“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 15 June 2014 00:00

Appunti sul Vanja di Konchalovsky

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Lo Zio Vanja di Konchalovsky è tradizionalmente contemporaneo: il regista, infatti, incastona l’interpretazione verista in una cornice metateatrale per cui piena partecipazione al ruolo e sosta laterale visibile (in attesa di guadagnare il centro della scena) si alternano di continuo; prevede un palco sul palco elevando perciò alla seconda il livello di finzione; fa della parete di fondo uno schermo su cui proiettare grandi immagini che rimandano all'autore prima ed alle vie trafficate di Mosca poi; propone il cambio scenografico a sipario aperto; concede un protagonismo apparente ai servi d'assito; allude poeticamente ad una fantasmatica dama bianca che sembra un angelo della vita possibile ma che è, anche, una metafora della nostalgia, della poesia, della mancanza (basterebbe pensare che penetra lo spettacolo e tocca la testa di zio Vanja, ispirandogli la consapevolezza che gli mancava); fonde il naturalismo dell’oggettistica (quasi un ritorno allo Stanislavskij che accumulava ciarpame) con l’assenza di pareti casalinghe, collocando il gran bazar russo all’interno di uno spazio neutro ed oscuro.

Così, in uno spazio variamente illuminato per seguire le diverse fasi del giorno e della notte, ammiriamo piatti, bicchieri, tazze da tè e fruttiere, catini, sedie, il samovar e panche, poltrone, lampade, scrivanie, cestini di paglia, una tovaglia di pizzo, mobili in legno con vetrinette colorate e vassoi coi formaggi, mele e biscotti, pigne secche e una piccola fontana da cui scorga acqua vera, una sedia a sdraio da cui si alza la polvere, un’altalena a dare l’idea del giardino.
Prezioso arsenale d’ambiente, che fa da richiamo alla trama ed al tempo della trama ma che – se messo in relazione con tutto ciò che abbiamo già scritto – consente di comprendere che Konchalovsky non mette in scena lo Zio Vanja ma mette in scena la messa in scena dello Zio Vanja ovvero fa del teatro d'oggi usufruendo del teatro dell’epoca: insieme di attuale e di antico per cui si allestisce – in un contesto moderno sul piano della regia – una meticolosa riproposta filologica.
Il fascino del lavoro di Konchalovsky, quindi, viene confermato da questa sua propensione ad unire innovativo (di forma) e tradizionale (di sostanza). "Viene confermato" abbiamo scritto, perché – ad essere chiari e sinceri fino in fondo – si tratta della stessa scelta effettuata, lo scorso anno, per La bisbetica domata di William Shakespeare: anche lì piena aderenza al dettato; anche lì proiezioni moderne; anche lì metateatralità situazionale per cui avevamo i camerini visibili, con attori fuori-trama ma ancora sul palco, intenti ad ammirare i loro colleghi impegnati nella recita.

