“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Caterina Serena Martucci

Mirandolina vintage

Si prenda un classico del teatro, in questo caso Goldoni, si scelga la più classica delle sue commedie, in questo caso La locandiera, e si spennelli il tutto di un’atmosfera vintage, con vestitini a pois e sotto il ginocchio, sottovesti, scarpe bicolori, cappelli, biancheria maschile rigorosamente bianca.

Tutto per il popolo, niente attraverso il popolo

La scena è punteggiata di bassi tegami di rame che contengono polveri colorate. Al centro c’è un grande calderone, di alluminio ramato, una sorta di tinozza. Altri recipienti da cucina sono sparsi qua e là, alcuni contengono delle candele, apparentemente l’unica fonte di illuminazione. Mentre si prende posto, una donna è già in scena sulla sinistra, seduta di spalle su un calderone di rame rovesciato e armeggia silenziosa con delle fascine. Quando si fa buio in sala si copre la testa con uno scialle nero e prega, mormora parole incomprensibili con gesti e sguardo ieratici, con la fissità immobile ed eterna della tradizione.

La pecora ha mangiato o non ha mangiato il fiore?

Nella Giornata Mondiale per i Diritti dell’Infanzia va in scena al Teatro dei Piccoli di Napoli Il piccolo principe, il più moderno dei classici della letteratura per l’infanzia, che si rivolge ai bambini, strizzando l’occhio ai loro genitori, con il racconto magico di una favola atemporale, pur se collocata nello spazio e nel tempo.

Futuro presente

In principio esisteva sulla pagina scritta, il papiro di Luciano di Samosata, poi i romanzi del XVIII e XIX secolo, presto passati sugli schermi del cinematografo, accompagnando e sviluppando l’evoluzione degli effetti scenici. Con Marco Paolini la fantascienza approda alle tavole del teatro. Dopo aver tanto interrogato il passato, offrendo sempre fecondi spunti di riflessione per il presente, si rivolge al futuro, un futuro più o meno vicino, per indagare temi etici ed esistenziali che riguarderanno il domani, ma hanno i loro semi già nel presente e informano la nostra umanità.

25 anni dopo

A sipario chiuso si sente un coro di voci che scandiscono lo slogan: “Vogliamo l’Italia! Vogliamo l’Italia! Vogliamo l’Italia!”, poi la tela si apre su un gruppo di cinque improbabili gladiatori, con tanto di corazza anatomica, tunica, mantello e schinieri dorati: “Buonasera e massimo rispetto!”.

"Perché si impegna così tanto Franz?"

Una luce illumina la scena quasi nuda del Teatro Bolivar, se si prescinde da una rete da letto e altre reti metalliche, da recinzione di cantiere, appoggiate alle quinte. Un giovane uomo entra in scena, scalzo, vestito di sformati pantaloni colorati e una sgargiante camicia a quadroni, occhiali dalla montatura scura di celluloide. L’uomo costruisce la scena, lentamente, in silenzio. Trasporta dei blocchetti forati di cemento, di quelli che fanno da base alle recinzioni. L’uomo costruisce un immaginario quadrilatero, vi colloca al centro la rete, vi poggia sopra un cuscino, una rozza coperta militare. Infine chiude lo spazio, infigge le reti metalliche nei blocchetti, materializza una cella. Una seggiolina di legno, una padella di alluminio dal lungo manico, un secchio di metallo, completano l’allestimento dello spazio.

Pulcinella nella quinta dimensione

Napoli. Ex Asilo Filangieri, accanto al chiostro di Santa Patrizia, in mezzo ai pastori di San Gregorio Armeno, nel cuore pulsante della Neapoli greca e romana. Adulti e bambini si radunano per ascoltare le storie di Pulcinella, la storia di Napoli che Pulcinella ci ha promesso di raccontare.

L'essenza di un sospiro

La tela rossa si apre in un buio caravaggesco, interrotto solo dal bianco sporco di una lacera camicia, il collo rosso, coperto da una barba grigia, di un uomo ormai anziano, stracciato dalla vita. L'uomo parla, rauco, o meglio si lamenta, la testa poggiata su baule verde, di legno. Tutto è buio attorno a lui, le gambe sono avvolte dal buio, solo il torso e la voce esistono. "Acqua, acqua nun stutà 'o ffuoco d'ammore". Piange. Le parole sono arse come la sua gola, come la sua voce, come la sua pelle, come i capelli e la barba, sparsi di sale di anni e di naufragio. "Notte, guardame 'nfaccia", "Si fusse notte, oi notte", reitera l'invocazione.

Non solo cenere

Una struttura occupa il centro della scena. Sembra un grande armadio a quattro ante, massiccio, di foggia antiquata, con pannelli tripartiti sulle ante e una stretta cornice modanata. Un lato, il destro, è rosso, come di sangue, come di fuoco, l'altro è nero, come bruciato, annerito di fumo. È la porta degli Inferi, è il muro della morte, è la porta dell'armadio. Dallo stesso lato i rami di un albero secco si abbarbicano sull’armadio, dal lato morto, dal lato bruciato, illuminato da una luce fredda e livida.

Parole e fumo

In tempi di produzioni minimali lo spazio scenico è delimitato dal quadrato di un tappeto. Una sedia, dei fascicoli, dei bicchieri di vetro, completano l’arredo scenico. La luce rossa diffusa da un proiettore segna l’entrata dell’unico protagonista, un ragazzo magro e dinoccolato in jeans e felpa che si siede sulla sedia di legno, di foggia comune e antiquata. È un pentito di camorra, un collaboratore di giustizia che gode del programma di protezione che lo Stato offre ai testimoni.

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il Pickwick

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