“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 22 October 2013 02:00

Un apostrofo viola

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Uno spazio teatrale che si apre è una nuova creatura che nasce e cui si augura di crescere e prosperare. Sull’autobus chiediamo informazioni per arrivare alla piazzetta San Vincenzo e con piacere scopriamo che qualcun altro vi è diretto, non solo alla piazza, ma proprio al teatro. Un tempo era la chiesa dell’Immacolata e San Vincenzo alla Sanità, oggi vi è ospitato il Nuovo Teatro Sanità. Belle sculture aeree di Riccardo Dalisi risignificano l’ingresso e lo trasformano in teatro. Nell’atrio, ormai foyer, il pubblico si confonde con le inconfondibili sculture di cartapesta di Claudio Cuomo, con il loro senso di inquieta tristezza.

Entriamo nella navata unica, con gli altari barocchi di marmo che si fondono con le poltrone di velluto rosso. Il fondale è nero. Unici arredi scenici una barra appendiabiti, sul fondo, al centro, e una sorta di pouf rosa. Saranno sufficienti a Gea Martire per evocare ogni ambiente di questa storia. È la storia di una donna sola, non ne conosciamo il nome, Carmen Covito l’avrebbe definita una bruttina stagionata. “Capisci che ti stai facendo vecchia quando le candeline costano più della torta”. Questa la frase di esordio. Descrive e circoscrive il tema, il campo e il registro attorno al quale ruoterà la vicenda. Argutamente comica, irrimediabilmente triste, nonostante il lieto (?!) finale. Una donna sola, senza un uomo vicino è, ancora oggi e nonostante qualsiasi convinta ed entusiastica consapevolezza, uno scarto della società. Qualcuno che in qualche modo deve avere qualche difetto grosso, sarà fisico, sarà caratteriale, saranno le circostanze, sarà la famiglia, non è ben chiaro cosa. Eppure una donna sola è vista, comunque, come qualcuno che ormai è fuori dai giochi, rassicurante nel suo patetico angolo. Specchio deformato nel quale si specchia la tranquilla e magari tronfia felicità (?!) o normalità delle amiche, Olga e Annamaria: “Loro a volte mi guardano con una certa compassione e fanno un minuto di silenzio”.
Una donna brutta la nostra protagonista. Una donna scialba. La versione adulta della compagna di scuola anacronistica. I capelli non sono biondi, ma color stoppa. Legati senza gusto in una crocchia che non è uno chignon, ma solo una pratica acconciatura. Tondi occhiali dai vetri spessi, a fondo di bottiglia (o “a coppola e’ cazz’” secondo l’icastica definizione del signor Arturo, il suo datore di lavoro). Canotta con la spallina larga, si direbbe di lana o di caldo cotone, di quel bianco opaco che non è giallo ma sa già di vecchio. Naturalmente l’intimo è acquistato dalla madre, della nota (?!) marca “Pina, l’intimo che ti sfina”. Gonna lunga sotto il ginocchio, blu, informe, quasi quanto il cardigan di lana, grigio, e la blusa bianca a fiori. Una donna di un altro tempo si direbbe. Una donna dimenticata nel tempo, ma non dal tempo, che ha lasciato inesorabili i suoi segni. Una vita fatta solo di lavoro in un’agenzia pubblicitaria, di battibecchi con la madre che la vorrebbe sposata (chissà se poi davvero...), dell’attesa di qualcuno, qualcosa, di essere parte del consorzio umano e non reietta creatura.
Galeotta fu la mulignana (melenzana), declinata in forma di parmigiana da materna madre confezionata secondo i più canonici crismi, compresa la doppia frittura della solanacea, prima e dopo l’indoratura. L’accidentale unzione dell’abbigliamento regala a noi la vista del suo intimo (un casto reggiseno dalle bianche e triangolari coppe contenitive, come si vedono ormai solo nei negozi per donne mature dal seno abbondante) e alla protagonista l’inatteso palpeggiamento di Peppino, un rozzo fattorino che individua in lei il temperamento della succube e che instaurerà una relazione padrone-schiava degna dei più triti clichés declinati in salsa napoletana, con tanto di incontro d’amore a Ischitella. E la solanacea si trasforma in mulignana (questa volta nel senso di livido, per similitudine con il colore dell’ortaggio). Ci sono uomini che non amano le donne. Che le sanno amare solo attraverso il dolore e la degradazione fisica. Che si sanno relazionare solo se si percepiscono in una posizione di superiorità. E ci sono donne che lo accettano. Che ritengono di non meritarsi altro. Cosa non fa fare la solitudine. Cosa si può essere disposti ad accettare per avere una briciola di felicità, per sentirsi bella, desiderata da un uomo. Forse davvero una donna è tale solo se amata? Ma quell’input produce sempre un cambiamento. Quelle mulignane smettono di fare male e una nuova consapevolezza di sé si fa strada, il desiderio di piacersi. Disfatto il nodo i capelli si rivelano splendidi, cambiato l’intimo le forme sono generose, tolti gli occhiali lo sguardo è splendente. Incredibile miracolo della finzione teatrale, della capacità di creare e disfare un personaggio con un gesto, uno sguardo. La pietra grezza è diventata uno splendido diamante e quell’uomo, ai cui occhi lei ha perso attrattiva, può anche decidere di andare via, ormai non serve più, ha svolto la sua funzione maieutica. Resta il diamante, freddo e crudele. Una vittoria. Davvero? Davvero la relazione può essere impostata solo nei termini di schiavo e padrone? Il samba di Ahi Maria di Rino Gaetano chiude degnamente e allegramente la storia. Nella mente aleggiano però anche altre note, Io Donna, io Persona di Mia Martini, il desiderio di uscire fuori dalla spirale (davvero inevitabile?!) schiavo-padrone.

 

 

 

 

 

Mulignane
da un racconto di
Francesca Prisco
regia Antonio Capuano
con Gea Martire
elemento scenografico Flaviano Barbarisi
presenta Eventi Mediterranei
lingua napoletano
durata 1h 15’
Napoli, Nuovo Teatro Sanità, 18 ottobre 2013
in scena dal 18 al 20 ottobre 2013

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