“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 31 May 2013 02:07

Orion, Ciampino (Roma): MY BLOODY VALENTINE

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"Io ne ho ascoltate di cose che voi umani non potreste immaginarvi,

Fender Jazzmaster di ogni colore in fiamme sul palco dell’Orion di Roma,

e ho ascoltato le onde sonore balenare nel buio vicino alle porte di Ciampino.

E tutti quei droni non andranno perduti nel tempo no,

come lacrime nella pioggia, ma resteranno indelebili per sempre nelle nostre menti.

È tempo di gioire".


Credete forse che stia esagerando, eh? E invece no, proprio no! È questa la sensazione che si ha quando Kevin, Bilinda, Debbie e Colm, ovvero i My Bloody Valentine, dismettono i loro strumenti. Fino al giorno prima credevo che appartenessero al mito, alla fantasia, per me avevano la stessa sostanza di Adamo ed Eva, di Tizio e Caio, di Gesù… fino al giorno prima, appunto.

Avete mai immaginato di essere un astronauta di una missione spaziale della NASA, una di quelle missioni che siamo abituati a vedere nei film o nelle immagini provenienti da Cape Canaveral con tanto di conto alla rovescia ed accensione dei motori a reazione? Bene, io più che sentirmi un astronauta, mi sono sentito proprio al centro di uno di quei propulsori che spingono in alto lo shuttle, questo è accaduto appena un drone violentissimo è fuoriuscito dalla gran quantità di amplificatori sul palco: almeno sei a testa per Shields e per la Butcher, due Orange e due Marshall JCM900 1960 a quattro coni e due o tre Vox ac30 2x12, una cosa pazzesca. Debbie Googe, la bassista, si è difesa abbastanza bene con altri due bestioni enormi con testata. In mezzo a questa muraglia di amplificatori si è fatta rispettare la batteria minimale di Colm O'Ciosoig: gran cassa, rullante, un charleston, un tom e due piatti…  basta!

Assistere ad un concerto dei My Bloody Valentine è un’esperienza di quelle che non si possono immaginare: è una cosa che ti sconquassa, che ti attraversa, che ti segna, che ti smembra e ti ricompone e ti smembra di nuovo e che ti fa esclamare due cose alla fine, perfettamente antitetiche: “mai più!”, “ancora, ancora!”

Si è trattata di un’esperienza che può essere raccontata in modi diversissimi tra loro. C’è chi la descriverebbe come catartica, e ci sta tutto, perché è come se ti sentissi ripulito dalle tante scorie che ti porti addosso o meglio che ti porti dentro, dopodiché hai quella sensazione di fluttuare quasi, di galleggiare leggero nell’aria mentre tutto attorno ti sembra ovattato. Oppure c’è chi la descrive come un viaggio in un’altra dimensione, e un momento dopo essere stato investito da un muro del suono di potenza abnorme, al ritorno nella realtà ti può sembrare di (ri)vivere in una scena al rallentatore, avvolto da una sensazione di incredulità, sia per la quantità di onde sonore violentissime che ti hanno trapassato da parte a parte lasciandoti un fruscio persistente nelle orecchie, sia perché dopo tutto questo è difficile credere di essere ancora intero, con tutte le parti del corpo al proprio posto (e mi riferisco soprattutto alle orecchie). Oppure c’è chi come me in tutto quel rumore si è sentito sereno, felice, protetto, in viaggio verso chissà quale stella dell’universo, avvolto in un guscio tipo quello di superman bambino, quello di quando arrivò sulla terra, una specie di navicella-meteorite che lo proteggeva dal calore prodotto dalla frizione con l’aria presente nell’atmosfera. Mi sono sentito come inglobato in una supernova appena esplosa!

Doveva sentirsi così anche il migliaio di persone accorse lì il 29 maggio per assistere al concerto. C’era gente di tutti i tipi e di tutte le età, dai teenager agli over40 che poi erano quelli che avevano guadagnato la prima fila proprio sotto al palco, sprezzanti del pericolo che stava per incombere preannunciato da almeno sei monitor rivolti non verso i musicisti, ma verso il pubblico!

