“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Michele Di Donato

Clint e le sfumature

Diciamolo subito: il vero cecchino è Clint Eastwood: dalla metà degli anni Noventa tutte le volte che si è piazzato dietro la macchina da presa raccogliendo l’eredità testamentaria dei suoi padri putativi – Sergio Leone e Don Siegel, ai quali non a caso dedicò Gli spietati – il vecchio Clint non ha sbagliato un colpo, a prescindere dal bersaglio (il genere) a cui indirizzasse il mirino della telecamera.

Mangiafuoco chi?

Chi è o cos’è il Mangiafuoco cui si immola la scena? Questo l’interrogativo ellittico, che cerca un complemento nella resa scenica, che pone lo spettatore in una prospettiva di ricerca del senso raccogliendone ed accompagnandone lo sguardo. Ed è interrogativo che, come ogni questione epocale che si rispetti è destinato a rimanere insoluto, o comunque aperto alla molteplicità delle soluzioni, privo di risposte ultime ed inequivoche.

Magnetismo ed empatia: Radiodervish live

La chiamano world music; è quella che fonde esperienze e sonorità geograficamente distanti; è quella, fra gli altri, dei Radiodervish, band formatasi dall’incontro di uomini e culture e che porta avanti da ormai un ventennio quest’opera di contaminazione, traducendola in una cifra stilistica ormai unica e riconoscibile.

Arte a Bari: intervista a Cristina Cara

Incontriamo Cristina Cara, artista barese, alla vigilia dell’esposizione delle sue opere nello spazio di Lucamante Arredamenti, esposizione durante la quale darà anche prova dal vivo delle proprie doti artistiche realizzando un’opera estemporanea. Schiva e garbata, ci racconta di sé e del suo rapporto con l’arte, delle sue aspirazioni e dei suoi timori, del suo rapporto con l’opera di creazione e sul nesso vicendevole che sussiste tra l’artista e la propria interiorità. Nata e cresciuta a Bari, dove ha frequentato il liceo artistico, si laurea poi in Scienze dell’Educazione, senza però mai abbandonare la passione originaria: la pittura.

Come mosche da bar

Assistere nell’arco di soli tre giorni a due spettacoli diversi (ma poi neppure troppo, come si potrà leggere più avanti), portati in scena da parte dello stesso sodalizio artistico consente di avere una visione più approfondita del lavoro svolto e delle modalità con cui lo si svolge; e non solo per la dilatazione del proprio sguardo, cui si offre opportunità di sporgersi di un tanto più in là allargando la panoramica, ma anche – e forse soprattutto – grazie al fatto che è proprio soffermandosi sulle peculiarità che si ripetono, sulle iterazioni, su quelli che chiameremmo tòpoi – e quindi, di fatto, restringendo il cono visivo, fino a lasciare che lo sguardo si soffermi sui dettagli specifici e non sulla visione d’insieme – che il nostro occhio ha la possibilità di entrare in un sistema drammaturgico che sembra identificativo di una poetica.

Geometrie memoriali

Parte di un trittico – La trilogia degli occhialiBallarini di Emma Dante vive di sussistenza autonoma, pulsa di consistenza propria. Lo lega, al resto del trittico, il riferimento “ottico” (gli occhiali), ma non solo: c’è anche un discorso memoriale, che apparenta ad esempio l’odissea dello “Specchiato” di Acquasanta ai danzatori “a ritroso” di Ballarini. Perché Ballarini, come e più ancora di Acquasanta – di cui pure su queste pagine testimoniammo visione – è sull’essenza della memoria che posa il suo sguardo, e lo fa con la leggiadria poetica che allo sguardo di Emma Dante appartiene, e che sa trasformarsi in immagine per la scena, essenziale e dilatata ad un tempo, racconto in cui si fondono minimale e minuzioso, densità drammaturgica e fluidità della sua resa.

Mac, Beth, e la tragedia dell’attore

Sembra molto pop, questa rilettura di Macbeth, a cominciare dalla scena, che è accatasto pletorico di ciarpame da night club demodé; sembra molto pop, ma è solo un’impressione d’abbrivio, propria di chi si può lasciar fuorviare dalla scissione del titolo: Macbeth e Lady Macbeth scissi in Mac e Beth, ovvero due essenze fuse in una vita in comune – quella di coppia – ad incarnare la diramazione di una sorta di dualità junghiana dell’animo umano: Mac la forza, Beth l’anima; Mac il braccio, Beth la mente, che instilla in lui il germe della rivolta, della ribellione, contro il legittimo re di Scozia, o contro il legittimo padrone del teatro Gobetti, poco cambia.

Teatro a lievitazione naturale

Il Théâtre de Poche accoglie con la sua ritualità capovolta: si scende nel fondo, in un antro che al suo ingresso reca impressa una tabella che lo identifica come “cueva de los deseos”, si attraversa una soglia che immette direttamente sul palco, dal palco si guadagna la platea, nel cupo, nell’ombra: tocca attraversare la scena per diventare spettatori.

Di sangue, d'amore, di terra

Mela granata, colore del sangue, colore di gocce che stillano dal cuore; Mela granata, passioni violente di un mondo ancestrale, fatto di scene rurali, rituali tribali, amori carnali; Mela granata è una storia tinta di rosso, intinta nel rosso; storia di passioni che si fa messinscena compiuta. La scena che l’accoglie è uno spazio cintato, nudo steccato su tre lati conchiude – lasciano aperta la quarta parete – il luogo dell’azione scenica, delimitandolo e designandolo come un’enclave, luogo che si sottrae all’esterno, che rapisce se stesso per vivere in se stesso.

Variazioni poco variate

Chi si ama quando si ama davvero? L’interrogativo, all’apparenza banale, in realtà sottile, è il cavallo di Troia attraverso cui del tema più caro ai poeti imbastisce ordito per prendersi la scena Éric-Emmanuel Schmitt: due uomini e l’amore per una donna, due solitudini confinate ai confini del mondo, in un’isola nordica a cavallo del Circolo Polare Artico; uno scrittore premio Nobel ed un sedicente giornalista sono i protagonisti di una pièce imperniata su un sottile e raffinato psicologismo, scandaglio gettato in quell’abisso tenebroso che è l’animo umano, col suo groviglio di sentimenti inesplicabili, col suo rimanere ostaggio dell’ineffabile, dell’indicibile, anche quando a dirne è chi di parole (dette, scritte) vive, e chi infine al proprio sentire (non detto, parzialmente scritto) sopravvive.

il Pickwick

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