“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Michele Di Donato

Solitudini senza tempo

È un viaggio al termine di una lunga notte, un viaggio al nocciolo duro di una sofferenza atavica, quello che conduce una sposa a bipartire due diverse solitudini, lontane per epoca e vocazione, accomunate dal dolore di lacrime incapaci di sgorgare, eppure così viscerali da rappresentare l'una la sintesi e l'antitesi – al contempo – dell'altra.

Rioccupare le strade coi sogni

“Io a quel tempo / Stavo ancora aspettando Godot, / Cioé aspettavo la morte / Per poter dire ‘rinascerò’, / Fatto diverso, / Collegato d'amore alle masse, / Più cultura, più lotta di classe, / Ma Godot non è mai arrivato, / Si fa le cose sue, / Ed è meglio così, certo / Per tutti e due”.
(Claudio Lolli, Autobiografia industriale, dall’album Disoccupate le strade dai sogni)

 

 

Sogno e follia. Due binari paralleli lungo i quali scorre un treno di senso. Sogno e follia, due direttrici eteree, che sfuggono alla presa tattile per sfumare come una scia impalpabile eppure percettibile nella cappa d’aria in cui siamo immersi. Sogno e follia prendono forma teatrale per raccontare una provenienza ed una destinazione, una scaturigine probabile ed un approdo possibile: dalla follia (e da un’utopia ormai scemata, ma non per questo rassegnata all’abdicazione) prende le mosse Il sonno dell’arrostito, di Astorritintinelli per condurre la propria parabola verso il recupero di una purità sognante, di cui informare la speranza per un futuro migliore.

Vi regalo il mio Fassbinder. Firmato: Latella

Monaco di Baviera, 10 giugno 1982: quello che giace riverso sul pavimento della propria casa è il corpo senza vita di Rainer Werner Fassbinder, trentasette anni appena compiuti, regista, forse genio; un cocktail letale di cocaina e sonniferi gli ha somministrato un sonno senza possibilità di risveglio. Resta intorno a lui, nell’immediato, il vocio stridulo dello spettegolio da pianerottolo; resta dietro di lui, nel tempo, la sua opera, filmografia fittissima, se rapportata ai pochi anni che visse, epitome dell’arte di cui fu portatore.

I supplizi di Fibre, lo splendore della visione

Quattro quadri per quattro supplizi, quattro episodi indipendenti eppure strettamente interrelati da un filo doppio e comune, che trova il proprio ganglio formale in un sistema di luci graticolare che, in ognuna delle quattro partiture, frammenta a scacchi l’assito come fosse l’unica luce possibile in uno spazio di prigionia, perimetro scenico di contenzione e costrizione, in cui personaggi diversi di storie diverse mostrano la comune, meschina, quotidiana bruttura del fondo umano.

Apocrifo pasoliniano

Apocrifo significa letteralmente “che non si vede, nascosto”; per estensione – e segnatamente in riferimento a quegli scritti che la Chiesa ufficiale non riconosce – la definizione designa quei Vangeli espunti dal canone biblico, ovvero “non riconosciuti”.

"Tu, mio", luci, ombre

Un’isola, una vacanza, il dopoguerra: contesti spazio-temporali in cui un adolescente vive la propria transizione, il passaggio attraverso quella soglia che comincia a far di un ragazzo un uomo; il passaggio attraverso un’estate in cui, più che nelle altre, “il sole spacca la pelle e l’aspro dello scoglio indurisce la pianta dei piedi”. Corpo che indurisce adulto attraverso tenerezze del cuore, un primo amore che va oltre la carnalità dell’esperienza per farsi assaporare nell’essenza intima di una affinità elettiva, quasi come magica; Tu, mio, di Erri De Luca, è romanzo di formazione che racconta in prima persona questo passaggio, l’attraversamento del confine sottile tra l’inconsapevolezza imberbe e la fregola di scoprire la vita scoprendone anche i risvolti acri.

Barbonaggio collettivo, atto d'amore condiviso

Avevamo incontrato il Barbonaggio Teatrale nella sua veste performativa individuale a Napoli, all’esterno del NEST – Napoli Est Teatro, rimanendo colpiti, impressionati, affascinati dall’idea, dal progetto, dall’onestà intellettuale e dall’amore per la propria professione – che non ha vergogna di dirsi “mestiere” – che vi sottendeva; avevamo incontrato il Barbonaggio Teatrale ed Ippolito Chiarello in una tappa del suo tour europeo che faceva scalo a Napoli, lo raggiungiamo a Lecce, da dove la saga barbona è partita e dove in ultimo approdo ritorna, come ogni anno da cinque anni a questa parte, per l’atto conclusivo, per il Barbonaggio collettivo, per chiamare a raccolta attori, professionisti e non, desiderosi di riscoprire l’anima saltimbanca di un mestiere, di metterlo alla prova col contatto diretto con la gente, all’aperto e non protetto addiaccio della pubblica piazza, un cubo di legno ad improvvisarsi ribalta, un quadrato di cartone a dichiarar professione in corso, la voce come strumento d’imbonimento prima, di recita poi, se qualche passante s’arresti curioso.

La mente umana, teatro della schizofrenia

Schizofrenia. La prima parola suggerita da Elettrocardiodramma è schizofrenia; è la prima a cui pensiamo durante la visione, è la prima che profferiamo tra noi e noi alla fine dello spettacolo: schizofrenia. Non è pero parola che si possa lasciare qui “appesa” come sintesi estrema – e quindi estremamente parziale – di ciò a cui abbiamo assistito. Perché Elettrocardiodramma, con cui Leonardo Capuano ha chiuso la seconda edizione di “Per voce sola” al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, è un viaggio intorno ai meandri contorti della psiche, un viaggio affrontato col mezzo di trasposto del nonsense, adoperato per percorrere la via del teatro, solco in cui incanalarlo, binario lungo il quale seguire l’itinerario di questa complessa articolazione scenica per io monologante.

Barbonaggio, viaggio

“… per la stessa ragione del viaggio, viaggiare”
(Khorakhanè, Fabrizio De André)

 

Un paio di scarpe per andare, un palcoscenico (di legno) già calcato, un altro (d’asfalto, cemento o di qualunque altra materia sia fatta la strada) ancora da calcare; un paio di scarpe che calcano le tavole di un palco sono la prima immagine di Ogni volta che parlo con me, il film che narra del viaggio “barbone” di Ippolito Chiarello; un paio di scarpe sono l’immagine in primo piano che chiuderà idealmente il viaggio alla ricerca – del sé, di un pubblico, di un sé attraverso un pubblico – che l’attore, riestraendo dalla propria indole quell’anima girovaga endemica, ha compiuto in giro per l’Europa, vendendo sulla pubblica piazza, dall’alto d’un trespolo a mo’ d’imbonitore, brandelli della propria arte, tranci di spettacolo diversi, menu à la carte di un fast food itinerante.

Chiusi alla polvere...

È polvere quella che si deposita negli interstizi, è polvere quel sedimento pulviscolare, quasi impercettibile e che pure, insinuandosi pervicacemente, può minare con stillicida cadenza il funzionamento di un meccanismo, di un ingranaggio, che può finire per incepparsi per quel granello di polvere in più tra un ganglio e un altro ganglio, senza balzare all’occhio, eppure difettando dall’interno un congegno all’apparenza efficiente e funzionante.

il Pickwick

Sostieni


Facebook