha la felice intuizione di fare di Vanja un Vladimiro con tocchi d’Estragone e, di Zio Vanja, un’opera con scampoli, suggestioni e malinconico-gioiosità beckettiane.
Perciò – in questo Zio Vanja – il medicinale viene assunto così come un bimbo succhia il ciuccio, le ricette sono gettate all’aria, si viaggia in tondo su un aratro; perciò si gioca a nascondino, si gattona, ci si rincorre; perciò si costruisce una piccola panchina inchiodando ad un asse due pezzi di legno perché facciano da piedi, ci si siede e si finisce stesi a terra. Perciò si inizia e s’interrompe un’azione decisiva, si fanno siparietti danzerini, ci si passa di continuo un mazzo di rose bianche, si diventa ridicoli indossando calzini grigi a righe verdi e una gran tunica di spugna.
Perciò Vanja – piuttosto che un alter ego del principe danese – sembra un comico ironico e dimesso, sornione ed intristito: ha i capelli pieni di trucioli, fa avanti e indietro per completare una tirata, per vendicarsi del professore prende prima una sega, poi un martello e solo infine la pistola; rovescia due volte il tè, gli pendono le bretelle, tenta di abbracciare Elena ritrovandosi avvinghiato ad una sedia.
Moltiplicate questa propensione alla caricatura per quanti sono i personaggi in scena ed avrete il languido e sghimbescio cabaret che Čechov desiderava per il suo teatro e che Beckett realizzava con le sue commedie.
Si tratta, sia chiaro, non di una comicità soltanto comica e fine a se stessa, istantanea, del momento: questo burlesco ha sempre in sé un’afflizione, uno strazio, un significato amaro.
Astrov versa polverine nella bocca di Telegin come si versa il vino in un imbuto, per testimoniare il proprio fallimento medico; Sof’ja porta avanti e indietro un gran boccione pieno di vodka (“Andiamo nella mia stanza!”) perché solo da ubriaca può confessarsi ad Elena; Vanja non riesce a togliere un chiodo dalla tavola di legno, testimoniando quanto un pensiero (l’odio per il professore) sia fisso, fermo, ineliminabile.
Evitando di separare divertimento e angoscia Tuminas fa convivere sullo stesso volto lacrime e risate, espressioni di rancore e sogghigni ironici, sguardi austeri e occhiate strambe. 

(terzo appunto)
Rimas Tuminas conosce la cosiddetta ‘Legge del fucile’ di Čechov: “Se nel primo capitolo dici che c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo capitolo devi assolutamente farlo sparare. Se il fucile non viene usato, non dovrebbe neanche starsene lì appeso”. In teatro questa legge riguarda il sapiente utilizzo di arredi, oggetti, altri elementi scenografici: che ci sia tutto ciò che davvero occorre, nulla di meno ma neanche nulla di più. Ad ogni singolo elemento corrisponde una funzione, questa funzione deve essere messa in pratica.
Perciò Tuminas elabora una struttura spaziale dipartita, capace di sfruttare tutta al profondità del palco: sul fondo vi è uno spazio buio, puramente simbolico, che funge da luogo d’apparizione e di scomparsa, da zona di passaggio o di permanenza mentre – nella fascia anteriore (dal centropalco alla ribalta) – costruisce una visione equilibrata, in cui il vuoto al centro bilancia il pieno laterale. A destra un tavolo da falegname, con tanto di cassette con gli attrezzi al piano inferiore, una bilancia di metallo, il piccolo aratro arrugginito (rimando all’ambiente esterno di una casa in cui si coltiva, si raccoglie e si lavora il legname; in cui si commerciano “piselli, ricotta, olio”); a sinistra un divano con tanto di schienale alto che – nel primo tempo – è volto al contrario rispetto al pubblico e, nel secondo, si utilizza frontalmente. Completano un lampadario in ferro, qualche sedia, due o tre sgabelli.
Sia chiaro: Tuminas applica la ‘Legge del fucile’ non solo ai segni scenografici più grandi, fissi ed evidenti (così l’aggiunta della bilancia porta Vanja, Elena e Sof’ja a pesarsi) ma anche – e soprattutto – ai piccoli elementi, alle inezie materiali. Valga come esempio la matita del quarto atto.
“Questa matita la terrò per ricordo”. Astrov porta la matita all’orecchio, Elena l’afferra, se ne impossessa, la stringe nel pugno, l'avvicina alla bocca poi la stringe tra le labbra. Perché? Perché la successiva battuta del dottore è: “Permettetemi di baciarvi”. La matita anticipa, indica e induce i movimenti dei personaggi, ne rivela i desideri, ne determina le parole.
Questa relazione tra cose e lettere, tra frasi e accadimenti, tra verbi, suoni, versi e fatti, scelte, situazioni è continua nello Zio Vanja di Tuminas. Solo per fare un altro esempio – invertendo i fattori senza mutare il risultato – Sof’ja nel terzo atto ha da dire “papà” ma dice “pa-pà” separando nettamente le due sillabe e facendole risuonare come fossero una (doppia) schioppettata. In questo caso il “pa-pà” annuncia i due colpi di pistola di Vanja, che avvengono a distanza di pochi minuti, terminata la discussione familiare.

