“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 21 December 2012 10:07

La dittatura del simbolo

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Dopo vent’anni dalla loro ultima data al sud Italia tornano i Death In June a Salerno, terza tappa (dopo Milano e Roma) di un mini-tour italiano, prima di ripartire per l’Australia (ormai da anni residenza di Douglas Pearce). Nello spazio indoor del Forte La Carnale, che ha visto il tutto esaurito, va in scena la band, ridottasi negli ultimi anni al frontman e al fido collaboratore John Murphy. Il set è molto semplice: dietro alle percussioni di Murphy, proiezioni di semplici giochi optical; davanti Douglas con due tamburi e campane tubolari.

Il gig segue un andamento collaudato da più di un anno, ma per chi vi assiste per la prima volta ha un inizio potente: We Drive East, Till the Living Flesh is Burned, Death of a Man, a costituire in medley dove i due percuotono i tamburi e le campane evocando un’atmosfera marziale sottesa da tapes dissonanti. Bandiere nere con sopra il “Totenkopf”, ossia il teschio con i denti insieme al numero 6, uno degli emblemi delle SS, in realtà già adottato dall’esercito prussiano di Federico il Grande: il teschio sta per “morte” il 6 indica “giugno”. I due indossano uniformi mimetiche e maschere bianche. “Fa’ una passeggiata lungo la strada verso il Paradiso, il terreno è morbido e l’aria sa di buono, Paul sta aspettando là e così anche Franz. Ora solo le memorie viaggiano sulle rotaie. Questa strada conduce al Paradiso. Piedi gelati che aspettano, la terra che esplode per i gas dei corpi, calci di fucili per farti cadere a terra. Adesso solo fiori da idolatrare. Questa strada conduce al Paradiso”. All’inizio c’erano i Crisis, band punk nata proprio nel ’77, fortemente connotata in senso anarchico e antirazzista, composta da Douglas Pearce (non ancora semplicemente Douglas P.), Tony Wakeford e Patrick Leagas. Poi nel 1981 il primo singolo a nome Death In June, nome scelto (quasi sicuramente) per ricordare la Notte dei Lunghi Coltelli del 30 giugno 1934 in cui Hitler ordinò la soppressione delle SA, le camicie brune. Nel 1983 esce il primo lp The Guilty Have No Pride, e l’anno dopo Wakeford è cacciato dal gruppo a causa della sua adesione al National Front (formerà i Sol Invictus). Nell’85 Leagas abbandona il gruppo e così Douglas P. rimane l’unico responsabile, attorniandosi di vari collaboratori, principalmente David Tibet – dei Current 93 – e Boyd Rice. Per ciò che riguarda l’aspetto musicale, già dal primo disco i DIJ si smarcano dal punk per dar vita ad una combinazione di folk, ritmiche elettroniche, percussioni tribali, suoni industrial, con testi fortemente connotati da poetiche crepuscolari in cui ricorrono i temi del decadimento, della morte, della natura come metafora dei sentimenti umani, e in cui non mancano riferimenti alla storia passata o anche alla situazione politica attuale. Quel che manca è il piglio declamatorio da comizio che invece si riscontra in altre formazioni inglesi impegnate a denunciare le storture della politica thatcheriana (non solo nate dal punk, come Crass, Poison Girls, Discharge, Redskins, ma anche dal rumorismo come Test Dept.). Questo immaginario poetico e musicale si condensa in una scena che si contraddistingue abbastanza peculiarmente, dando vita al cosiddetto neofolk, folk noir, o anche folk apocalittico, un filone che nulla ha a che fare con le derive “gotiche” del dark mid-eighties (Fields of the Nephilim, Mission) ma che si impone come una tra le correnti più feconde dell’orizzonte alternative. Sta di fatto che i temi trattati nelle liriche gravitano intorno ad alcuni tòpoi: crisi di valori delle società occidentali, denuncia delle ingiustizie del capitalismo democratico, riscoperta delle origini pagane dell’Europa, critica dei valori cristiani e della religione in particolare, motivi che purtroppo ricorrono nell’armamentario argomentativo-ideologico delle formazioni di estrema destra europee. “… Le rune degli uomini morti, le rune degli amori finiti, le rune dei sogni infranti, le rune dei pensieri passati, le rune delle memorie estinte, le rune delle vite trascorse, le rune delle vecchie bugie, deporre vecchi fantasmi e ammazzare il tempo”.  