Extra La locanda delle chiacchiere
«Il viaggio s’arresta in una locanda: scoppietta la fiamma, una musica dice il suo tono, il bisbiglio di voci vi domina legando i tavoli ai tavoli, gli uomini agli uomini. È qui che i racconti s’incontrano».
Non so come ci siamo messe a parlare del ruolo di noi donne nel mondo contemporaneo. Eravamo sulla terrazza di un bar in Corso Buenos Aires a Milano, dove abitiamo tutte e tre.
La giovane Lene viveva nella fattoria più settentrionale del Reame di Danimarca, quelle Terre d’oltre mare ghiacciate lontano dal Palazzo della Regina, dove la neve cade abbondante e il vento ulula gelido. Lene faceva da guardiana alle oche. Era molto bella ma egoista, meschina, superba e arrivista. Disprezzava profondamente la sua umile condizione di contadina e maltrattava i pennuti indifesi capitati sotto la sua sorveglianza.
Dopo la cena andai in cucina per fumarmi una sigaretta, e mi versai ancora da bere. D’improvviso mi venne alla mente quando, a quattordici anni, recandomi alla Scuola Media Tiepolo di Milano passavo davanti alla chiesa Santa Croce dove entravo a pregare per mia madre che stava diventando cieca. Il che mi dava una certa serenità.
I
Intorno a noi, addosso a noi,
la nebbia milanese
copriva i baci
bagnava le carezze.
Ci nascondeva,
ed era tutto grigio, erba
e sera.
Tu c’eri, mia fantasia
cattiva? Davvero ci sei stato
(quell’anno su quel prato, in quella
appena nata e fredda primavera)?
Se c’eri, tornami indietro,
così trascorso ieri: portami via.
II
Ho visto tutto e non so niente,
a malapena ricordo il mio nome
(il tuo non l’ho dimenticato. Mai).
Tra tanta gente sparviera
‒ uccelli di rapina –
mi chiedo come ho potuto
resistere, assediata con te
da questa sporca, vecchia
borghesia.
Non ci sono riusciti, anima mia,
ad annientarmi, anche se
il freddo della sera
gela più di uno sputo.
Dai, che sta per finire
questa porca cancrena,
e manca poco
alla mattina.
Queste due poesie sono un omaggio a Roberto Vecchioni, e citano versi tratti da Luci a San Siro, Arthur Rimbaud.
(In Rime e varianti per i miei musicanti, Marco Saya Edizioni, Milano 2020)
È cominciata così. Io e il mio amico Davide, due poco più che ventenni scapoli, lavoriamo come impiegati nello stesso ufficio di una banca alla periferia est di Milano.
Davide è un carrierista, punta alla dirigenza il più presto possibile. Ma il percorso è complicato perché altri colleghi, vuoi in quanto disposti a tutto pur di entrare nelle grazie dei loro superiori vuoi per maldicenza, lo hanno superato.
E scarse, se non nulle, sono ormai le possibilità di Davide per recuperare il tempo perduto.
Lungo il fiume, attraverso gli alberi. Camminiamo con calcolata lentezza. Ho Lisa a braccetto. I suoi occhi sono nei miei, sembrano cercarmi. Sta canticchiando Walk of Life. Le piacciono, come piacciono a me, i Dire Straits. E in realtà è una passeggiata di vita, la nostra. Viviamo a Milano.
Pensami mezzora almeno. Così Antonio, rigirandosi nel letto, si rivolge idealmente a Gaia, la donna con la quale ha convissuto per tre anni.
Ora Gaia vive sola. Ha lasciato Antonio. Il loro rapporto si era ormai deteriorato, al punto che Gaia non riteneva ormai più sopportabile l’ingenuità, se non peggio, del suo compagno.
Sta arrivando? Quante volte affacciandomi dal balcone, quando lo invitavo a casa mia per pranzare insieme e scambiare quattro chiacchiere, ho visto la sua figura slanciata prendere forma sulla strada che lo portava da Desio, dove abitava in un monolocale, per venire qui da me a Vimercate. Il solo fatto di vivere in Brianza, i cui abitanti, in generale, hanno un forte senso di appartenenza lo faceva sentire sicuro di sé. Su questo lui non aveva dubbi.
Le pareti
Di quale altro colore,
che non si perda l’essenziale che sono
– lisce, senza bisogno di niente?
È il 2015.
Quando la conobbi ero nel bel mezzo di una fase impegnativa della mia ricerca di una posizione lavorativa stimolante e proiettata nel futuro. Di offerte ne avevo avute diverse ma ancora mancava quella che rispondesse appieno alla mia tendenza irrinunciabile nel settore industriale. Vale a dire la creatività in senso lato.
Eravamo sdraiati sul divano nel nostro soggiorno da sogno. La luce del sole inondava la stanza. Noi due, io Alberto e lei Elisa, mia moglie. Sul tavolino accanto a noi due bicchieri e una bottiglia di Moscato dell’Oltrepò Pavese. Di tanto in tanto riempivo i bicchieri e passavo a Elisa il suo. Le mie mani le accarezzavano le gambe sotto la gonna. Lei non si ritraeva, solo qualche sospiro, un gemito infine. La finestra era aperta, e si udiva il continuo brusio della gente che passeggiava in Via Dante nel Centro di Milano.
Questa luce m’acceca. È fredda come il tavolo che sento aderire alla mia schiena. Ho freddo. Ho un freddo che brucia, brucia a causa di qualcosa che ho in corpo e che non dovrei avere, non avrei mai dovuto avere.
E invece...
Come un bimbo già torpido di rancore,
sono esploso all’ennesimo insulto,
per collassare, lo vedi,
sul sistema nervoso (ovvio: è il mio nucleo...).