“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Michele Di Donato

Federico Garcia Lorca, anima dalle azzurre stelle

Sala Ichòs e la sua piccola folla d’un sabato sera di fine novembre; l’atmosfera, come sempre, sa di vino e familiarità. Vi si omaggia Federico Garcia Lorca. L’omaggio al poeta s’affida a tre figure, due musici e un narratore; quest’ultimo ha l’aria familiare e la rassicurante bonomia del seriale preserale televisivo (Lucio Allocca). L’accompagnano una voce, qualche percussione e un paio di chitarre (Lello Ferraro e Antonio Chioccarelli).
Federico Garcia Lorca è lì, in un angolo, scruta dal basso una scena che gli fa posto; una sua foto, come votiva, accampa a scranno una sorta di comodino che drappeggia porpora.

Il Sancarluccio tra angeli e demoni

Un teatro che chiude è carne che s’espianta dal corpo vivo di una città. Un teatro che chiude è fiato d’attore che si spegne, è assito che s’impolvera, parola che s’ammutola.
Un teatro che chiude è il trionfo del silenzio, è corteo funebre che si snoda quasi inosservato dietro il feretro della cultura. Una cultura assassinata quotidianamente dall’abbrutimento del senso comune e che ormai è abituata a celebrare esequie rituali, sempre con le stesse prefiche a stillar lacrime su lacrimevoli ragioni.

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il Pickwick

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