“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 20 October 2013 02:00

L'angelo del varietà

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Serata interamente brit(ish) domenica sera al Godot Art Bistrot di Avellino (non me ne vogliano i nazionalisti scozzesi, ma british va inteso in senso lato): è di scena Nick Currie, in arte Momus, il folletto indie che è stato tra i primi a recuperare al rock la melodia della canzone d’autore (e non) degli anni ’60, attingendo a piene mani anche alla tradizione francese (Brel e Gainsbourg come numi tutelari per sua ammissione). Tutto questo ha inizio quando in Scozia nuovi gruppi come Aztec Camera, Joseph K e Orange Juice esordivano con dischi in cui voce e chitarre imbastivano umbratili canzoni lontane dalle angosce del dark.

Dopo l’esordio acustico di Circus Maximus (1986), dalle melodie intonate con voce rotonda e nitida, The Poison Boyfriend segna l’inizio della collaborazione con l’etichetta Creation ed anche l’apertura ad un arrangiamento più corposo da band, anche se sono rari i pezzi brevi dall’appeal radiofonico poiché i suoi testi sono vere e proprie storie che richiedono un adeguato svolgimento e tempi confacenti. Del resto le sue liriche non sono quasi mai dirette, ma piene di allusioni, metafore, rimandi letterari, citazioni colte o invettive triviali, tese a costruire piccoli quadri di costume, a volte veri e propri dialoghi teatrali, tessute in un inglese florido e allitterato, plausibili anche senza il supporto della musica. Segue Tender Pervert e l’elettronica si affianca alle acustiche e agli esili arrangiamenti orchestrali per segnare ritmi a volte smaccatamente dance sull’onda dei Pet Shop Boys, quasi a ricercare una semplicità pop(ular) nella musica che per contrasto metta in risalto ancor di più il valore dei testi. Forse non è azzardato pensare che la sua musica abbia definito per prima il concetto di britpop così come verrà poi declinato dai Blur e dai Pulp su tutti.
Più narratore che musicista, Momus ha però una grande abilità compositiva: la voce intona un canto confidenziale che segue con abilità le scansioni ritmiche e melodiche dei pezzi, rendendo gli album collezioni eterogenee e mai ripetitive di canzoni che nascondono soluzioni solo apparentemente semplici. A queste sue doti Nick ne ha aggiunte almeno altre due, dimostrate con naturalezza e sicurezza nell’arco del concerto: innanzitutto è anche artista visuale – i video che accompagnano i suoi brani (disponibili tutti su youtube) sono assemblaggi di film, reperti televisivi, immagini morphizzate, insomma rappresentazioni degli argomenti cantati usate in modo ironico e allusivo – poi è un divertente e agile performer che mima i suoi versi con entusiastico trasporto. E per essere più libero nei movimenti, il Nostro si è avvalso del solo supporto del suo iphone che conteneva i video e le basi musicali su cui cantare, recuperando in tal modo la ricchezza dei suoni dei dischi (difficilmente riproducibile dal vivo, specie nel pop) e evitando nel contempo l’effetto karaoke. Sedici i brani proposti che hanno spaziato dal suddetto Tender Pervert a lavori dei secondi ’90 fino a quelli pubblicati di recente con altri musicisti (due i dischi usciti quest’anno: MomusMcClymont con David McClymont per l’American Patchwork e Bambi per Darla). Si parte con Gibbous Moon (da Thunderclown, disco del 2012 con John Henriksson) come degna presentazione del personaggio, sulle immagini de La morte corre sul fiume: “Licenziato in poco tempo / con un semplice gesto di mano / son diventato il clown tonante / e così sto da solo / il clown tonante è Eraclito / che piange sull’oscuro / vestito in abiti scuri / incompreso e puro”. Momo è il dio dello scherno, della parodia, della derisione e mai pseudonimo si è rivelato più calzante ad un autore che nel suo alter-ego interpreta il buffone che strappa le maschere delle nostre illusioni, affabulando e al contempo irretendo egli stesso il suo pubblico. Farsi beffe degli ottusi pregiudizi della massa è quanto riesce al protagonista di The Homosexual che, da tutti considerato gay, seduce le donne dei benpensanti, mentre le immagini di video anni ’80 si coniugano a ritmiche sintetiche segnate da dissonanze e la voce è quella di un Neil Tennant fuori classifica. Cosa si celi nel paragonarsi alla Dama di Shalott (The Lady of Shalott da Folktronic del 2001) di Alfred Tennyson è arduo a dirsi: forse una semplice invocazione d’amore (Nick mima un abbraccio) o il senso che lasciarci conquistare àlteri per sempre la nostra identità. Sta di fatto che il buon Nick rifugge l’incomunicabilità di molto cantautorato moderno con una buona dose di autoironia e di orecchiabilità: con un tono da Lou Reed in chiave soul egli è Born to Be Adored (“Fui creato nei bordelli d’Arabia / mia madre era la segretaria dell’Imperatore / mio padre, un noto libertino / scappato da Sodome e Gomorra, le città in pianura / puoi leggere sull’ascesa e la caduta della mia famiglia in [le opere di] Gibbon / sono nato per essere adorato dalle donne”).
Lo shibuya kei dei giapponesi con il “mal d’Europa” (Pizzicato Five in primis) ritorna in Good Morning World, originariamente cantata da Kahimi Karie, protégé e musa del Nostro (il quale vive anche ad Osaka da anni). Sfilano ritratti del suo viso sovrapposti grottescamente ad altri volti: Momus si trasfigura musicalmente in un Elvis Costello o in un Paul Weller romantico e testualmente nella Widow Twanky, classico ruolo en travesti della tradizione comica ottocentesca inglese. Omaggio dovuto all’Italia la sua Giapponese a Roma – lanciata da Kahimi Karie – nella versione non castigata, per proseguire con Hypnoprism (dall’albo omonimo) che mutua abilmente melodia e ritmo da The Year of the Cat di Al Stewart su un montaggio video alternato tra la Callas di Medea e Brian Ferry (sue grandi passioni). Inscena poi una danza sulla marcetta per organetto di I Want You, But I Don’t Need You e le immagini mostrano leggiadri ballerini da un vecchio concerto di Capodanno. Sequenze che lasciano spazio a scene di Rosso sangue di Leos Carax, e la poesia è scandita da ritmi tecno per discoteche di velluto. Prefinale con un vero e proprio regalo all’audience: Ashes to Ashes come Bowie l’avrebbe fatta al tempo della sua infatuazione per la jungle (Earthling o giù di lì) piena di scratch e cut-up dada nel suono e nelle immagini (pare che il Duca non sia rimasto molto soddisfatto). The Vaudevillian chiude teatralmente il set, su note di orchestrina stonata prima che cali il sipario sulla ribalta della vita (e le immagini sono quelle di Norman Wisdom, attore di teatro, cinema e tv inglese scomparso da poco): “E adesso ti fai un sonnellino / e al tuo risveglio le stelle sono spente / e Dio è morto e c’è questo odore / e non ti senti molto bene / pare proprio che tu sia morto, maledizione / artista del vaudeville / uno su un milione”).

 

 

Momus
Avellino, Godot Art Bistrot, 13 ottobre 2013

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