(caratteristiche čechoviane)
Ciò che ancora di più colpisce, però, è la piena consapevolezza che Konchalovsky dimostra per alcune – ineliminabili – caratteristiche della scrittura čechoviana: l’ampiezza spaziale, per cui la distanza tra la casa ed il resto del mondo si misura tramite echi sonori assai flebili; l’importanza momentanea delle pause, che accadono nel mezzo di un dialogo o nel corso di un monologo e che servono a far sentire tutto il peso di un termine, tutta la gravosità di un momento; l’evocazione (e non l’ostentazione) sentimentale, che gli interpreti rendono con gesti minuscoli, seminascosti e quasi inavvertibili: le dita che stringono un polso, la mano che afferra una stoffa, il volto che si piega intristendosi, uno sguardo che si immobilizza e si perde.
Inoltre – giacché se è prevista nel testo la battuta “La commedia è finita!” vuol dire che Čechov considerava, nonostante tutto, Zio Vanja una commedia, sia pure drammatica – Konchalovsky mostra per intero (e nella maniera migliore) l'ironia quasi pazzoide che appartiene a tutti questi personaggi illanguiditi che – chiusi in una dimora che sembra una cripta – trascorrono la vita non vivendola davvero e che, nonostante nel mezzo del petto abbiano una tristezza abissale, mai o quasi mai finiscono per assumere fattezze funeree o monumentalità tragica.
Così Telegin sottrae la sedia a zio Vanja ricevendone, in cambio, colpi di giornale sulla testa; zio Vanja spara due volte, abbattendo un mazzo di fiori; Astrov può dire, ancora a zio Vanja: “Tu non sei pazzo, sei semplicemente un bislacco. Sei il re dei buffoni”. Così capita di ascoltare battute terribili come “Con un tempo così sarebbe bello impiccarsi”, “Quando manca una vita vera, allora si vive di miraggi. È sempre meglio che niente” o “Io non sono meno infelice di te” ed accorgersi che, queste parole, affiorano da labbra piegate in un leggero sorriso immiserito, tenero, soave ma che – proprio perché tale – riesce ad esprimere tutto lo strazio doloroso e rassegnato che ha da esprimere.
Siamo, dunque, al cospetto di una magistrale prova attoriale e se piacciono tanto certe invenzioni visive (il lancio della mela, i piedi nudi del professore, il segno della croce davanti all’icona, la preparazione accurata del tè ma anche la metaforizzazione del fastidio che zio Vanja prova per il professore con un piccolo sassolino in una scarpa, la mano alla bocca di Sof'ja alla partenza di Astrov, il gran volo dei fogli alla ricerca della fiala di morfina) notiamo soprattutto la capacità orchestrale di Konchalovsky (conseguenza della comprensione che le opere maggiori di Čechov sono un insieme di assoli), grazie alla quale il regista è capace di produrre due effetti: il materialismo prospettico − ovvero la capacità di sfruttare tutto lo spazio a disposizione (ribalta e retroscena, fasce laterali e centropalco) stratificandone di continuo l'utilizzo − e il sincretismo d’azione, per cui nello Zio Vanja di Konchalovsky le cose accadono nel frattempo: zio Vanja e Astrov discutono e nel frattempo Telegin fa colazione; Elena e zio Vanja si sussurrano qualcosa e nel frattempo l'anziana madre legge una rivista; il professore Serebrjakov espone il piano economico all’intera famiglia e nel frattempo Sonja appassisce, consapevole che non sarà mai felice.
“Nella vita ben raramente ci si spara, ci si impicca, si fanno dichiarazioni d’amore. E ben raramente si dicono cose intelligenti. Per lo più si mangia, si beve, si bighellona, si dicono sciocchezze. Ecco che cosa bisogna far vedere in scena. Bisogna scrivere un’opera in cui i personaggi entrano, escono, pranzano, parlano del tempo” (da una lettera di Čechov) e infatti – in questo Zio Vanja – i personaggi entrano, escono, pranzano, parlano del tempo per non parlare di ciò di cui dovrebbero parlare: “Oggi, eccellentissimo Ivan Petrovič, il tempo è discreto. Stamattina era nuvoloso, proprio come se dovesse piovere, e adesso c’è il sole. Ad essere sincero, l’autunno si rivela splendido… e i seminati non sono niente male. L’unica cosa è che i giorni si sono accorciati”.

(l’arrivo della noia)
Racconto di una condizione di noia e di flemma, che giunge come giunge un temporale e che scombussola l’abitudine, la normalità, il consueto vivere illusorio – “Da quando sono arrivati il professore e sua moglie la vita è uscita fuori dai binari” – per cui il samovar adesso bolle tutta la mattina, si pranza non più all’una ma alle sette ed ogni singola figura ha smesso di fare ciò che prima faceva per inerzia (“lo zio non fa nulla, io ho tralasciato le mie faccende, il dottore prima veniva da noi molto di rado ed ora viene ogni giorno, trascurando i suoi boschi e la medicina” dice Sof'ja), Zio Vanja prevede impossibilità dialogica (tutti parlano ma nessuno ascolta e non vi è rapporto causale tra domande e risposte) ed incapacità relazionale e di contatto (per cui chi ama non è mai ricambiato: zio Vanja ama Elena che è sposata con il professore ma che si invaghisce per il dottor Astrov, per il quale spasima inutilmente Sof'ja).
Tutto ciò viene esaltato da una prova collettiva in cui ogni creatura si mostra arrendevole, languida, consapevole della propria condizione; quando sembra assuefarsi al mancamento della gioia ecco che vive un barlume di speranza e allora prende colore, sorride, gli occhi brillano di nuova luce prima che questa stessa speranza si mostri una chimera, un inganno, un’atroce conferma del proprio destino.
Così − se prima che l’opera avesse il suo inizio – le penne scricchiolavano, il grillo strideva e si preparavano i conti, dopo la fine dell’opera le penne torneranno a scricchiolare, il gallo striderà nuovamente e i conti saranno rimessi in ordine. Ciò che sarebbe potuto avvenire non è avvenuto né potrà avvenire mai più: chi viveva lontano lontano riparte, chi si consumava stando seduto torna a sedersi, in attesa di consumarsi del tutto: “Noi vivremo, zio Vanja. Vivremo una lunga, lunga sequela di giorni e di interminabili sere; affronteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà, adesso e in vecchiaia, senza conoscere riposo. E quando verrà la nostra ora, moriremo rassegnati…”.