(quarto appunto)
Rimas Tuminas rilegge Čechov scovandone la bellezza, la fragilità poetica, il languore. Ne comprende il tono basso dei sospiri, la lentezza dei silenzi, certa dolcezza che appartiene alle parole; sa quanto vale un gesto che viene accennato ed interrotto; capisce che vi sono particolari quasi invisibili che rivelano più di quanto possa l’immagine primaria. I suoi attori perciò muovono le dita, nervosamente; abbassano le palpebre, per rubare un minuto di riposo; attendono quanto devono attendere, perché ciò che hanno iniziato venga portato a termine. Barcollano, ruotano, si trascinano e scattano, saltellano, schizzano a seconda della variabilità umorale, tanto quanto agonizzano stando muti dopo aver squittito come topi spaventati. Ne viene una straordinaria partitura fisica che ha in Sof’ja il suo trionfo.
Questa gracile fanciulla, i cui grandi occhi sono facili al pianto, ha muscoli elastici, pronti, saettanti, simili a quelli di una scimmietta da circo. Sof’ja allarga le braccia, come per afferrare il cielo intero; si piega celando la propria vergogna, si nasconde per non farsi vedere poi riappare dall’alto di un mobile, lo scavalca, poggia i piedi a terra, corre dall’altro lato del palco, sale sul tavolo dominando la scena dall’alto. Ad ogni pensiero del cuore fa seguire la realizzazione di un assolo improvviso: sportivo, acrobatico, atletico. Difende – per amore – le teorie ambientaliste di Astrov e quindi levita arrampicandosi alla quinta di destra; teme l’arrivo di Elena e perciò si chiude nell’angolo a sinistra e quando la stessa Elena le augura la felicità – questo strano accadimento ch'ella stessa sa impossibile – si appallottola arrossita per poi distendersi come farebbe una bimba sulla sabbia, allargando le braccia e le gambe al palcoscenico.
Fanciulla cui non bastano le parole che conosce per esprimere i sentimenti di cui freme, agita il corpo per rendere i tormenti, i sogni, le disperazioni. “Sentiremo gli angeli, vedremo il cielo cosparso di diamanti, vedremo tutto il male della terra, tutte le nostre sofferenze annegare nella misericordia che colmerà di sé il mondo, e la nostra vita diverrà quieta, tenera, dolce, come una carezza”. Frasi tra le più dolci che un autore abbia mai scritto per rendere la rassegnazione del sopravvivere, Sof’ja le pronuncia non con la gola, il fiato, la lingua, le labbra ma con la schiena, le spalle, il collo, la testa, le braccia e le mani: mimandole.
A conferma di questa fisica leggiadria rigorosa voluta da Tuminas vale la pena ricordare anche i movimenti tonti e circolari di Vanja, le pose impettite e statuarie del professore, il macchiettismo animato di Telegin e la fredda, calcolata e imperturbabile orologeria di movenze cui dà vita Elena: creatura pigra, annoiata ed abulica, che volteggia tra gli altri personaggi nello stesso modo in cui lei fa volteggiare l’hula-hoop, una sedia, un bicchiere.