C’è da dire anche che il neofolk non ha mai subìto ostracismi dalla critica musicale specializzata, anzi i sostenitori più accorti e interessati al fenomeno hanno sempre ridimensionato gli aspetti più compromettenti dei loro beniamini, specie nel caso dei DIJ, interpretandone i richiami alla cultura neopagana come fascinazioni meramente estetiche, mai di contenuto. “Quando la vita non è nient’altro che delusione e il nulla è divertente, la selvaggia caccia alla solitudine è una vita senza Dio, è una fine senza amore… Ma cosa finisce quando i simboli si frantumano? E chi sa cosa accade ai cuori?”. Perciò in poche occasioni ai DIJ è stato vietato di esibirsi (a Losanna, Chicago), o lo stesso Douglas P. ha tenuto a giustificarsi quando in Germania è stata vietata la vendita ai minori di Rose Clouds of Holocaust. Questo non ha impedito ai DIJ di suonare anche in Israele. “… E quando le ceneri della vita cadono dal cielo, nuvole rosa dell’olocausto, nuvole rosa di bugie… E le celebrazioni finiscono, come devono finire, dai corvi incappucciati di Roma ai falchi di Zagabria, oh madre vittima di Gesù giaci nella polvere di Sidney, dato che le celebrazioni finiscono, in quanto devono finire”. In Italia sicuramente i DIJ non hanno mai raccolto stuoli di neofascisti rancorosi, bensì un pubblico non politicizzato e attento alle suggestioni musicali. A conferma di questa mancata interpretazione ideologica, domenica sera l’audience era composto per la maggior parte da nuovi fan che forse all’epoca di Brown Book (1987, uno dei lavori più riusciti) non erano ancora nati (vestiti di scuro, of course, per ovvio ossequio all’animo dark). “Nasconditi dal sole, la vita, una lacrima ghiacciata, fiumi di sangue cantano i miei polmoni. Annegare una rosa, annegare una rosa. Lui mi prenderà l’anima? Mi strapperà il cuore? Mi squarcerà?... Come una lacrima di cristallo io attendo di tradire, la bugia sul mare, il mio amore è odio per me. Annegare una rosa, annegare una rosa…”. I brani hanno coperto l’intera trentennale carriera, con molti pezzi famosi dai primi album e da quelli d’inizio anni ‘90, presentando anche alcuni estratti da Peaceful Snow, ultimo lavoro uscito nel 2010, ovviamente in veste folk percussiva come gli altri, data l’assenza di piano o quantomeno di tastiere sul palco. “Frastornato e assediato, confuso e confermato, poiché per l’uomo che lavora per esser libero l’unica realtà è una vita sotto assedio perché la vita è fuori tono”. E così sfilano i tanti “successi” acclamati dai fan più accesi. Douglas chiede anche alla platea quali brani vogliano sentire, a conferma di un umore positivo e interattivo. Verso la fine i pezzi sono quasi accennati uno dopo l’altro, per dar spazio alle varie richieste. Dopo più di un’ora e mezza il concerto si chiude con Heaven Street e C’est Un Reve. “Dov’è Klaus Barbie, dov’è Klaus Barbie? Egli è nel cuore, nel cuore nero. La libertà è un sogno.”
Unica nota stonata: la lodevole iniziativa degli organizzatori di introdurre il concerto con un seminario sui testi, i simboli e i riferimenti letterari dei DIJ avrebbe potuto svolgersi già dalle 22.00 con tutta calma, invece di venir troncata dall’intemperanza di alcuni fan stufi delle parole e in smaniosa attesa dei loro idoli.

 

Death In June

Salerno, Forte la Carnale, 16 dicembre 2012

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