I più provenivano da Roma e dintorni, ma parecchi erano del sud Italia, chi della Basilicata chi dell’Abruzzo come ad esempio un paio di ragazzi incontrati all’ingresso, alla fila per i biglietti, in un clima misto di ansia e di eccitazione; dovevano essere due gemelli tanto si somigliavano, e all’uscita si prendevano per il culo perché uno dei due aveva messo i tappi e quindi era stato un pavido.

L’Orion, il locale di Ciampino in cui si è svolto il lieto evento, somigliava più ad una discoteca che ad un posto adibito ad esibizioni live. Era scuro dentro, con i led che evidenziavano i gradini della scalinata a semicerchio prima del palco.

Quando è iniziato il concerto, già dalle prime note ci si è resi conto che sarebbe stata dura resistere sotto, ma era impossibile staccarsi dalle espressioni estatiche di Bilinda che cantava inclinando leggermente il capo da un lato e con lo sguardo fisso verso un punto indefinito dietro di noi. Ogni tanto faceva qualche smorfietta di disappunto perché qualcosa le dava fastidio. Lei eterea com’è non si distingueva nella voce se non impercettibilmente in quel marasma di distorsioni e di riverberi e di chorus sospinti da un volume blu. In compenso anche la voce di Kevin risultava indistinguibile ma gli accordi e gli assoli si sentivano eccome e potevi seguirne le evoluzioni dalle dita che si muovevano sul manico delle tante, tantissime ed innumerevoli e bellissime e coloratissime jazzmaster che prendeva ad ogni pezzo. Belinda dal suo canto aveva delle brillantinatissime e non meno potentissime Fender Mustang. Più dietro e al centro Debbie si dimenava come un’indemoniata assieme a quell’ altro posseduto dal dio del ritmo e delle rullate di Colm. La cosa curiosa è stata che Kevin molto spesso si avvicinava al muro di ampli alle spalle, come per sentire meglio: sono sicuro che le orecchie lui sì che se le è fottute, e da parecchio anche. Buon per noi, così sarà costretto sempre ad alzare di più il volume con grande gioia di chi l’ascolta!

Poi, all’improvviso, dopo circa un’ora e mezza, il concerto è finito. Loro ci salutavano ma noi restavamo lì ad aspettare il solito bis, perché così ci hanno abituati, o no? E cioè è successo sempre che chi suona va via e chi ascolta fischia e sbraita e dice ‘one more time – one more time – one more time’.
Ma questa volta no, non funzionava così, e te ne accorgevi dal fatto che sul palco sono giunti subito quelli del service per staccare tutto, ma soprattutto te ne accorgevi dal fatto che un ragazzo straniero di quasi due metri, che si è dimenato tutto il tempo di fianco a te, ti diceva seccamente: “they never come back again!”

Allora lì pensi: “ma come, non hanno fatto Sometimes? L’hanno fatta? No dai! E io non me ne sono accorto?” Chissà da cosa sei stato risucchiato mentre hai vagato completamente disorientato da un quarto d’ora ininterrotto di droni alla massima potenza.

Comunque non fa niente, anzi il fatto che non siano usciti per il ‘bis’ non può che farmeli apprezzare di più, primo perché non si sono prestati a quel solito giochino stupido “che tanto so che poi esci di nuovo quindi è inutile che te ne vai però comunque fai la parte”,  e poi perché dopo una chiusura del genere che vuoi di più? Devi solo andare via e sperare che una cosa simile ti possa capitare di nuovo, e nel frattempo cercare di farlo sapere a quante più persone possibile in modo che anche queste possano essere coinvolte nel prossimo concerto e goderne, come ho fatto io.

 

My Bloody Valentine
Ciampino (Roma), Orion, 29 maggio 2013

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