(in conclusione)
Rimas Tuminas induce i propri attori a non dimenticare mai che sono a teatro, che stanno recitando, che la loro è una finzione. Per questo volge il loro sguardo verso il pubblico, li costringe ad attendere quando una scena non è compiuta spingendoli ad osservare gli spettatori, indirizza incisi o battute intere (“La potete vedere”) alla platea. Da questa consapevolezza poetico-teatrale più che metateatrale in senso stretto nascono immagini meravigliose. Valga per tutte il passaggio dal giorno alla notte, tra primo e secondo atto. Inutile simulare con i grandi schermi a fondo scena, Tuminas assegna il compito a Vanja e Vanja esegue: prende un foglio di plastica rigido, lo porta sulla fiamma di una candela facendo in modo che la fuliggine lo annerisca poi posiziona – questa plastica ormai buia – tra i propri occhi ed uno dei fari posizionati fuoriscena. Seduti in poltrona noi comprendiamo, emozionati.
Perché rimanga di uno spettacolo qualche suggestione si cerca sempre una chiusura a effetto quando si scrive un articolo. Questa volta basta, forse, descrivere le due immagini che chiudono – rispettivamente – il primo tempo dello spettacolo e lo spettacolo nel suo complesso.
L’ultima scena del primo tempo.
“Ho voglia di suonare… È tanto tempo che non suono. Suonerò e piangerò, piangerò come una stupida” dice Elena, in attesa del permesso del marito. “Non si può” le urla Sof’ja, inoltrandole il divieto. Sarebbe finita qui, ma non per Tuminas che colma l’attesa del responso negativo chiamando in palco il servo di casa (che fa da servo di scena): a lui il compito di portare un pianoforte. Il legno scheggiato, le rotelle da un solo lato, l’inclinazione sbilenca, il colore rovinato. Il pianoforte rimane chiuso e, ad Elena e Sof’ja, non resta che suonarlo senza suonarlo, battendo i polpastrelli sul coperchio che copre i tasti.
Suonare senza suonare, voler suonare senza poter suonare, immaginare di suonare sapendo che suonare è impossibile: c’è tutto Čechov in questa immagine aggiunta da Tuminas.
L’ultima scena dello spettacolo.
Sof’ja porta Vanja a centropalco, quasi in ribalta, nel pieno di un faro livido, giallognolo, non chiaro. Lo volta verso chi assiste, manipolandone l’aspetto. Vanja – questo Vanja a cui tocca ammuffire dove è ammuffito fino ad ora – non ha più forza, non ha più emergia, non ha più volontà. Corpo d’uomo che sembra ormai di cera, diventa una statuina cui Sof’ja incide – con pochi tocchi – il ghigno di un sorriso, una smorfia di felicità. Il ghigno, una smorfia: alludono al sorriso, mimano la felicità ma non sono davvero né un sorriso né la felicità. Poi Vanjia svanisce, retrocedendo come retrocede l’uccellino di un cucù mentre la giovane fanciulla si accascia, distesa, tra le carte sulla tavola: il suo destino, il suo giaciglio, la sua tomba.
Iniziano gli applausi, termineranno con il pubblico all’impiedi, ormai commosso.

 

 

 


NB.
Fonte immagini a corredo dell'articolo:
Ufficio stampa Napoli Teatro Festival Italia
rusiti.ru/en/galery/list/mihail_guterman/
onestoparts.com/review-uncle-vanya-vakhtangov-noel-coward-theatre


 

Zio Vanja
di Anton Čechov
regia Rimas Tuminas
con Vladimir Simonov, Anna Dubrovskaja, Jevgenija Kregzde, Marija Berdinskich, Ljudmila Maksakova, Sergej Makoveckij, Vladimir Vdovicenkov, Artur Ivanov, Jurij Krasov, Inna Alabina, Sergej Episev
scene e costumi Adomas Yacovskis
musiche Faustas Latenas
produzione Yevgeny Vakhtangov State Academy Theatre
lingua russo con sovratitoli in italiano
durata 3h 10'
Napoli, Teatro Mercadante, 21 giugno 2014
in scena 21 e 22 giugno 2014

 

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