(le lacrime di Sof'ja)
Sof'ja ha appena compreso che il dottor Michail L’volvič Astrov non l’amerà mai. Questa fanciulla – che tutti ritengono brutta – dovrebbe piangere. Probabilmente la scelta più facile sarebbe questa: dopo aver singhiozzato per qualche secondo, l’attrice potrebbe languire, strofinandosi gli occhi, inondando poi il palco col proprio gocciolio addolorato.
Yulia Vysotskaya – che interpreta Sof'ja – invece ci lascia ammirare (ed amare) il pianto che non vediamo: progressivamente i suoi occhi si stringono, la retina diventa più lucida, sembra che una lacrima stia per nascere, siamo quasi sicuri di riuscire già a vederne uno scorcio quando Yulia s’accascia alle scale, nascondendo il volto tra le braccia incrociate. Torna diritta, dopo meno di un minuto, ed ha lo sguardo spento, le palpebre fisse mentre le pupille sembrano un deserto: asciutte, seccate, immobili.
Questo piccolo frammento racconta di che fattura sia stato il lavoro degli interpreti tanto che – lasciati perdere presto i sovratitoli in italiano – l’impegno è stato osservare, con quanta più attenzione possibile, il palco e ciò che lo abitava: la schiena piegata della balia, il fumo della sigaretta dell’anziana madre, il pianto di Elena che finisce in risata; i cocci di una tazza raccolti da Telegin, il viso ubriaco e perciò impassibile di Astrov, il dito puntato nell’aria da zio Vanja; il concerto confuso e iniziale delle voci, certi silenzi durati venti interminabili secondi, lo stridolio folle di una voce; il bianco della schiuma da barba, l'inutile cartina dell'Africa all'interno di un armadio, l'accappatoio bianco e rosa di zio Vanja e l'emozione tremante della mano di Sof'ja che carezza il dottore − addormentatosi − salendo dal polso al braccio, dal braccio alla spalla, dalla spalla al collo, dal collo alla guancia. E ancora: certi modi di sorridere, di sospirare, di avvicinarsi o fuggire, di affermare e negare, di sperare o comprendere guardando altrove, distante, verso il nulla.

(la cravatta di zio Vanja)
“Così parlammo di zio Vanja. È consuetudine pensare che, in qualità di amministratore di una proprietà, debba indossare il tradizionale costume da proprietario terriero: stivali alti, un berretto, qualche volta la frusta in mano, poiché si presuppone che faccia il giro della tenuta a cavallo. Čechov si indignò:
Sentite, secondo me non avete letto quello che ho scritto. È tutto scritto.
Cosa è scritto? – risposi – La cravatta di seta?
Ma certo! Sentite, lui ha una cravatta bellissima, è un uomo elegante, di cultura”.
Così Stanislavskij nelle proprie memorie.
E infatti Konchalovsky veste zio Vanja con una cravatta di seta rossa e – perché questa cravatta si noti – induce lo stesso ad entrare in scena ammirandosela, lo induce ad avvicinarla alle labbra, lo induce a pulirla dalle briciole dopo aver fatto colazione. Evidenzazione funzionale del simbolo, quindi.
La cravatta di zio Vanja dice della figura di zio Vanja e dice – di zio Vanja – che “è un uomo elegante, di cultura”, che ha “talento, intelligenza, coraggio”, che ha letto tanti libri e che, se non avesse sprecato la propria esistenza ad amministrare la tenuta, chiuso tra quattro pareti “come una talpa”, sarebbe (forse) “potuto diventare uno Schopenauer, un Dostoevskij”. La cravatta di zio Vanja è il fallimento di zio Vanja, è il segno della sua sconfitta, è l'icona della sua disfatta.
La cravatta di zio Vanja posta in scena da Konchalovsky racconta, più di qualsiasi altra parola in aggiunta, quanto – Čechov – sia stato Čechov e quanto  lo Zio Vanja che abbiamo visto sia stato uno Zio Vanja degno degli applausi che ha ottenuto.

 

 

 

NB. Fonte delle foto a corredo dell'articolo: 
http://depesha.com/arts-culture/arts/andrei-konchalovskys-uncle-vanya
http://www.telegraph.co.uk/culture/theatre/theatre-reviews/10787942/Uncle-Vanya-Three-Sisters-Wyndhams-Theatre-review-deadening.html

 

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Zio Vanja
di Anton Čechov
regia Andrei Konchalovsky
con Vladas Bagdonas, Natalia Vdovina, Yulia Vysotskaya, Irina Kartasheva, Pavel Derevyanko, Alexsander Domogarov, Alexander Bobrovsky, Larisa Kuznetsova, Ramune Khodorkaite
scenografia Andrei Konchalovsky
musiche Eduard Artemiev
luci Andrei Izotov
progetto scenografico Lubov Skorina
assistente ai movimenti Ramune Khodorkaite
produzione Teatro Accademico Statale Mossovet
lingua russo con sovratitoli in italiano
durata 2h 45'
Napoli, Teatro Mercadante, 12 giugno 2014
in scena 12 giugno 2014 (data unica)

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